lunes, mayo 25, 2015

Tradurre Shakespeare (possible mission)



Dunque, cominciamo col dire che non sono un traduttore di professione; non mi pagano per tradurre libri, anche se, in un passato piuttosto recente, l’ho fatto (due romanzi picareschi della prima metà del XVII sec. che nessuno legge né leggerà mai – si tratta di opere minori di autori minori della letteratura spagnola). E proprio per tale motivo, ovvero, proprio perché ho trascorso quasi 2 anni interi della mia vita a tradurre, so quanto sia difficile portare a termine una missione del genere, soprattutto quando l’opera da versare nella propria lingua sia lontana (o lontanissima) da noi nel tempo: più ci si allontana dal presente e più si fa fatica a capire – faccio un paio d’esempi – il significato dei modi di dire (che magari oggi non si usano più) o dei giochi di parole (il vero grosso scoglio per ogni traduttore di opere letterarie). Già è difficile capirli, i giochi di parole svolti in un’altra lingua, figuriamoci poi tradurli! O renderli comprensibili in una lingua (quella d’arrivo) diversa dalla lingua del testo originale (o quella di partenza). Insomma, per farvela breve: un gran casino, un problema enorme, su cui si ci può sbattere la testa per giorni e giorni e mesi e mesi, senza venire a capo di nulla (e allora ci si salva – in calcio d’angolo – con la famosa nota a piè di pagina, quello spazio tipografico in cui il traduttore trova rifugio quando alza bandiera bianca e sì, lo ammette, non ha trovato un’espressione giusta o adeguata alla lingua d’arrivo… la nota in quanto dichiarazione di fallimento: “Non ho capito e vi confesso che non capisco; questa frase dovrei lasciarvela in originale; si fa quel che si può; si salvi chi può; il gioco di parole è intraducibile”… Intraducibile! Che parola! Fa davvero venire i brividi – se pensiamo che viviamo costantemente nell’illusione che si possa tradurre tutto e da tutte le lingue del mondo).

Or dunque: fatta questa premessa, chi mi conosce sa che ho tradotto in passato e sa che pur studiando e dedicandomi a tempo pieno alla lingua e alla letteratura di Cervantes, amo leggere e studiare autori e opere di ogni angolo del mondo, con particolare predilezione per l’Inghilterra…

Sta di fatto che, molto probabilmente, se non mi fossi dedicato alla Spagna, avrei continuato a studiare letteratura inglese e mi sarei messo a scrivere la tesi di laurea sull’Ulysses di James Joyce (un romanzo che mi avrebbe portato al suicidio, non ci sono dubbi, ma amo le sfide e adoro i romanzi che ti sfidano, che mettono a dura prova la tua capacità di comprensione, oltre che la tua pazienza). E così, ieri, per una questione di traduzione mal riuscita, per una cattiva interpretazione del testo, e dopo aver fissato un appuntamento con un mese d’anticipo, mi sono recato all’Università per parlare di una questione relativa ad un avverbio della lingua inglese con il maggiore esperto di William Shakespeare che ci sia in Spagna, un luminare della scienza, uno che, in poco meno di 10 anni, ha tradotto 30 opere del Bardo (il che vuol dire quasi TUTTO Shakespeare).

Il Professore accetta di vedermi, dopo che io gli ho mandato per email una specie d’articolo in cui discetto di una traduzione di un altro autore (contemporaneo) spagnolo di un verso di Hamlet. Evidentemente il Professore non solo si prende la briga di leggermi, non solo accetta di vedermi faccia a faccia, ma si preoccupa perfino di correggermi, cioè, di aiutarmi a capire dove potrei correggere il mio pezzo ed esprimermi in termini più corretti dal punto di vista filologico…

Sono emozionato e tutto orecchi, quando mi siedo davanti a quest’uomo sulla settantina (ben portati) e leggermente calvo, con giacca e cravatta anche se fuori fanno 32 gradi, con stile elegante che ricorda subito da vicino lo stile dei docenti delle Università inglesi (uno si sente quasi catapultato a Oxford o a Cambridge – forse anche per la presenza ingombrante di un milione di dizionari inglesi e di un miliardo di testi che a quelle Università possono essere associati: c’è Milton, con il suo Paradise Lost, e c’è Marlowe, il nemico o rivale di Shakespeare; c’è Henry James, coi suoi racconti del terrore e c’è Dickens, coi suoi romanzi avventurosi; c’è il T.S. Eliot dei Four Quartets e c’è il Robert L. Stevenson del Dr. Jeckill & Mr. Hide; c’è il Bram Stoker di Dracula e c’è il Greoffrey Chaucer dei bellissimi Canterbury Tales; e c’è anche il reverendo Sir Laurence Sterne, col suo digressivo e immenso The Life & Opinions of Sir Tristram Shandy

E insomma, io mi sento immediatamente come se fossi in un’altra città e in un ambiente opposto a quello reale in cui fisicamente io e il Professore ci muoviamo e parliamo. E il Professore si cala totalmente nel suo ruolo e comincia a mettermi i puntini sulle “i”, facendomi notare che l’avverbio “behind”, nell’inglese di Shakespeare, ovvero, nell’inglese isabellino, non significava affatto “dietro” o “indietro” o “all’indietro”, bensì “davanti” o “dopo”, ovvero: non indica spazialmente l’essere indietro o lo stare dietro una persona o un’oggetto, bensì l’essere avanti, o davanti, lo stare dopo temporalmente di un evento o di un fatto…  E io ci resto di sasso: ammutolisco, forse impallidisco, improvvisamente, i 32 gradi di fuori si trasformano nel mio cervello (e sulla mia pelle) nei -7 gradi che percepii in Polonia, nella città di Lublin, il Novembre scorso…

E il Professore continua (spargendo sulla cattedra un’infinità di opere del grande classico inglese, oltre a mille appunti presi a mano e molte fotocopie che – a fine colloquio – avrà la bontà e l’enorme e inaspettata generosità di regalarmi – insieme alle sue traduzioni dell’Hamlet e del Macbeth, manco fosse Natale, che giornata splendida è stata la giornata di ieri!).

“Ecco, guardi qui” – mi fa il Professore, dandomi sempre del “lei”, senza mai passare a una confidenza che, in effetti, non c’è stata prima né può esserci ora, anche se siamo seduti l’uno di fronte all’altro, anche se si percepisce che ci stiamo entrambi simpatici, e si capisce che abbiamo le stesse passioni e le stesse manie e lo stesso immenso stupore e la stessa immensa stima di fronte al Bardo – “ecco, sì, guardi qui, dall’atto I, scena III, v. 117: è Macbeth a parlare, dopo la profezia delle tre streghe: loro gli preannunciano che prenderà il posto di Glamis e poi strapperà il titolo di Barone a Cawdor e, infine, diventerà Re… Ecco, legga qui: “The greatest, behind”, che io traduco con: “Il più grande, dopo”, ovvero: la cosa più importante, il ruolo più prestigioso, “dopo”, “behind” nel senso temporale di “più in là”, o “più avanti nel tempo”, o “in un futuro imminente”. Ecco: cosa gliene pare?”.

Ripenso al mio pezzo: e a tutte le volte che, mentre leggevo Shakespeare, traducevo letteralmente “behind” con “dietro”; e ora provo quasi vergogna a capire che non sempre è così, che non sempre, nell’inglese che parlavano i contemporanei della Regina Isabella, “behind” voleva dire “indietro”, e mi sento subito di abbracciare il Professore, di dirgli “grazie”, di dirgli: “Lei mi ha aperto gli occhi, Professore”, e di confessargli, infine: “Come avrei fatto a capire senza di lei, Prof.!”.

Non dico né faccio nulla di tutto questo, ovviamente: ma quando poi il Professore mi allunga le due copie delle sue versioni di Hamlet e di Macbeth e mi fa capire che sono per me, che posso portarmele a casa, che sono un suo regalo per me, non riesco a trattenere l’espressione di giubilo: “Che forte!”, come un bambino davanti al nuovo giocattolo…

Che idiota, invece! E come ho fatto a non vederlo prima, come ho fatto a non capire! Perché non sono andato a leggermi l’Oxford English Dictionary, quello storico, che mi spiega come stavano le cose quando Shakespeare scriveva roba, che non finiremo mai di capire, e di leggere, e di tradurre… Come ho fatto a non capirlo prima, e quanto è complicato tradurre, e com’è sorprendente il momento in cui capisci e pensi che sì, che tradurre si può, che tradurre correttamente un’opera – per lontana che essa sia rispetto al nostro presente – si può fare, missione possibile, anche quando appare impossibile… E grazie ancora, Professore. Per il tempo speso insieme, per i due libri e per le due belle dediche…


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