Fisica della malinconia, di Georgi
Gospodinov: un romanzo tra passato e futuro (uno dei romanzi più tristi del
mondo)
Dopo una bella raccolta di Epigrafi
(tutte tratte da alcuni degli scrittori che più ammiro al mondo, come, ad es.,
T. S. Eliot - che "mixa memoria e
desiderio", come ogni buon poeta che si rispetti – o Fernando Pessoa – un
grande esperto della malinconia evocata nel titolo – o il sempre enigmatico e
metaletterario Jorge Luis Borges), Fisica della malinconia ci introduce
all'interno del suo "mondo narrativo" attraverso un Prologo
che fa paura: diversi "io" narranti ci raccontano come e quando sono
nati; il lettore legge e va avanti ma si confonde perché questi "io"
sembrano diversi e, allo stesso tempo, sembrano gli stessi, pezzi o riflessi
della stessa persona che non sa (non ricorda) se è nato maschio o femmina, se
nel 1913 (prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale) o nel 1968 (che, guarda
caso, è anche la data di nascita dell'autore del romanzo, Georgi Gospodinov, a
me prima di ieri del tutto ignoto...). E a un certo punto saltano anche le
concordanze tra i soggetti e i verbi: "noi sono", "io
eravamo", la grammatica diventa ballerina perché chi narra l'inenarrabile
(in tal caso, il momento in cui, dall'utero materno, vieniamo catapultati nel
mondo) non è letteralmente più in grado di stabilire una distanza di sicurezza
tra ciò che si pretende raccontare e ciò che è effettivamente accaduto (in
questo passato così sfocato e così mobile).
"Io siamo", è così che si
chiude questo "Prologo" vertiginoso. E bisogna arrivare a p. 70 per
capirci qualcosa: perché è in questa pagina che l'"io" dell'autore
esce allo scoperto (o almeno, sembra farlo) e ci avvisa: "Il passato si
distingue dal presente per un dato sostanziale – non scorre mai in una sola
direzione. Da dove sono partito? Meno male che scrivo, altrimenti non sarei mai
riuscito a trovare il bandolo della matassa...".
Ecco: la scrittura come ancora di
salvezza; come bussola attraverso cui orientarsi nel mondo (nella narrazione
dell'"io" e del "noi", nella descrizione delle molteplici
storie che – letteralmente – "ci" fanno quegli "io" e quei "noi"
che siamo, costantemente, nel continuo raccontarci agli altri e nel continuo
raccontare a noi stessi la nostra storia personale).
Eppure: se torniamo indietro (questo è un
romanzo che spinge il lettore a tornare spesso sui propri passi, a tornare
indietro, più che avanti), ci accorgiamo che un avviso ce l'hanno già dato. A
p. 54, in un capitoletto breve che s'intitola significativamente "Stazione
di sosta", il narratore (l'autore? Godunov in persona e in carne ed ossa?)
ci dice: "Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun
labirinto e nessuna storia è lineare. Ci siamo tutti? Allora andiamo
avanti".
E questa, lo si capisce immediatamente,
oltre che una confessione pseudo-autobiografica è anche una dichiarazione (di)
"poetica": è come se Godunov ci dicesse che il suo obiettivo non è
"progredire" ma "divagare", che ciò che importa in questa
storia di "io" che nascono (non si sa quando, né come, né perchè) è
quanto sosteneva anche il reverendo Sir Laurence Sterne: "You progress as
you digress", che possiamo tradurre con: "Si avanti – a narrare una
storia – anche a furia di digressioni, perché voler arrivare subito al punto,
perché voler finirla qui, perché non lasciarsi guidare dagli spunti più
disparati...".
A proposito: interessante è il comparare
la narrazione di una storia all'uscita da un labirinto. Perché proprio il
labirinto? Perché, in questo che è, a mio avviso, uno dei romanzi più tristi
del mondo (e della storia della letteratura universale), la storia del
Minotauro, confinato nel labirinto in cui Teseo dovrà trovare e liberare
Arianna, occupa uno spazio centrale, direi quasi "determinante".
Perché chi narra (questi "io
multipli") è ossessionato dal Minotauro: la copertina dell'ed. italiana è
piuttosto esplicita, in tal senso: riproduce un dettaglio di una coppa dell'antica
Grecia in cui si vede Pasifae con in braccio il figlio mostruoso, quella sorta
di aborto avuto dopo l'accoppiamento fatale con un toro... Da qui sorge il mito
del Minotauro: un essere a metà tra l'uomo e l'animale; nell'immagine, un
bambino con il corpo umano e la faccia da toro (con tanto di corna).
A partire dall'analisi ossessiva
narrativa filosofica psicologica della "condizione ontologica" di un
simile monstrum, il narratore "multiplo" va interrogando se
stesso, il mito, la storia passata (remota e recente) per capire tutta la
solitudine che deve aver provato Minotauro all'interno del labirinto e in
procinto di scontrarsi con chi lo ucciderà, quel Teseo che, grazie al filo
d'Arianna, riuscirà davvero a "fuori-uscire" dalla trappola costituita
dal labirinto...
E in questo tentativo disperato di
empatizzare col Minotauro, il lettore viene condotto per mano lungo una serie
davvero notevole di storie che s'intrecciano (come in un labirinto borgesiano)
lungo la scia dei ricordi (personali, ma anche collettivi e legati alla Storia
dell'Europa del XX sec.) che fanno e determinano il nostro presente.
Ed è per me estremamente curioso
constatare che io abbia letto (e goduto) uno dei libri più tristi del mondo a
Cuba, durante un viaggio di piacere, in uno dei momenti più allegri,
spensierati e felici della mia vita. Un paradosso. Un colmo. Una specie di
follia. Eppure... quant'ho goduto leggendo questo romanzo anomalo, assurdo,
malinconico fino quasi a condurti alle lacrime, straziante, in certe scene, e
ironico, comico, tragicomico, anche, in altre.
Un romanzo anti-romanzesco pieno di foto,
di documenti visivi, di ritagli di giornali, di pubblicità che ci fa stare
male, che ci fa sorridere, che ci fa capire come, da "io siamo"
iniziali possiamo diventare tutti "io fummo"...
Un libro tristissimo in cui chi scrive
capisce che, in effetti, la scrittura è anche tentativo di uscire dal
labirinto, oltre che sconfitta. O forse: che la scrittura è una partita persa
che vale la pena di giocare e affrontare con coraggio... Anzi, come dice il
narratore stesso a p. 136: "La scrittura è anche, in ultima analisi,
conservazione delle sconfitte". E quante sconfitte grandiose, in Fisica
della malinconia, quanti sogni infranti, quante illusioni ancora pulsanti e
vive e vegete ed entusiasmanti...
No, non così triste. (;
ResponderEliminarE comunque, quando lo definisco come "uno dei romanzi più tristi del mondo" lo intendo come "complimento", eh! Non è una critica... (poi sarà che - appunto - l'ho letto a 40º all'ombra, a Cuba, nei pressi del Mar dei Caraibi, e l'effetto è stato quello).
ResponderEliminarUn saluto, Chiara