RECENSIONI
Chi mi conosce nel piano
della “realtà” (Nabokov la scriveva sempre tra virgolette, questa parola, e
come dargli torto) e non solo e soltanto su quello della “virtualità” (o del “cyber-spazio”
di questo “diario di bordo”), sa bene che mi risulta difficile, a volte
impossibile, dire di “no” agli amici... Sono – come suolsi dire – “molto amico
dei miei amici” e, quindi, se uno di loro mi scrive e mi chiede il suo parere
su un suo libro appena uscito e mi lascia intuire che gli piacerebbe che io
scrivessi per lui una recensione al suo testo fresco di stampa, ecco, se uno di
loro fa così, io non riesco a dire di no, tendo sempre ad accettare,
dimenticandomi del fatto che, nella vita di tutti i giorni, il lavoro che
faccio mi obbliga a leggerne altri 100 di libri che non sono stati scritti dai
miei amici, altri 1000, di testi a volte non così ameni o divertenti come
quelli che mi piacerebbe leggere.
E così, all’improvviso, e
senza quasi rendermene bene conto, mi ritrovo con la scrivania dello studiolo invasa
da libri da recensire, tomi che (in alcuni casi) sfiorano le 500 pagine, e mi
tremano i polsi all’idea di dover poi consegnare la recensione entro (mettiamo)
il 15 di Gennaio, o il 20 di Febbraio, o il 30 di Marzo.
Il primo è un saggio di
critica letteraria sul concetto di flâneurie
e la narrativa di un autore spagnolo molto quotato (forse un po’
sopravvalutato). Il libro mi arriva dalla “University of Liverpool”, da parte
di una collega e amica che lavora per una rivista scientifica tra le più
importanti del mio ambito di ricerca. L’autore, inglese, analizza le opere di
quest’autore (che non voglio citare, per non dargli ulteriore pubblicità) a
partire dal concetto succitato: a quanto ricordo, la figura del flâneur (del “passeggiatore solitario”,
per così dire) nasce con la poesia di Baudelaire, ovvero, quando la città in
quanto “cosmo” entra di prepotenza nell’immaginario collettivo e il poeta
diventa vagabondo che canta le stranezze, le bellezze, le bruttezze, le sconcezze
dell’urbe moderna e modernizzata... Dal risvolto di copertina, si capisce che l’autore
fa riferimento anche ad altri modelli e cita E. A. Poe (non lo sospettavo) e
Walter Benjamin (lui sì, sapevo che prima di morire aveva in mente di scrivere
un tomo su Parigi, capitale europea, un testo dove il vagabondare diventa
sinonimo di rimemorare il passato – personale e storico, ovvero, intimo e
collettivo – dell’autore e di una nazione). E citando Benjamin, il pensiero
corre alle sue letture della Recherche proustiana
e a quell’altro flâneur dell’anima
umana che fu Marcel Proust... Insomma, si prospetta come una lettura
interessante, vedremo se l’autore oggetto di studio sarà all’altezza dei
modelli citati (ora che ci penso: pure Fernando Pessoa è catalogabile come flâneur, anche se, a quanto ricordo, non
si mosse mai da Lisboa, o solo rare volte, era un sedentario, ma con l’immaginazione
volava alto, altro che...).
Il secondo tomo è davvero
un volume gigante, sul “fantastico” all’interno del “fumetto”. Gli autori (sono
due) ripercorrono la storia del genere a partire da questo elemento e mi viene
subito un dubbio: cos’è “fantastico”? Cosa dobbiamo o possiamo intendere con
questo termine? Comunque, basta sfogliare il libro per rendersi (fortunatamente)
conto che è pieno d’immagini; anzi, a guardare bene, la parte scritta è
nettamente inferiore a quella iconografica. E quindi mi domando: cosa scriverò
nella recensione se sembra che ci sia poco da recensire? Dovrò parlare delle
fonti iconiche? Certo è che scoprirò fumetti mai visti prima. Il panorama è
davvero ampio (dagli USA anni 20 alla Francia anni 80, passando per la Spagna
anni 40 e l’Italia anni 70 – Guido Crepax, Hugo Pratt, Leone Frollo, quanti
geni ha dato l’Italia al genere “fumetto”!).
Il terzo libro è un’altro
saggio, sul teatro di Juan Benet, uno degli scrittori più strani, affascinanti,
ostici, complessi, geniali che la letteratura spagnola abbia mai creato negli
ultimi 50 anni... Ingegnere di professione, come il nostro benemerito Carlo
Emilio Gadda, Benet si è dedicato alla letteratura solo come passatempo, come
hobby, come forma d’ozio. Risultato? Ha dato alle stampe uno dei romanzi più
enigmatici che siano mai stati pubblicati in Spagna negli anni 70 (Volverás a Región, del 1969); una serie
di saggi di altissimo livello e capaci di catturare l’attenzione anche del
lettore più svagato o distratto su questioni “facili facili” come il Tempo, la
Morte, l’Amore, il Tradimento, l’Origine delle Lingue, l’Origine dell’Uomo,
Dio, l’Apocalisse, et coetera... et coetera...; una serie di racconti, favole
e, appunto, opere teatrali inclassificabili.
So già che la lettura di
questo saggio mi terrà inchiodato alla sedia (o al sofà) per un fine settimana
intero. La mia compagna di sventure è avvisata. Non disturbare. Lettura in
corso. Lettore in azione.
Il quarto e ultimo libro di
cui dovrei dare un’opinione scritta poi convertibile in recensione è... No, di
questo meglio che non parlo. Non ora. Non qui. Di certo è che non mi annoierò.
Non è un saggio, ma un romanzo. E siccome chi lo scrive è davvero una persona
amica, non voglio parlarne a sproposito per scaramanzia (e mettiamo poi che non
mi piace? Che Dio ce ne scampi e liberi! È difficilissimo scrivere una
recensione di un romanzo di un’amica che poi scopriamo non essere all’altezza:
che fai? Fingi? T’inventi una recensione positiva anche se poi riconosci che il
libro non vale molto? Come si fa? Come ci si comporta quando si vuole essere
onesti intellettualmente e, allo stesso tempo, non si vuole ferire la
sensibilità di una persona che conosciamo, che ammiriamo umanamente, e che
letterariamente può fallire? Chi sono io per giudicare gli altri? Quest’ultima
domanda me la faccio ogniqualvolta mi si chiede di scrivere una recensione; non
credo che il mio parere sia più valido o azzeccato o scientificamente sicuro di
quello di un altro; e poi, di nuovo: ma chi sono io per giudicare lo sforzo di
un altro?).
E insomma: quattro
recensioni su quattro testi diversi da fare entro massimo quattro mesi (Marzo
2016 la dead-line).
Speriamo bene...
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