sábado, febrero 24, 2018

Incubo napoletano


Dunque, vediamo di ricordare bene l'accaduto: stanotte ho avuto un incubo (uno dei tanti, che mi tormentano la notte, da un po' di giorni a questa parte) in cui mi ritrovavo da solo a Napoli. 

Lo scrivo perché non vorrei dimenticarlo; perché sento - in modo oscuro e misterioso - che potrebbe tornarmi utile in futuro (per quale motivo? Questo non lo so, è qualcosa di assolutamente irrazionale, ma so che questo incubo devo metterlo per iscritto per non farlo scivolare verso quella che Cervantes chiamava "la sepoltura dell'oblio").

Dunque, siamo a Napoli e sono in compagnia di una comitiva di amici: conosco tutti, tutti ridono alle mie battute, anche a quelle più sciocche, poi una ragazza mi spinge da un balcone e finisco in una pozza di mare, Napoli è diventata improvvisamente Venezia, le strade sono come le calli della città lagunare, anzi, Napoli è tutta una laguna, la corrente mi trascina lontano dalla casa in cui qualcuno - prima di buttarmi in acqua - mi aveva proposto anche di bere un caffè.

L'acqua è gelida, ghiacciata, diaccia: e la cosa più orripilante e spaventosa è che il mio corpo, trascinato dalla forza e dalla potenza della corrente, rischia di sbattare contro mobili, pezzi di case distrutte e, orrore, cadaveri... La corrente trascina i corpi di persone prive di vita: un vecchio con il parrucchino che gli è rimasto stranamente impigliato alla giacca; una bambina dai capelli lunghi e neri; una donna con la minigonna e le calze a rete. 

Veniamo trasportati tutti verso non si sa che mare (c'è ancora il Tirreno? E se andassimo verso l'Adriatico? Nel sogno faccio di questi ragionamenti assurdi di geografia comparata: mi domando anche se Pescara possa essere stata spostata e se Napoli ora occupa il suo posto; se il Mar Ionio ancora bagna la Liguria o se Venezia, per uno spostamento globale della tettonica delle placche, è finita al posto di Genova...il tutto mentre affogo o sto per affogare, perché è ovvio che anche nei sogni io non so proprio nuotare...).

Poi mi ritrovo in terrazza: nella stessa casa in cui qualcuno, poco fa, voleva offrirmi un caffè. E c'è Veronica (Vero), una mia cara amica, la mia migliore amica di Madrid, argentina di Buenos Aires e compagna di viaggio, che mi invita a contemplare il cielo stellato da un binocolo o telescopio. E la ringrazio, ma ho freddo e avrei bisogno di un fon per asciugarmi i capelli (io nella realtà non uso mai i fon). E poi arriva gente, chiassosa, rumorosa, meridionale, con tutta l'allegria spensierata di chi sta per andare a fare baldoria (al mare, in discoteca o nella stessa casa, perché ci apprestiamo a cenare, anche se io non fame...).

Il sogno finisce con Vero che sbatte la porta, arrabbiata perché mi sono rifiutato di contemplare il cielo dal telescopio che mi porgeva con tanta gentilezza e con il balcone da cui qualcuno, prima, mi ha buttato giù in acqua che mi guarda e mi attira a sè, come se fosse un essere animato...un balcone vivo che sento che potrebbe parlare...

Che vuol dire? Perché questa razza di incubo? Che c'entra Vero con Napoli? Che c'entra Venezia con Napoli? Che c'entro io, mezzo affogato, immerso in un mare gelido pieno di cadaveri e mobili e oggetti vari?

Eppure questo non è un periodo particolarmente stressato: due giorni fa ho conosciuto una scrittrice molto mediatica qui in Spagna (ha apprezzato il modo in cui l'ho presentata ad alcuni studenti della superiori, in un'istituto pubblico della periferia); e l'altroieri sono andato a sentire Luis Landero (un altro grande romanziere di questo paese). Ho trovato perfino il coraggio di avvicinarmi e di chiedergli un'autografo su quello che resta uno dei suoi romanzi migliori e più belli e più letti, Juegos de la edad tardía (del 1989). E mentre mi lasciava l'autografo sulla prima pagina del libro, mi sono perfino azzardato a dirgli che è un umanista, "lei è un grande umanista", gli ho detto ad alta voce, con tono tremante, non ben sicuro di stare dicendo la cosa giusta e, di fatto, Luis Landero mi ha guardato strano, prima di sorridere e di farmi l'in bocca al lupo (per cosa, poi?).

Leggo una frase dal saggio che mi sta ipnotizzando in questi giorni (Gilles Deleuze, L'image-mouvement. Cinéma 1, del 1983):

"Chiamiamo Immagine l'insieme di ciò che appare. Non possiamo nemmeno dire che un'immagine agisca su un'altra o reagisca a un'altra. Non c'è corpo in movimento che si distingua dal movimento eseguito, non c'è mosso che si distingua dal movimento ricevuto. Tutte le cose, cioè tutte le immagini, si confondo con le loro azioni e reazioni: è la variazione universale" (cit. dall'ed. italiana per Einaudi, del 2017, p. 74).

E mi viene in mente proprio il mio incubo, in cui sono un corpo in movimento - movimento sia patito che provocato - nonché un momento della conferenza di Luis Landero in cui l'autore ci spiega che il ricordo e il sogno, la capacità di rimembrare il passato e quella di poter sognare, sono i due principali esempi di narrativa che abbiamo incorporati nel nostro cervello sin dalla notte dei tempi, quando eravamo ancora ominidi, o parenti stretti delle scimmie...quando le nonne, al calore del focolare, ci raccontavano delle storie straordinarie, reinventado il passato o veicolando ciò che anche loro, bambine, impararono dai genitori...

E mi chiedo che razza di struttura narrativa nasconda il mio incubo napoletano (tempo fa lessi Il mare non bagna Napoli, uno dei capolavori di Anna Maria Ortese, ma che c'entra?). 

Mi chiedo anche perché in esso gli spazi reali (Venezia, Pescara, Genova e Napoli) si trovino a ballare all'interno di un universo in cui - come dice Deleuze - è tutto immagine che cambia e che si muove e che viene smossa...

Forse anche i sogni sono, davvero, la "variazione universale"...

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