lunes, enero 12, 2015

Terre rare, di Sandro Veronesi: un padre in fuga e una figlia in crisi



Il primo romanzo di Sandro Veronesi s’intitolava Per dove parte questo treno allegro e apparve nel 1989 (o forse era il 1988) e parlava del rapporto complicato di un figlio nei confronti del padre: un ragazzo trentenne che ricorda vagamente il protagonista inetto de La coscienza di Zeno  di Svevo e un uomo sui sessant’anni, edonista, epicureo, narcisista, uno che gode dei piaceri della vita e che senza troppi problemi morali decide d’invischiare il figlio in una missione non certo eroica: riportare a casa i soldi che egli (il padre) ha lasciato in custodia alle banche svizzere e che ora lui (il figlio) dovrà rimpatriare in Italia possibilmente senza che la Guardia di Finanza sospetti nulla o lo fermi per strada...

Il romanzo si presenta, di fatto, anche come un road-movie, una sorta di Sulla stradaitaliano scritto da un trentenne (l’età di Veronesi all’epoca) che cerca di prendere le distanze sia dal proprio atteggiamento fin troppo moralista e passivo sia da quello fin troppo sfacciato e iperattivo del padre (un padre che, ora che ci penso, ricorda vagamente Berlusconi).

Evidentemente, i conflitti generazionali sono parte delle ossessioni principali di Veronesi: non è un caso che è un’altra figura di “padre scomodo” a farla da padrona ne La forza del passato (2000), il miglior romanzo del Nostro, un libro in cui un figlio (sposato e con prole) scopre che suo padre non era affatto quello stinco di santo che tutti credevano (generale dell’esercito, affiliato alla DC di Andreotti), bensì un’ex-spia al soldo del KGB russo (uno, insomma, che durante la Guerra Fredda, lavorava sotto silenzio per i comunisti sovietici).

E così, non è un caso che pure in Caos calmo (2006) torni in primo piano il rapporto tra un padre e marito divenuto improvvisamente vedovo e una figlia di dieci anni divenuta improvvidamente orfana e che accetta malvolentieri che il babbo decida di proteggerla dalla freudiana “elaborazione del lutto” aspettandola ogni mattina davanti alla scuola che frequenta con profitto.

Pietro Paladini, questo il nome del nostro anti-eroe contemporaneo, è l’uomo di potere, l’imprenditore in carriera che, a un certo punto della sua vita, decide di mollare tutto e di concentrarsi su quel che resta della sua famiglia. È una sorta di Bartleby di “melvilliana” memoria che “preferiribbe di no”. E ciò crea una situazione paradossale: tutti quelli che lo conoscono o lo frequentano per motivi di lavoro o di amicizia andranno a fargli visita davanti a quella stessa scuola in cui parcheggia la sua Audi; Paladini scende dalla giostra del mondo consumista-capitalista moderno ma questo stesso mondo torna a salire sulla sua auto sotto forma di incontri (a volte inaspettati) con i suoi colleghi, capi, amici, familiari, sconosciuti, e perfino con i suoi nemici più acerrimi...

Nell’ultima fatica, Terre rare (2014), Veronesi, dopo la pubblicazione della bellissima raccolta di racconti Baci scagliati altrove (2011) e il non proprio entusiasmante esperimento “noir” intitolato XY (2009), torna a narrare le vicende di questo anti-eroe ma cambiando diametralmente il segno della trama: da simbolo della stasi e della passività contemplativa, Paladini diventa qui simbolo del movimento continuo e anche inutile, dell’iperattività che fa accelerare il battito del cuore con tutti i rischi che una simile accelerazione comporta; della crisi portata all’ennesima potenza; della paura per ogni passo falso. Paladini si vede al centro di un complotto: quello di Lello, suo collega e socio fondatore della Super Car, una concessionaria che, apparentemente, si occupa di rivendere a un prezzo di favore macchine sequestrate e mai più pagate dai loro ricchi (o finto tali) proprietari. E così, nel giro di sole 24 ore, Paladini si ritrova senza più l’auto, senza patente, senza cellulare (e, quindi, anche senza i numeri di telefono delle persone che potrebbero aiutarlo), senza più “fidanzata” e, soprattutto, senza più figlia, scappata a Milano dalla zia Marta (la sorella di Lara, la moglie scomparsa per un infarto proprio mentre lui, Paladini, stava salvando un’altra donna sconosciuta in mare).

Tornano alcuni temi tipici della poetica del Nostro come quello dell’importanza delle coincidenze: come sarebbe andata se...; cosa sarebbe successo se invece che la strada A avessi preso la strada B...; perché quella dimenticanza mi ha fatto scoprire quella verità; etc. etc.

E torna, in primissimo piano, il rapporto complicato tra un padre e una figlia, quegli stessi membri di una famiglia in crisi dopo la scomparsa della figura materna.

Si potrebbero citare molte belle pagine di questo romanzo; ma credo che le migliori riguardino proprio quelle che vedono come protagonista assoluta Claudia, una ragazza diciottenne ormai divenuta donna e che scappa dal padre perché non ama più la sua vita a Roma e vorrebbe ricostruirsi un futuro a Milano, la città che Paladini abbandona dopo la morte di Lara e dopo aver lasciato anche il lavoro.

Si tratta di una ventina di pagine in cui il narratore in prima persona cede la parola alla figlia adolescente e appena maggiorenne che, in una sorta di monologo, confessa i motivi reali che l’hanno spinta a fare questa scelta. Il padre non la sgrida né la colpevolizza: si sorprende quando scopre che fuma, le chiede perfino una sigaretta e ascolta – desolato – qual è l’angoscia che la figlia non riesce più a trattenere a 8 anni di distanza dalla scomparsa della madre.

Se per Caos calmo possiamo parlare di un romanzo dotato di “realismo romantico” (l’Anti-Eroe moderno come individuo che accetta la morte e che pretende di difendere dal dolore e dalla percezione della morte sua figlia ancora troppo piccola), per Terre rare possiamo parlare di “realismo disincantato” (ormai l’Anti-Eroe non si sente più tale; Paladini è diventato davvero l’uomo comune, quello che deve fare i conti con un collega che lo invischia in una truffa che sembra non avere soluzione e con un mondo in cui molti lo considerano un “minchione”; quello che deve ascoltare la confessione sincera della figlia, ormai diventata adulta, e che deve accettare che, ormai, ha perso anche il suo ruolo di “protettore” nei confronti della stessa).

Insomma: Terre rare è un romanzo che si fa leggere con piacere; che spinge alla riflessione; che mette in scena un conflitto eterno come può esserlo quello tra padri e figli; che ci fa sorridere (cfr. il cap. 10, geniale, che Veronesi, nella pagina finale dei “ringraziamenti”, presenta come una cover dell’opera teatrale Mumble mumble ovvero confessioni di un’orfano d’arte, di Emanuele Salce e Andrea Pergolari); che ci spinge a trovare un nesso tra le epigrafi e il contenuto dei vari capitoli che queste stesse epigrafi introducono a mo’ di attacco).

[Per me la più bella resta quella tratta da un racconto di David Foster Wallace: "Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio"]

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