martes, noviembre 10, 2015

INCUBI RICORRENTI (RINCORRENDOMI)




Dunque si diceva degli incubi (oggi, 9 Novembre del 2015, mi sembra proprio il giorno giusto per parlarne, oggi che metto il punto finale al “libro”, una roba da 350 pp. che fa venire il sonno sin dall’introduzione, un mattone indigesto che chissà quante copie venderà, se mai ne venderà più delle 2 o 3 che io posso immaginare, un tomo che andrà ad occupare spazio nelle biblioteche nazionali della Spagna e, chissà, fors’anche in qualche biblioteca italiana, pubblica o privata, un lavoraccio che mi ha tenuto impegnato e mi ha fatto sudare per circa 6 mesi, un lavorone che sono certo mi terrà attaccato allo schermo del pc per altri 5 mesi, prima di arrivare al “visto si stampi” e alla fantomatica “versione definitiva” – ma è mai esistita, esiste, esisterà mai una versione che possa definirsi davvero tale? Quando è il momento giusto per dire: sì, questa è la “definitiva”, questa è quella in cui non ci sono più refusi? E’ mai pensabile stampare un libro senza refusi?)…

E insomma, dicevamo, gli incubi… Ci sono incubi ricorrenti che mi tormentano la notte e mi fanno sudare freddo; sono sogni strani, che si ripetono, e il fatto stesso che “tornino” me li rendi ancor più odiosi e strambi e fastidiosi.

In uno di questi, mi trovo a Roma, sono vicino alla Stazione Termini, diciamo pure, tra la Stazione Termini e Piazza della Repubblica. Sono in compagnia di N. (non ho il coraggio di scrivere il suo nome per intero), una mia ex-alunna, diciamo pure, una delle ex-alunne più belle e pazze e affascinanti che abbia mai avuto in tanti anni di “onorata” carriera.
“Ma cosa ci fai a Roma?”, le chiedo, sorpreso dalla sua presenza (veste da sposa).
“Ma non te lo ricordi che ieri sei venuto a prendermi e mi hai dato una mano con la valigia? Te l’ho detto: scendo da Udine e vado a Salerno”, mi risponde piccata, spostandosi il velo con un soffio e un buffetto della mano (un gesto rapidissimo che nel sogno si svolge praticamente al ralenty).
Poi cominciamo a camminare. N. ha fame e dice che ha voglia di McDonald (è strano come nei sogni utilizziamo le marche del mondo reale) e io allora le propongo di andare a Via Nazionale perché lì ce n’è uno che è sempre aperto, 24h (ma nella realtà so che non è così; nel sogno, mi convinco che sia così).
E continuiamo a camminare, ma Via Nazionale è un deserto, non c’è un cane in giro, io mi spavento perché c’è troppo silenzio. Si fa notte subito, senza preavviso.
“Andiamo a fare un giro nei musei?”, mi chiede N., propone, come fosse la Notte Bianca.
Faccio di sì con la testa. E all’improvviso ci troviamo a correre e a percorrere le sale del Museo del Prado, prima, degli Uffizi, poi. Non capisco più se il monumento su cui mi appoggio per ripigliare fiato sia il Nettuno gigante che occupa un lato di Piazza della Signoria o se si tratti del Saturno dell’omonimo quadro di Goya (“Saturno che divora i suoi figli”, un quadro impressionante, pieno di sangue e di buio). Non capisco, in realtà, se siamo già a Salerno o siamo ancora a Udine (e ora mi ricordo di doverle chiedere cosa ci fa mai a Roma se prima mi ha detto chiaramente che scendeva da Udine per andare a Salerno; che senso ha, cosa cazzo c’entra Roma, con Udine e Salerno, qual è il nesso, se un nesso c’è, da chi dorme N. se io non la ospito in casa).
“Accidenti, ci seguono”, mi fa N., obbligandomi a riprendere la corsa. Mi volto indietro e mi accorgo che siamo circondanti e che veniamo inseguiti da un’orda assurda di paparazzi con le macchine fotografiche vecchio stampo. I flash ci accecano. N. corre, ma rompe il velo del vestito. Comincia a piovere. Scoppia a ridere perché vede nel mio volto il ritratto della paura.
“Ma cosa vogliono da noi?”, le chiedo. E N. ride a crepapelle. Mi sbatte contro la cancellata di un’ambasciata (non ricordo più di quale paese, in realtà, a volte cambia, a volte si tratta di una saracinesca, di un bidone della spazzatura, di un’auto parcheggiata) e comincia a spogliarmi. Le strade si riempiono di traffico, ma io ed N., ignari dei passanti, ci mettiamo a fare sesso selvaggio sul marciapiede. Inizia a piovere. Fa sempre più buio e inizio ad avvertire una sgradevole sensazione di bagnato, di umido, di freddo e bagnato insieme. N. gode, grida sottovoce, io le stringo le mani al collo, grida forte, poi si accascia per terra.
“Sono ancora là”, mi fa, dopo essersi rialzata (si rassetta il vestito da sposa, ora tutto macchiato e sporco di fango). Le orde di paparazzi impazziti.
“Ma cosa abbiamo fatto di male? Perché ci inseguono? Che vogliono da noi?”, le chiedo. E N. ricomincia, prima sorride, poi ride. Mi ritrovo un obiettivo di una macchina fotografica in mano. Mi volto e vedo che i paparazzi, in realtà, sono degli zombie, dei ritornanti, dei morti viventi, in perfetto stile The Walking Dead, e io ho sempre più paura, tremo, scappo, corro, riattraversando le sale di un museo enorme, un museo che non esiste, ma che è dato dal mix delle sale sovrapposte del Louvre, degli Uffizi, del Prado, dei Musei Vaticani, della Galleria Borghese…
Finché perdo di vista N. e non so più da che parte scappare…
Fine… Mi sveglio… Sudato… freddo… come fossi Dylan Dog alla fine di uno dei tanti incubi delle sue avventure disegnate. Accanto a me non c’è N., ma da un momento all’altro mi aspetto di ritrovarmi con l’obiettivo di una macchina fotografica in mano. E invece niente. Cosa mai vorrà significare questo incubo ricorrente? Perché N.? Perché anche adesso non riesco a scrivere il suo nome per esteso? Perché mi vergogno? Perché N. è vestita da sposa? E perché facciamo l’amore in mezzo alla strada e alla sporcizia, di notte, al buio e al freddo, come due bestie? E chi sono, o meglio, cosa diavolo rappresentano (per me) quei paparazzi impazziti? E soprattutto: perché questo è – da un mese a questa parte – uno dei miei incubi peggiori e ricorrenti? Perché tanta “ricorrenza”?

Vado a letto, immaginando la faccia dell’editore quando aprirà il mio file Word: 350 pp., che potrebbero diventare tranquillamente 400 (o anche 450) in base ai criteri redazionali della casa editrice stessa… Un tomo, un mattone, un librone che ancora non mi sembra di essermi tolto dalle spalle, un peso immane che mi opprime come N. vestita da sposa o come le orde dei paparazzi che mi inseguono e che mi accecano coi loro maledetti flash.

Freud, io t’invoco. Illuminami (anche se non d’immenso), ma, per favore, illuminami…

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