sábado, diciembre 09, 2017

Stanley Kubrick (o della difficoltà di creare)

In questi giorni di stress e di corsa ai regali per l'imminenza del Natale (non vedo l'ora che arrivi solo perché così potrò tornare in Italia e starmene rintanato nella casa dei miei genitori - in quella casa che mi ha visto crescere e trasformarmi dai 0 ai 18 anni, prima della fuga a Roma - per leggere e vedere i film che ho in lista d'attesa), sono riuscito a finire la biografia che John Baxter ha dedicato a Stanley Kubrick e che pubblicò nel 1997 (ovvero, due anni prima della morte del regista americano – avvenuta nel 1999, pochi giorni prima che Eyes Wide Shut iniziasse a fare il suo cammino sugli schermi dei cinema di tutto il mondo, a partire da quelli della Mostra di Venezia, dove io ebbi la fortuna di vederlo in anteprima assoluta – e 20 anni dopo la sua prima apparizione per Harper Collins) e la prima cosa che uno pensa quando chiude il libro è: “ma quanto è difficile creare? Quant'è dura la vita dell'artista che, dal nulla, e sfidando se stesso e il mercato e le mode del momento, decide di rischiare tutto per poter inseguire una sua particolare, individualissima, perturbante idea del mondo?”.

Spesso paragonato a Howard Hughes, Kubrick incarnò alla perfezione (secondo le tesi di Baxter) l'ideale del regista che è capace di vendersi la casa o di divorziare dalla moglie pur di arrivare al montaggio finale del film che ha in mente. Isolato dal mondo, in una tenuta di campagna inglese, in effetti, Kubrick passò quasi la metà della sua vita a elaborare film lontano dagli “studios” hollywoodiani (sebbene mantenesse un buon rapporto con la Warner Brothers e producesse i suoi film in accordo con la stessa produttrice cinematografica) e lontano dal "gossip" e dalle domande dei giornalisti e dei curiosi, oltre che dalle mode del momento. Anzi, spesso Kubrick dovette frenare o rimangiarsi un progetto o rimandare un film solo perché qualcuno prima di lui lo aveva già anticipato nel tempo: l'idea di Full Metal Jacket, ad esempio, gli venne quando Coppola aveva appena finito Apocalypse Now e Oliver Stone aveva appena mandato nelle sale il suo Platoon...scherzi del destino o gaffe dell'ultim'ora o sfortuna di chi a volte assume i tratti di Fantozzi.

E un'altra delle cose che si pensano a libro terminato è che, in realtà, Kubrick dovette soffrire parecchio a causa della propria genialità, delle proprie ossessioni, delle proprie manie sul set. Era un perfezionista, che riusciva a portare all'esaurimento chiunque decidesse di lavorare con lui (anche se Emilio D'Alessandro, il suo autista personale, riesce a farci vedere anche il suo lato più umano e più tenero, per così dire, nel libro confezionato da Filippo Ulivieri (cfr. il post che ho dedicato a Stanley e me (Milano, il Saggiatore, 2012) quando uscì: bellissima l'esperienza avuta a Roma alla presentazione del libro, gentilissimo Ulivieri e generosissimo D'Alessandro nel raccontare la sua avventura con il regista).



Un esempio fra tanti: quando, prima di Eyes Wide Shut e subito dopo Full Metal Jacket, Kubrick torna all'idea di fare un secondo film di fantascienza (quell' A.I. che poi avrebbe girato Spielberg, anni dopo la morte del collega) decide che è ora di appoggiarsi a un esperto e ordina a Aldiss, uno dei suoi più fedeli collaboratori, di contattare Hans Moravec, uno dei maggiori esperti al mondo di “Intelligenza Artificiale”.

Aldiss ci riesce e gli comunica che in quel momento Moravec è in Giappone per un ciclo di conferenze e Kubrick (secondo la testimonianza di Aldiss):

Ok, trovalo in Giappone”.
Ah, Stanley, come faccio?”
Chiama la Warner a Tokyo. Digli di muovere il culo e trovare Moravec”.
Ma Stanley, è mezzanotte a Tokyo...”
Un'ora più tardi Moravec era al telefono” (cit. John Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Torino, Lindau, 1999, p. 466).

E allora uno si ferma a riflettere: Kubrick era un solitario, un regista autoritario, uno inflessibile, eppure, doveva pur avere una qualche qualità speciale, una capacità invidiabile, se davvero riusciva (dal suo cottage inglese immerso nei boschi) a parlare con personalità ed esperti mondiali da ogni parte del Globo. E l'ambivalenza sorge anche contemplando le molte foto che appaiono nel libro: a partire dalla copertina, dove un Kubrick ancora relativamente giovane sorregge nella mano destra un obiettivo attaccato ad un'occhio e poggia paternalmente la mano sinistra sulla spalla di Gary Lockwood nei panni dell'astronauta di 2001: A Space Odissey. L'ipotetico spettatore che non avesse mai visto nemmeno un film di Kubrick potrebbe facilmente pensare che si tratta della foto di un padre con il figlio, intento a fargli forza, a infondergli coraggio e a fare il tifo per lui poco prima che inizi il gioco (la partita del film).

Ma possiamo citare anche un'altra foto in cui Kubrick, in una pausa sul set di Orizzonti di gloria, completamente avvolto in un giaccone enorme di fustagno, sorseggia un caffè americano in compagnia di Kirk Douglas e di quella che poi sarebbe diventata la sua terza moglie, Christiane Harlan. Kubrick ha la testa avvolta in un cappello di lana e sembra davvero un superstite della Prima Guerra Mondiale, un soldato scampato alla morte e alle bombe nelle trincee, le mani inguantate, lo sguardo rivolto all'orizzonte, mentre gli altri due attori ridono e scherzano, anche loro sorseggiando del caffè bollente.

O come in un'altra foto dal set di Arancia meccanica: Kubrick, già più vecchio, con la barba incolta e i capelli scompigliati, sembra un prete intento ad officiare la messa a pochi passi da un enorme crocefisso. Sopra di lui, un secondo crocefisso sembra osservarlo dall'alto in basso. E' lo spazio che ricrea la cappella all'interno del carcere minorile in cui finirà Malcon MacDowell dopo che i “drughi” si saranno ribellati e lo tradiranno. Uno spettatore ingenuo contempla la foto e pensa che a breve quest'uomo barbuto leggerà brani dal Vangelo secondo Matteo.



Kubrick e la difficoltà di creare. Kubrick e la genialità di un regista che sapeva benissimo che cosa stava girando e che, per questo motivo, era capace di sferzare la forza psichica e fisica di chi gli stava attorno. Kubrick e la serietà di chi gioca a un gioco rischioso: quello di ri-creare il mondo a partire dalle immagini e dal montaggio cinematografico sperando di avere (sempre) il controllo assoluto e totale sul risultato finale. Kubrick e il cinema come arte che ri-produce (all'infinito) la bellezza di inquadrature che sono rimaste (e forse rimarranno anche in un futuro lontano) nella retina di milioni di spettatori. Kubrick e la difficoltà di generare questo tipo d'immagini indelebili.

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