sábado, abril 06, 2013


CONFERENZIERI

Ho dato corsi monografici in diverse Università italiane (da Pisa a Roma, da Napoli a Trento, passando per Padova e Catania); ho partecipato a congressi e convegni sparsi per l’Europa (dalla Francia alla Spagna, dalla Germania al Portogallo); ho parlato davanti a migliaia di studenti, nel corso della mia piccola povera carriera accademica o pseudo-tale, eppure… ogni volta è come la prima volta, ogni volta un’emozione diversa, quando il prof. del posto ti presenta alla platea e tu ti schiarisci la voce e ti appresti ad avvicinarti al microfono per dare la tua lectio quasi mai magistralis… L’ansia da prestazione, sì, è di quello che si tratta (e di questo parlano alcuni capitoli strepitosi e pieni d’auto-ironia di quel folle di Enrique Vila-Matas – spesso i suoi romanzi iniziano come una lezione o una conferenza impartita da qualche scrittore in erba – o in pensione – o da qualche critico letterario in crisi – o editore sull’orlo del fallimento – e allora tu, lettore, ti accingi a seguire gli andirivieni, il zigzagare complicato della mente del conferenziere e, nel mentre, ti chiedi: “Ma dove vuole andare a parare questo tizio che mi parla della “crisi del romanzo nell’era contemporanea” – per dirne una, ma potrebbe anche trattarsi della “forma del diario nella letteratura del Novecento” – e, nel frattempo, la conferenza cambia e diventa confessione personale del conferenziere per cui, dopo un po’, ti rendi conto che quello che stai leggendo è l’autobiografia fittizia – o pseudo-autobiografia – del personaggio del conferenziere perché, te ne accorgerai immediatamente, basta leggere il secondo capitolo e capire che qualcosa sta per accadere, che il conferenziere parlava di letteratura quando, invece, è lui stesso il soggetto oggetto del romanzo e che sì, insomma, quello che stai leggendo è un romanzo, anzi, come è normale e ormai solito  che sia in Enrique Vila-Matas, è un romanzo al quadrato o romanzo metaletterario”…).

Chi parla ha davanti a sé una massa indistinta di persone e non sa (né può assolutamente prevedere) quale sarà l’effetto delle sue parole sul pubblico; chi parla lo fa senza poter calcolare né l’interesse reale né la formazione iniziale di tutti quegli studenti (o colleghi o addetti ai lavori o semplici aficionados) che stanno seduti lì proprio per ascoltarlo.

Chi parla sa già che seguirà più o meno una scaletta, ha previamente redatto una specie di sceneggiatura per quanto andrà sviluppando nel corso dell’oretta o oretta e mezza che durerà la sua lezione falsamente magistrale. E il fattore tempo è decisivo (lo sanno tutti quelli che fanno questo mestiere: se ti concedono 20 minuti, beh, allora, non c’è scampo, puoi “leggere” a volte alta o “ragione” in pubblico su un massimo di 7 pagine; 7 e mezza e già sei fuori tempo massimo).

Chi parla sa già che arriverà il momento cruciale in cui rischierà d’incartarsi e di andare fuori tema e sa già che dovrà sforzarsi di non aprire troppe parentesi che poi non chiuderà; di non fare troppi riferimenti alla situazione politica attuale; di non essere troppo ironico né di fare troppo il serioso perché allora sì che il pubblico potrebbe annoiarsi e abbandonarlo a se stesso e alle sue vane parole.

Chi parla sa che prima o poi arriverà quell’altro momento cruciale e decisivo e critico, quello in cui si sentirà la gola secca e la bocca asciutta, quello in cui la saliva, come per arte di magia, svanirà dalla sua bocca e sarà costretto a chiedere umilmente al collega che lo ha invitato di passargli la bottiglietta dell’acqua (e se non è aperta, il conferenziere sa bene che il solo atto di aprire la bottiglietta e di versarsi l’acqua nel bicchiere creerà una certa suspense nel pubblico, magari concentrato e pronto a seguire il filo del discorso, magari talmente interessato all’argomento da indovinare quale sarà la frase successiva che pronuncerà il conferenziere subito dopo aver bevuto il suo meritato e sacrosanto sorso d’acqua).

Chi parla sa tutte queste cose; sa pure che, tra il pubblico, ci sarà la studentessa affascinante e ritrosa (o chiaramente scontrosa) che non avrà nessunissima voglia di seguire il discorso del conferenziere e ne approfitterà – per così dire – per aggiornare il suo profilo su Facebook – o per spiare quello degli amici più stretti – attraverso il touchscreen del suo Iphone; chi parla sa bene che, tra tutte quelle teste pensanti, ci sarà pure colui che letteralmente “staccherà la spina” per pensare ai fatti suoi (o alla fidanzata che l’ha appena mollato, o al motorino che l’ha lasciato a piedi la mattina stessa, o all’affitto da pagare a un padrone di casa di cui non conosce ancora nemmeno il volto). E quindi chi parla lo farà con la coscienza di stare gettando metaforicamente una bottiglia in mare, un messaggio collocato all’interno di una bottiglia che non si sa se arriverà mai a toccare terra e a interessare l’attenzione di un eventuale futuro lettore o spettatore.

Chi parla sa della natura debole delle parole lanciate al vento (anche se oggi, grazie alla tecnologia, anche questo tipo di parole al vento “perme” intatto grazie ai registratori incorporati in qualsiasi smartphone che si rispetti e oggi d’uso presso le nuove generazioni). Eppure chi parla sa pure della natura forte delle parole; del fatto che possono servire a cambiare il mondo o, almeno, il modo di pensare e di ragionare delle persone che ha davanti e che – si suppone – sono sedute là davanti proprio per ascoltarlo.

Ed è con questa speranza (nell’illusione di dare un senso “forte” alle parole che pronuncia in pubblico) che chi parla, nel corso di una lezione o di una conferenza o di un congresso, parla al pubblico con tutto l’entusiasmo e la forza e la bravura che può. Il conferenziere sa che si sta giocando il tutto per tutto, per l’intero arco temporale in cui si svolgerà la sua performance. Ed infine, chi parla, quando poi torna a casa o, più in generale nell’hotel della città in cui è stato invitato a dare la sua performance, si rende conto che è proprio questo: il giocarsi il tutto per tutto, a dare quella strana e affascinante adrenalina che lo ha accompagnato dal momento in cui è suonata la sveglia e si è alzato dal letto al momento in cui, a fatti ormai compiuti e parole ormai pronunciate, a spettacolo concluso, se ne torna su quello stesso letto per riposarsi e staccare letteralmente la spina. Che lavoro il lavoro di chi, per campare, usa le parole e invita gli altri a riflettere sulle parole (quelle che gli altri ci hanno lasciato e quelle che noi possiamo lasciare agli altri).

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