Stanley
Kubrick (o della difficoltà di creare)
In
questi giorni di stress e di corsa ai regali per l'imminenza del
Natale (non vedo l'ora che arrivi solo perché così potrò tornare
in Italia e starmene rintanato nella casa dei miei genitori - in
quella casa che mi ha visto crescere e trasformarmi dai 0 ai 18 anni,
prima della fuga a Roma - per leggere e vedere i film che ho in lista d'attesa), sono riuscito a finire la biografia che
John Baxter ha dedicato a Stanley Kubrick e che pubblicò nel 1997
(ovvero, due anni prima della morte del regista americano –
avvenuta nel 1999, pochi giorni prima che Eyes Wide Shut
iniziasse a fare il suo cammino sugli schermi dei cinema di tutto il
mondo, a partire da quelli della Mostra di Venezia, dove io ebbi la
fortuna di vederlo in anteprima assoluta – e 20 anni dopo la sua
prima apparizione per Harper Collins) e la prima cosa che uno pensa
quando chiude il libro è: “ma quanto è difficile creare? Quant'è
dura la vita dell'artista che, dal nulla, e sfidando se stesso e il
mercato e le mode del momento, decide di rischiare tutto per poter
inseguire una sua particolare, individualissima, perturbante idea del mondo?”.
Spesso
paragonato a Howard Hughes, Kubrick incarnò alla perfezione (secondo
le tesi di Baxter) l'ideale del regista che è capace di vendersi la casa o di divorziare dalla moglie pur di arrivare al montaggio finale del film
che ha in mente. Isolato dal mondo, in una tenuta di campagna
inglese, in effetti, Kubrick passò quasi la metà della sua vita a
elaborare film lontano dagli “studios” hollywoodiani (sebbene
mantenesse un buon rapporto con la Warner Brothers e producesse i
suoi film in accordo con la stessa produttrice cinematografica) e
lontano dal "gossip" e dalle domande dei giornalisti e dei curiosi, oltre che dalle mode del momento. Anzi, spesso Kubrick dovette frenare
o rimangiarsi un progetto o rimandare un film solo perché qualcuno prima di
lui lo aveva già anticipato nel tempo: l'idea di Full Metal
Jacket, ad esempio, gli venne quando Coppola aveva appena finito Apocalypse Now e Oliver Stone aveva appena mandato nelle sale
il suo Platoon...scherzi del destino o gaffe dell'ultim'ora o
sfortuna di chi a volte assume i tratti di Fantozzi.
E
un'altra delle cose che si pensano a libro terminato è che, in
realtà, Kubrick dovette soffrire parecchio a causa della propria
genialità, delle proprie ossessioni, delle proprie manie sul set.
Era un perfezionista, che riusciva a portare all'esaurimento chiunque
decidesse di lavorare con lui (anche se Emilio D'Alessandro, il suo
autista personale, riesce a farci vedere anche il suo lato più umano
e più tenero, per così dire, nel libro confezionato da Filippo
Ulivieri (cfr. il post che ho dedicato a Stanley e me (Milano,
il Saggiatore, 2012) quando uscì: bellissima l'esperienza avuta a
Roma alla presentazione del libro, gentilissimo Ulivieri e generosissimo D'Alessandro nel raccontare la sua avventura con il regista).
Un
esempio fra tanti: quando, prima di Eyes Wide Shut e subito
dopo Full Metal Jacket, Kubrick torna all'idea di fare un
secondo film di fantascienza (quell' A.I. che poi avrebbe
girato Spielberg, anni dopo la morte del collega) decide che è ora
di appoggiarsi a un esperto e ordina a Aldiss, uno dei suoi più
fedeli collaboratori, di contattare Hans Moravec, uno dei maggiori
esperti al mondo di “Intelligenza Artificiale”.
Aldiss
ci riesce e gli comunica che in quel momento Moravec è in Giappone
per un ciclo di conferenze e Kubrick (secondo la testimonianza di
Aldiss):
“Ok,
trovalo in Giappone”.
“Ah,
Stanley, come faccio?”
“Chiama
la Warner a Tokyo. Digli di muovere il culo e trovare Moravec”.
“Ma
Stanley, è mezzanotte a Tokyo...”
Un'ora
più tardi Moravec era al telefono” (cit. John Baxter, Stanley
Kubrick. La biografia, Torino, Lindau, 1999, p. 466).
E
allora uno si ferma a riflettere: Kubrick era un solitario, un
regista autoritario, uno inflessibile, eppure, doveva pur avere una qualche
qualità speciale, una capacità invidiabile, se davvero riusciva
(dal suo cottage inglese immerso nei boschi) a parlare con
personalità ed esperti mondiali da ogni parte del Globo. E
l'ambivalenza sorge anche contemplando le molte foto che appaiono nel
libro: a partire dalla copertina, dove un Kubrick ancora
relativamente giovane sorregge nella mano destra un obiettivo attaccato ad
un'occhio e poggia paternalmente la mano sinistra sulla spalla di
Gary Lockwood nei panni dell'astronauta di 2001: A Space Odissey.
L'ipotetico spettatore che non avesse mai visto nemmeno un film di
Kubrick potrebbe facilmente pensare che si tratta della foto di un
padre con il figlio, intento a fargli forza, a infondergli coraggio e
a fare il tifo per lui poco prima che inizi il gioco (la partita del
film).
Ma
possiamo citare anche un'altra foto in cui Kubrick, in una pausa sul
set di Orizzonti di gloria, completamente avvolto in un
giaccone enorme di fustagno, sorseggia un caffè americano in
compagnia di Kirk Douglas e di quella che poi sarebbe diventata la
sua terza moglie, Christiane Harlan. Kubrick ha la testa avvolta in
un cappello di lana e sembra davvero un superstite della Prima Guerra
Mondiale, un soldato scampato alla morte e alle bombe nelle trincee,
le mani inguantate, lo sguardo rivolto all'orizzonte, mentre gli
altri due attori ridono e scherzano, anche loro sorseggiando del
caffè bollente.
O
come in un'altra foto dal set di Arancia meccanica: Kubrick,
già più vecchio, con la barba incolta e i capelli scompigliati,
sembra un prete intento ad officiare la messa a pochi passi da un
enorme crocefisso. Sopra di lui, un secondo crocefisso sembra
osservarlo dall'alto in basso. E' lo spazio che ricrea la cappella
all'interno del carcere minorile in cui finirà Malcon MacDowell
dopo che i “drughi” si saranno ribellati e lo tradiranno. Uno
spettatore ingenuo contempla la foto e pensa che a breve quest'uomo
barbuto leggerà brani dal Vangelo secondo Matteo.
Kubrick
e la difficoltà di creare. Kubrick e la genialità di un regista che
sapeva benissimo che cosa stava girando e che, per questo motivo, era
capace di sferzare la forza psichica e fisica di chi gli stava
attorno. Kubrick e la serietà di chi gioca a un gioco rischioso:
quello di ri-creare il mondo a partire dalle immagini e dal montaggio
cinematografico sperando di avere (sempre) il controllo assoluto e totale sul
risultato finale. Kubrick e il cinema come arte che ri-produce
(all'infinito) la bellezza di inquadrature che sono rimaste (e forse
rimarranno anche in un futuro lontano) nella retina di milioni di
spettatori. Kubrick e la difficoltà di generare questo tipo
d'immagini indelebili.
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