lunes, noviembre 26, 2018

Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle: quando la scrittura sovverte, rompe e illumina l'inquadratura


Ieri ho visto per la prima volta un film di Louis Malle (un regista che rincorsi da adolescente per il suo Zazie nel metrò, tratto da Raymond Queneau; continuo a rincorrerlo...prima o poi lo raggiungerò, voglio proprio vedere come ha fatto a portare sul grande schermo il romanzo sperimentale dell'autore degli 'Esercizi di stile'). 

Si tratta di un film triste, oserei dire quasi "esistenzialista", perché parla di temi molto vicini alle ossessioni letterarie e filosofiche di autori come Céline, o Sartre, o Albert Camus (che pochi anni prima avevano trattato o toccato in ambito letterario gli stessi drammi che qui tratta o tocca in ambito cinematografico il regista francese).

Il film parla di Alain Leroy, un uomo sulla quarantina che, a dispetto del cognome, si sente un perdente nato, un fallito senza salvezza. Dopo la cura dall'alcolismo portata avanti a suon di "sanatorio", in una clinica di Versailles, decide di prendere in mano le redini della sua vita e di ...uccidersi. Prima, però, decide di rimettersi in contatto con i pochi, sparuti amici che ha ancora a Parigi. L'amico con cui ha fatto carriera militare ai tempi della guerra contro l'Algeria; l'amica che si dedica alla pittura e convive con un poeta "maledetto" imborghesito; l'amico ricco, ricchissimo, che vive con Solange, una sua antica fiamma, una donna bellissima che gli ricorda che non tutto è perduto (Alain ha avuto varie amanti, anche se sostiene di non saper fare bene l'amore e per questo, alla fine, sia Dorothy (sua moglie) che Lydia (l'amante) decidono di lasciarlo).

Ci sono almeno due o tre scene che rendono intrigante la visione del film; ma quella su cui vorrei soffermarmi è quella in cui Alain si mette a scrivere una sorta di diario, una serie infinita di fogli scritti a matita su cui scartabella, fa degli schizzi, disegna e cancella con ritmo da forsennato.

Ecco, questa scena ricorda immediatamente quella in cui Jack Nicholson in Shining perde completamente il controllo e, per mancanza d'immaginazione, si mette a riempire fogli su fogli di frasi senza senso ("Il mattino ha l'oro in bocca"...). E la prima riflessione che viene spontanea di fronte a scene simili è che il mestiere della scrittura è - esattamente come il "mestiere di vivere", per citare un grande - molto difficile; tanto difficile che, appunto, se manca l'ispirazione si può rischiare d'impazzire.

La seconda riflessione riguarda lo spettatore: basta che il regista decida d'inquadrare la scrittura (un pezzo di carta, una lettera, anche un frammento tratto da un giornale o, appunto, da un diario) che subito l'apparizione delle lettere su carta stampata e scrivibile rompe l'inquadratura, la sfonda verso ambiti ignoti allo spettatore che, da quel momento in poi, si chiederà cosa diavolo ci sarà scritto sul diario di Alain Leroy, potenziale suicida che poi, alla fine, ed in effetti, si uccide sul serio.

Quando un regista inquadra un personaggio nell'atto di scrivere, quando un regista addirittura si spinge a inquadrare quasi in primo piano una pagina scritta, ecco che la scrittura destabilizza l'inquadratura e porta lo spettatore a "vedere" cose che non può "leggere" (perché non c'è tempo; perché non conviene; perché aleggia nell'aria un'aura di mistero).

Ecco, dunque, che la scrittura al cinema (quando è citata, o solo evocata di sbieco, quando appare in primo piano, o sullo sfondo e in modo sfuocato), ecco, dicevo che la scrittura al cinema sovverte, scuote o adirittura rompe l'inquadratura verso mondi di significato che possiamo ricostruire solo con la nostra propria immaginazione; ecco come la scrittura al cinema, infine, illumina dall'interno la stessa inquadratura perché spinge lo spettatore a prestare ancora maggiore attenzione (a quello che vede; a quello che sembra sia scritto sulla pagina e riesce a leggere; a quello che pensa il personaggio se - come Alain Leroy - si abbandona al flusso di coscienza e monologa spesso e volentieri con se stesso, con il suo "io" più intimo e turbato).

Alla fine, nessuno di noi saprà mai (né potrà mai scoprire) cosa diavolo scrivesse nel suo diario il protagonista; quello che è certo è che nemmeno la scrittura del diario lo salva dall'ultimo, estremo gesto di auto-distruzione. E lo sparo ancora riscuona nelle nostre orecchie di spettatori attenti e curiosi e, a volte, impertinenti...

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