domingo, febrero 14, 2010

Proust e gli oggetti "parlanti"

E' Remo Bodei, nel saggio che ho recensito più sotto (La vita delle cose), a permettermi di inoltrarmi in uno dei molti aspetti curiosi ed ermeneuticamente affascinanti della Recherche: il prof. Bodei parte dalla famosa scena primordiale che apre Dalla parte di Swann (quando il Narratore, adulto, ricorda i momenti che, bambino, precedevano l'arrivo della mamma prima del bacio della buonanotte), per riflettere su come noi percepiamo le cose che ci circondano e su come queste ci appaiono "strane" nel momento tipico del "dormiveglia":

"Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istanti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d'aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito ad unirmi" (Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, vol. I, p. 6 dell'ed. Mondadori, 1983, grassetti miei).

L'io si sente parte di un tutto organico; noi siamo cose tra le cose, quando perdiamo (temporaneamente) la percezione della nostra identità sotto i colpi del dio Morfeo. E' solo dopo che l'effetto narcotizzante del sonno è svanito che il Narratore può riconoscere la propria stanza, il proprio letto, la propria posizione fisica nello spazio (e, quindi, anche nel tempo), e ricollocare gli oggetti che riempiono la stanza negli appositi spazi e alle apposite distanze note.

Ma saltiamo alla parte conclusiva di "Combray" (la prima parte del vol. I della Recherche):

"Sapevo in quale camera mi trovavo realmente, l'avevo ricostruita intorno a me nell'oscurità e - orientandomi con la sola memoria, oppure servendomi, come indicazione, d'un debole chiarore che era filtrato e in base al quale sistemavo le tende della finestra - l'avevo ricostruita per intero, arredandola come un architetto e un tappezziere decisi a rispettare le aperture originarie di porte e finestre, riabbassando gli specchi, riportando il cassettone al suo solito posto" (id., p. 227).

E' grazie alla memoria che l'io può letteralmente ricostruire, rimettere in ordine, ridisegnare perfettamente e in linea con la norma gli spazi e gli oggetti (le cose inanimate) che lo circondano abitualmente. La memoria è qui rappresentata plasticamente come una specie di "architetto" o "tappezziere" che mette ordine al caos. Nel corso del romanzo, Proust userà molte altre "metafore" per spazializzare la memoria (in una di queste la paragona a un negozio di fotografie che, nella vetrina, tiene esposte sempre le stesse foto); è curioso, comunque, constatare che sin da ora, sin da questo "momento" della Recherche, la memoria sia presentata come un architetto, un arredatore, un pittore o un tappezziere impegnato nel difficile compito di fare in modo che tutto torni, che gli oggetti occupino un luogo preciso e le cose non siano lasciate in una sorta di limbo in cui - se non stiamo attenti - rischia di galleggiare anche l'io (rimembrante, oltre che narrante).

La citazione di sopra continua per dirci come prosegue l'azione della memoria:

"Ma appena il giorno [...] tracciava nell'oscurità, come col gesso, la sua prima riga bianca e rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava subito il vano della porta dove l'avevo collocata per errore mentre, per farle posto, lo scrittoio, installato là maldestramente dalla mia memoria, scappava velocissimo spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del corridoio; dove, un istante prima, si stendeva la stanza da bagno, regnava ora un cortiletto, e la casa che avevo ricostruita nelle tenebre era andata a raggiungere le case intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga dal pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno" (id. p. 227).

E' come se qui il lettore assistesse ad una scenetta comica: il protagonista ci sta rendendo partecipi del suo stato di dormiente appena tornato alla vita, di dormiente che si è appena lasciato alle spalle il sonno, di dormiente che ha appena aperto gli occhi e ripreso coscienza di sé, del luogo in cui si trova e del tempo che ha passato in quella camera da letto quando ancora dormiva, presentandoci la memoria come una sorta di muratore (oltre che tappezziere e architetto) che, con velocità supersonica, rimette in ordine l'errata primigenia percezione che questi aveva delle cose e degli spazi circostanti. Come se, agli ordini ferrei di un capo distratto - la memoria - gli oggetti si affrettassero a seguirne i dettami e si impegnassero a riprendere ognuno il proprio posto quotidiano, quello che si da per scontato che occupino...

Sembra una scena da un film di Buster Keaton. La scena di un film muto e comico in cui gli oggetti, da inanimati, prendono vita e, guidati da una memoria severa, si organizzano nello spazio per non disorientare l'io che li guarda e li ricorda (in principio) in posizioni del tutto errate o sballate.

Ma andiamo avanti: nella Seconda Parte de All'ombra delle fanciulle in fiore (intitolata "Nomi di paesi: il paese"), Proust (ovvero, il Narratore) torna a far parlare gli oggetti, riprendendo quasi alla lettera la situazione con la quale dava l'avvio alla sua narrazione dell'infanzia e di Combray. Marcel si è trasferito a Balbec, luogo di villeggiatura e di mare, in compagnia della nonna, per curare il suo cagionevole stato di salute. I due affittano due stanze in un hotel. Marcel è appena entrato e perlustra la stanza anonima e fredda dell'albergo, riflettendo proprio su come noi siamo abituati a trattare gli oggetti che ci circondano come se fossero dei fedeli alleati quotidiani che ci aiutano a mantenerci con i piedi per terra; basta cambiarne la disposizione o basta cambiare luogo, perché l'io perda le coordinate spazio-temporali che gli oggetti stessi rappresentano loro malgrado:

"E' la nostra attenzione a mettere gli oggetti in una stanza, ed è l'abitudine a toglierli e a farci spazio. E spazio, per me, non ce n'era nella mia camera di Balbec (mia soltanto di nome), traboccante di cose che non mi conoscevano e che restituirono la mia occhiata diffidente, facendomi capire, senza tener alcun conto della mia esistenza, che io disturbavo il tran-tran della loro" (id., p. 807).

Siamo al colmo: gli oggetti, nella Recherche, non solo fungono da coordinate spazio-temporali per il Narratore che ha intrapreso la ricerca del tempo perduto, ma, come qui, addirittura, si animano per guardare con diffidenza quello stesso Narratore che non li conosce e non li vede come "propri", come parte del suo "ambiente familiare". La citazione continua (e qui, più che a una comica di Buster Keaton, sembra di assistere alla visione di Toy Story):

"La pendola - mentre la mia, a casa, non la sentivo che per pochi secondi alla settimana, solo quando uscivo da una profonda meditazione - s'ostinò a tenere in una lingua sconosciuta, senza un'istante di tregua, discorsi che dovevano essere sgarbati nei miei confronti, giacché le grandi tende viola li ascoltavano senza rispondere, ma con l'espressione di chi alzi le spalle per significare che la vista d'un terzo lo indispone. [...] Ero tormentato dalla presenza di piccole librerie a vetri che correvano lungo le pareti, ma soprattutto da una grande specchiera piazzata trasversalmente alla stanza e a prescindere dalla cui rimozione sentivo che non ci sarebbe stata per me la minima possibilità di rilassamento. Alzavo di continuo lo sguardo - cui gli oggetti della mia camera di Parigi non davano più fastidio di quanto gliene potessero dare le mie proprie pupille, in quanto non erano altro che annessi dei miei organi, un'appendice della mia persona - verso il soffitto troppo alto di quel belvedere posto in cima all'albergo che la nonna aveva scelto per me [...]" (id. pp. 807-808).

Basta un diverso stato d'animo (oltre che un po' d'abitudine) per cambiare questa stessa stanza d'albergo. Il Narratore ha appena fatto la conoscenza (solo visiva, al momento) di Albertine, una delle "fanciulle in fiore" che vivono a Balbec e che stravolgeranno per sempre la sua esistenza, che questi percepisce con un nuovo sguardo e un cuore innamorato quegli stessi mobili e oggetti che, duecento pagine prima, ci ha presentati con toni tanto "grotteschi" e amareggiati:

"Di colpo, la mia camera mi sembrava un'altra. [...] Ed ecco che ricominciavo a vederla, ma, stavolta, da una prospettiva egoistica qual è quella dell'amore. Pensavo che ad Albertine, se fosse venuta a trovarmi, il bello specchio obliquo, le eleganti librerie a vetri avrebbero dato di me un'idea lusinghiera. Non più luogo di transizione, dove passavo solo un momento prima di evadere verso la spiaggia o verso Rivebelle, la mia camera mi ridiventava reale e cara, si rinnovava, perché ne guardavo e apprezzavo ogni arredo con gli occhi di Albertine" (id. p. 808).

Un fenomeno simile (animazione degli oggetti inanimati; personificazione del mobilio della stanza; percezione positiva o negativa di uno stesso luogo, a seconda dello stato d'animo con cui il Narratore osserva lo spazio esteriore) si verifica all'inizio della Terza Parte, La parte di Guermantes (vol. II, pp. 95-103 dell'ed. cit. supra).

Marcel è andato a trovare l'amico militare, Robert de Saint-Loupe, a Doncièrs, e va a dormire nell'Hotel de Flandre, un antico palazzo ristrutturato da poco, per poter stare il più vicino possibile alla caserma di lui. Se, in un primo momento, Marcel ha paura che la stanza dell'albergo gli farà lo stesso effetto di quella in cui ha passato le vacanze a Balbec, in un secondo, e quando inizierà ad esplorarlo in lungo e largo, si adatterà così bene all'ambiente che...i mobili e gli oggetti, le mura e le finestre dell'hotel cominceranno a prendere la parola per "illustrargli" le bellezze del paesaggio circostante:

"Prima di coricarmi, volli uscire dalla camera per esplorare tutto il mio fiabesco dominio. Seguii una lunga galleria che mi fece via via omaggio di tutto ciò che poteva offrirmi nel caso che non avessi sonno: una poltrona sistemata in un angolo, una spinetta, su una mensola un vaso di maiolica azzurra pieno di cinerarie e, in una vecchia cornice, il fantasma d'una dama d'altri tempi, con i capelli incipriati cosparsi di fiori azzurri e, in mano, un mazzo di garofani. Arrivato in fondo, un muro pieno nel quale non s'apriva alcuna porta mi disse con candore: "Adesso devi tornare indietro, ma, lo vedi, qui sei a casa tua", mentre il soffice tappeto, per non essere da meno, aggiungeva che se, quella notte, non fossi riuscito a dormire, avrei potuto benissimo tornarmene lì a piedi nudi, che le finestre senza scuri affacciate sulla campagna avrebbero passato - ne stessi pur certo - la notte in bianco, e che, a qualsiasi ora fossi venuto, non c'era pericolo di svegliare nessuno. E dietro una tenda sorpresi un piccolo gabinetto che, fermato dal muro e non potendo scappare, s'era nascosto in quell'angolo mogio mogio, e mi guardava spaventato col suo occhio di bue inazzurrato dal chiaro di luna". (id. pp. 96-97).

Come dimenticare, d'ora in avanti, quel muro "parlante" che invita il Narratore a sentirsi come a casa sua? Come potrò più scordarmi del tappeto che invita a passarci sopra, a piedi nudi, la notte d'insonnia? O la finestra, pronto ad accoglierci per lo stesso motivo? E che dire di quel gabinetto che, mogio mogio, ci "guarda con occhio spaventato"?

La potenza creatrice dell'immaginazione proustiana è in grado di fare veri e propri "miracoli", come far parlare le cose inanimate; di farle interagire con gli esseri umani; di fare in modo che gli oggetti (come ci insegna Remo Bodei) parlino, e, a chi sappia ascoltarli, comunichino la loro storia personale e più nascosta...

No hay comentarios:

Publicar un comentario

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...