jueves, febrero 05, 2015

Fisica della malinconia, di Georgi Gospodinov: un romanzo tra passato e futuro (uno dei romanzi più tristi del mondo)




Dopo una bella raccolta di Epigrafi (tutte tratte da alcuni degli scrittori che più ammiro al mondo, come, ad es., T. S. Eliot  - che "mixa memoria e desiderio", come ogni buon poeta che si rispetti – o Fernando Pessoa – un grande esperto della malinconia evocata nel titolo – o il sempre enigmatico e metaletterario Jorge Luis Borges), Fisica della malinconia ci introduce all'interno del suo "mondo narrativo" attraverso un Prologo che fa paura: diversi "io" narranti ci raccontano come e quando sono nati; il lettore legge e va avanti ma si confonde perché questi "io" sembrano diversi e, allo stesso tempo, sembrano gli stessi, pezzi o riflessi della stessa persona che non sa (non ricorda) se è nato maschio o femmina, se nel 1913 (prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale) o nel 1968 (che, guarda caso, è anche la data di nascita dell'autore del romanzo, Georgi Gospodinov, a me prima di ieri del tutto ignoto...). E a un certo punto saltano anche le concordanze tra i soggetti e i verbi: "noi sono", "io eravamo", la grammatica diventa ballerina perché chi narra l'inenarrabile (in tal caso, il momento in cui, dall'utero materno, vieniamo catapultati nel mondo) non è letteralmente più in grado di stabilire una distanza di sicurezza tra ciò che si pretende raccontare e ciò che è effettivamente accaduto (in questo passato così sfocato e così mobile).

"Io siamo", è così che si chiude questo "Prologo" vertiginoso. E bisogna arrivare a p. 70 per capirci qualcosa: perché è in questa pagina che l'"io" dell'autore esce allo scoperto (o almeno, sembra farlo) e ci avvisa: "Il passato si distingue dal presente per un dato sostanziale – non scorre mai in una sola direzione. Da dove sono partito? Meno male che scrivo, altrimenti non sarei mai riuscito a trovare il bandolo della matassa...".

Ecco: la scrittura come ancora di salvezza; come bussola attraverso cui orientarsi nel mondo (nella narrazione dell'"io" e del "noi", nella descrizione delle molteplici storie che – letteralmente – "ci" fanno quegli "io" e quei "noi" che siamo, costantemente, nel continuo raccontarci agli altri e nel continuo raccontare a noi stessi la nostra storia personale).

Eppure: se torniamo indietro (questo è un romanzo che spinge il lettore a tornare spesso sui propri passi, a tornare indietro, più che avanti), ci accorgiamo che un avviso ce l'hanno già dato. A p. 54, in un capitoletto breve che s'intitola significativamente "Stazione di sosta", il narratore (l'autore? Godunov in persona e in carne ed ossa?) ci dice: "Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare. Ci siamo tutti? Allora andiamo avanti".

E questa, lo si capisce immediatamente, oltre che una confessione pseudo-autobiografica è anche una dichiarazione (di) "poetica": è come se Godunov ci dicesse che il suo obiettivo non è "progredire" ma "divagare", che ciò che importa in questa storia di "io" che nascono (non si sa quando, né come, né perchè) è quanto sosteneva anche il reverendo Sir Laurence Sterne: "You progress as you digress", che possiamo tradurre con: "Si avanti – a narrare una storia – anche a furia di digressioni, perché voler arrivare subito al punto, perché voler finirla qui, perché non lasciarsi guidare dagli spunti più disparati...".

A proposito: interessante è il comparare la narrazione di una storia all'uscita da un labirinto. Perché proprio il labirinto? Perché, in questo che è, a mio avviso, uno dei romanzi più tristi del mondo (e della storia della letteratura universale), la storia del Minotauro, confinato nel labirinto in cui Teseo dovrà trovare e liberare Arianna, occupa uno spazio centrale, direi quasi "determinante".

Perché chi narra (questi "io multipli") è ossessionato dal Minotauro: la copertina dell'ed. italiana è piuttosto esplicita, in tal senso: riproduce un dettaglio di una coppa dell'antica Grecia in cui si vede Pasifae con in braccio il figlio mostruoso, quella sorta di aborto avuto dopo l'accoppiamento fatale con un toro... Da qui sorge il mito del Minotauro: un essere a metà tra l'uomo e l'animale; nell'immagine, un bambino con il corpo umano e la faccia da toro (con tanto di corna).

A partire dall'analisi ossessiva narrativa filosofica psicologica della "condizione ontologica" di un simile monstrum, il narratore "multiplo" va interrogando se stesso, il mito, la storia passata (remota e recente) per capire tutta la solitudine che deve aver provato Minotauro all'interno del labirinto e in procinto di scontrarsi con chi lo ucciderà, quel Teseo che, grazie al filo d'Arianna, riuscirà davvero a "fuori-uscire" dalla trappola costituita dal labirinto...

E in questo tentativo disperato di empatizzare col Minotauro, il lettore viene condotto per mano lungo una serie davvero notevole di storie che s'intrecciano (come in un labirinto borgesiano) lungo la scia dei ricordi (personali, ma anche collettivi e legati alla Storia dell'Europa del XX sec.) che fanno e determinano il nostro presente.

Ed è per me estremamente curioso constatare che io abbia letto (e goduto) uno dei libri più tristi del mondo a Cuba, durante un viaggio di piacere, in uno dei momenti più allegri, spensierati e felici della mia vita. Un paradosso. Un colmo. Una specie di follia. Eppure... quant'ho goduto leggendo questo romanzo anomalo, assurdo, malinconico fino quasi a condurti alle lacrime, straziante, in certe scene, e ironico, comico, tragicomico, anche, in altre.

Un romanzo anti-romanzesco pieno di foto, di documenti visivi, di ritagli di giornali, di pubblicità che ci fa stare male, che ci fa sorridere, che ci fa capire come, da "io siamo" iniziali possiamo diventare tutti "io fummo"...

Un libro tristissimo in cui chi scrive capisce che, in effetti, la scrittura è anche tentativo di uscire dal labirinto, oltre che sconfitta. O forse: che la scrittura è una partita persa che vale la pena di giocare e affrontare con coraggio... Anzi, come dice il narratore stesso a p. 136: "La scrittura è anche, in ultima analisi, conservazione delle sconfitte". E quante sconfitte grandiose, in Fisica della malinconia, quanti sogni infranti, quante illusioni ancora pulsanti e vive e vegete ed entusiasmanti...

2 comentarios:

  1. No, non così triste. (;

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  2. E comunque, quando lo definisco come "uno dei romanzi più tristi del mondo" lo intendo come "complimento", eh! Non è una critica... (poi sarà che - appunto - l'ho letto a 40º all'ombra, a Cuba, nei pressi del Mar dei Caraibi, e l'effetto è stato quello).
    Un saluto, Chiara

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