domingo, marzo 08, 2020

Il coronavirus o della fragilità umana 


Se c'è una cosa che il fenomeno "coronavirus" ci insegna (o potrebbe insegnarci) è il prendere coscienza della nostra enorme, incredibile, assoluta fragilità in quanto esseri umani e, dunque, mortali (non bisogna scomodare Heidegger per scoprire che "siamo-esseri-per-la-morte").

E fa un certo effetto vedere certi quartieri di Roma completamente deserti, come se un'epidemia mortale avesse già sterminato gli abitanti del luogo; come se l'Apocalisse fosse già arrivata (e, anzi, fosse già terminata).

Passeggio lentamente con la prole smuovendo il passeggino all'ora del crepuscolo (l'ora più poetica della giornata, a mio modesto parere) e mi sento come il protagonista di quel bellissimo romanzo che è The Road (2006): l'uomo che si dona al figlio pur di non farlo morire ammazzato da orde di barbari; l'uomo primitivo che - alla fine della civilità - si trova costretto a ripartire da zero e a re-imparare ad affrontare gli ostacoli che gli frappone la natura avversa (la pioggia, la neve, il freddo, l'oscurità più impenetrabile) e che lotta con gli elementi proprio affinché il figlio non cada a terra e diventi massa preda dei soprusi dei cattivi (loro sarebbero i buoni: ma come segnare il confine tra i cattivi e i buoni in un mondo senza più legge come quello che Cormac McCarthy disegna nel suo capolavoro distopico?).

Guardo gli altri bambini spagnoli che giocano a calcio spensierati e immagino come sarà questo campetto tra 100 o 200 anni; osservo le bimbe che si dondolano e ciondolano da uno scivolo e mi domando fino a quando quel ferro rimarrà così lucido e intatto, ovvero, fino a quando non verrà corroso dalla ruggine. 

Vedo due vecchiette sulla sedia a rotelle portate a spasso da due badanti giovani e belle, truccate e coi jeans attillati (probabilmente latinoamericane). E mi domando fino a quando continueranno ancora a smuovere quelle carrozzine con le ruote da grandi, fino a quando ancora coloro che trasportano non diverranno semplici corpi senza più vita né respiro, liberi di riposare in pace (si spera).

Insomma, non c'è angolo di mondo che non interpreti dal punto di vista del pessimista che crede davvero che la fine sia vicina. E non oso immaginare quanto questo pensiero (o questo tipo di punto di vista) non sia in circolo in Italia in un momento come questo, quando Fiorello e Jovanotti, quando giornalisti e medici, sindaci e dottori specialisti non si stancano di ripetere le solite frasi: "State a casa; evitate di uscire; evitate di diffondere il virus; lavatevi bene le mani; se tutti fanno la loro parte, potremo farcela e vincere questa battaglia".

E come si fa a non pensare all'Italia, al proprio paese, quando si vive all'estero e i mezzi di comunicazione di massa s'ingegnano (e s'impegnano) a martellarti con continui comunicati ansiogeni sul numero crescente dei morti e dei contagiati.

Poi guardo la prole e vedo che sorride. È apparso il tramonto: un cielo che da rosso diventa arancione e poi quasi viola; un paesaggio da togliere il fiato. La bellezza della natura in un mondo che ci sorpasserà (perché questi tramonti ci saranno anche quando noi - mortali - ce ne saremo andati). La bellezza di una natura che non smettiamo di maltrattare e che, ciononostante, ci regala di questi spettacoli ogni giorno (basta saper guardare e alzare lo sguardo dai cellulari o dalle mille distrazioni che ci bruciano i neuroni). La bellezza di un mondo che ora molti vivono come prigione, perché è così che diventa il mondo quando ti dicono che è pericoloso anche andare fuori a fare la spesa, quando i cinema, i teatri, i musei, le scuole e le Università sono chiuse per decreto del Presidente dei Ministri. La bellezza che perdura e resiste e che non conosce virus di sorta e che sta lì, disponibile per tutti coloro che sappiano coglierla al volo e che sanno darle il giusto valore. Siamo mortali, certo, e proprio per questo dovremmo essere in grado di capirla la bellezza, anche quando sembra che tutto vada in malora (come quando il padre del ragazzo di The Road lo rassicura e gli ricorda che lui è lì, che ci sarà sempre, che sarà sempre al suo fianco - anche se dovesse essere l'ultimo gesto che compirà in vita; esserci, far sentire la propria presenza, in procinto del trapasso finale).

P.S.: erano anni che la lettura di un romanzo non mi provocasse così tanti incubi; erano anni che non sentivo l'urgenza di comprare la versione originale del romanzo stesso (oltre a quella in italiano e in spagnolo). McCarthy, che grandissimo scrittore...

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