miércoles, abril 17, 2013


Elena Ferrante ci afferra e ci trascina giù,
ne I giorni dell’abbandono



E’ difficile parlare di un romanzo quando questo romanzo ti colpisce, ti fa restare a bocca aperta, t’impedisce di vivere tranquillamente, ti obbliga a leggere fino a tarda ora nella notte, t’intrattiene nel senso meno piacevole del termine “intrattenimento” (nel senso, cioè, che ti trattiene a sé, come se si trattasse d’una strana calamita) come riesce a fare I giorni dell’abbandono, di Elena Ferrante (Roma, e/o, 2002).

E’ difficile e complicato parlare di un romanzo scritto in un italiano perfetto pur essendo questo italiano il frutto di un’attenta, precisa operazione “a incastro” tra l’idioletto personale dell’autrice (d’origini napoletane) e l’italiano apparentemente standard che possiamo captare dalla televisione e da un comune dialogo tra cittadini che s’incontrano per strada e si confessano i propri acciacchi comuni e quotidiani.

Qui l’acciacco è dei più tremendi e tristi e sconvolgenti (seppure si tratti di un fenomeno quotidiano e comune, che capita a tutti e che capita ogni minuto): Olga, moglie trentottenne e felice di Mario, ingegnere affermato e professore universitario, viene abbandonata da questi per un’altra (Carla, la figlia appena ventenne d’una loro comune amica).

A chi non sarà capitato di assistere al dolore di colei che viene lasciata? (o anche di colui, perché – da che mondo è mondo – non sono solo gli uomini a lasciare, ma pure le donne, diciamocelo). A chi non sarà capitato di provare il dolore che Olga s’impegna a mettere nero su bianco nelle pagine di un diario che poi, chissà, forse non è altro che il libro che stiamo leggendo?

Tutti sappiamo quello che si prova in certi momenti: spaesamento, vertigini, senso d’inutilità totale e d’impotenza assoluta. Senso di abbandono, appunto, dovuto al radicale cambiamento che imprime colui che se ne è andato e ha lasciato un vuoto fisico (a partire dal lato del letto matrimoniale che nessuno rimpiazzerà, almeno per il momento).

Elena Ferrante è in grado di farci sprofondare nella disperazione e nell’angoscia più cupe della protagonista con una narrazione che assume i tratti del racconto del terrore (o del racconto surreale e onirico). Nei capitoli centrali, il lettore vive letteralmente dentro l’incubo che prima blocca e immobilizza e poi scuote e sballotta la povera donna, alle prese con chiavi di casa che non girano (o che si perdono), con Otto, un cane lupo che sta morendo per un insetticida (o forse una polpetta avvelenata), e con Gianni e Ilaria, i due figli piccoli, rimasti insieme alla madre, quando il padre è fuggito dall’amante.

Sono molti i temi scottanti che tocca l’autrice in questo romanzo che, a tratti, assume l’andamento del racconto poliziesco (ed è incredibile come l’uso abbondante dell’imperfetto nei verbi non rallenti, ma anzi, acceleri l’azione nei punti nevralgici della trama). Ne cito uno su tutti: quello della presenza dei morti nella mente dei vivi. Olga è affascinata e, al contempo, alquanto angosciata dai ricordi di una vecchia signora che, nella Napoli della sua infanzia, era stata abbandonata dal marito. I vicini la compativano, la donna abbandonata era vista come una sorta di “malata”, una che non sarebbe mai più riuscita a rifarsi una vita. Olga la ricorda e, in alcune scene del libro, sembra che questo spettro del passato sia tornato in vita; Olga sente quasi la tentazione di parlarci, sembra parlare con lei, ma poi si ferma e riflette: “Ci portiamo nella testa fino alla morte i vivi e i morti. L’essenziale è imporsi una misura, per esempio mai parlare alle proprie parole” (id., p. 136). Che i morti ci accompagnino è un dato di fatto; così pure colui o colei che ci ha abbandonati. L’importante è non cedere al ricatto dei ricordi, non credere che il fantasma di chi non c’è più (perché ha smesso di amarci o se ne è andato con un’altra o con un altro) possa ancora parlarci. Non si può parlare con le proprie parole (quelle che lanciamo al vento o che mettiamo una dietro l’altra nelle pagine di un diario). Il rischio che si corre è quello di diventare matti. Eppure, sono proprio le parole “nostre”, quelle che diciamo spesso solo a noi stessi, quelle che ci salvano e ci curano, quelle che ci aiutano ad esorcizzare il passato (e a tenere a bada il fantasma della persona amata che non è più disposta a vivere accanto a noi).

Elena Ferrante ha il coraggio di mettere quelle parole una dietro l’altra, nelle pagine del diario della protagonista, per mostrarci fino a che punto si può arrivare quando sembra che la vita non ha più senso e che l’amore fa solo male; Elena Ferrante – un po’ come Antonio Moresco – ha il coraggio di spingersi fino ai limiti del baratro e di piegare l’italiano a fargli dire cose che non sapevamo di sapere. E I giorni dell’abbandono è in grado di afferrare il lettore, di trascinarlo giù e di farlo tremare proprio sul bordo dei tanti baratri che ci portiamo dentro.

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