martes, marzo 31, 2020


Tutto Poe


In una vecchia intervista (e in molte altre, rilasciate nel corso degli anni), Tiziano Sclavi, l’inventore di Dylan Dog, afferma di aver letto tutto Poe all’età di 6 anni. Leggendo i suoi romanzi e i primi albi della serie del famoso personaggio a fumetti, possiamo credergli.

In questi giorni assurdi, di incubi ad occhi aperti ed insonnia ed incubi ad occhi chiusi, non so bene nemmeno perché, mi sono rimesso a leggere tutto Poe (cosa che avevo già fatto a 14 anni, quando ancora non conoscevo Sclavi). E mi sono accorto del fatto che Edgar Allan ha già inventato tutto, per ciò che concerne il genere thriller, horror e surreale.

Una cosa che colpisce è lo spazio. Edgar Allan Poe è bravissimo a contagiarci (verbo oggi fin troppo abusato e temuto) l’ansia e l’angoscia esistenziale che esperimentano i suoi personaggi a partire dai luoghi che ricrea o che costruisce con la penna e l’immaginazione; Poe è un bravissimo architetto che ri-crea gli spazi reali o verosimili in cui l’ansia e l’angoscia esistenziale che colpiscono i suoi personaggi esplode fino a coinvolgere anche il lettore empirico.

Diciamo pure che è lo spazio a dare la sensazione di una determinata fobia o un determinato modo di patire la paura e il terrore (senza essere dei teorici della letteratura: potrebbe essere plausibile ricostruire le varie fobie che Poe illustra e narrativizza proprio a partire dagli spazi che cita e ri-crea nel suo universo di finzione).

In William Wilson (bellissimo trattato sul tema del “doppio”) è la scuola-orfanotrofio in cui il protagonista incontra il suo sosia a dettare il senso di claustrofobia e di alienazione che lo stesso associa al suo compagno di classe (nato perfino lo stesso giorno! Cioè, i due non si somigliano solo per l’aspetto fisico, ma anche per circostanze legate alla propria biografia). L’ambiente in cui i due si conoscono è descritto come una sorta di carcere di massima sicurezza. E non basta trasferirsi in un’altra città (Oxford, Cambridge, etc.) per cambiare set esistenziale dell’azione: anche in questi casi, il narratore ci parla di stanze buie e fredde, spazi claustrofobici nei quali il suo forte appetito per il piacere (sessuale, gastronomico, alcolico, etc.) sembra non avere fine né pace. Quanto più si trova costretto a vivere “al chiuso” tanto più aumenta questo senso disinibito del peccato a tutti i costi (fino a quando William Wilson non farà la sua apparizione finale catartica).

In La caduta della casa Usher lo spazio è il vero protagonista della storia, come ricorderanno gli amanti dello scrittore americano. Tanto è vero che il nobile che vi abita (amico d’infanzia del narratore) riconosce di essere caduto in depressione (o in una sorta di stato d’apatia totale) per colpa delle pietre, delle stanze, degli specchi e dei tendaggi dell’enorme mansione in cui vive insieme alla sorella (anche lei malata, ma di tubercolosi, a quanto pare). Qui lo spazio determina tutto il ritmo della narrazione, fino al terremoto finale, quando la stessa casa degli Usher sembra sprofondare nel lago in cui, all’inizio del racconto, si specchiava in modo tetro.

Ne L’uomo della folla – forse uno dei racconti più belli e affascinanti di Poe, oltre che uno dei più enigmatici – è la strada, o meglio, le strade di Londra a diventare personaggio fondamentale. La narrazione è affidata in prima persona singolare a un uomo di mezza età che passa il tempo a spiare gli altri passanti dalla finestra della sua locanda favorita. Convalescente da una febbre che lo ha tenuto a letto per molto tempo, una volta che decide di poter uscire di casa, s’intrattiene proprio nella contemplazione dei volti e dei gesti, dei vestiti e delle espressioni degli anonimi passanti. Fino a quando non s’imbatte nel volto di un anziano (sui 65 anni) che cattura subito la sua attenzione e lo spinge ad inseguirlo senza farsi notare. L’uomo spia il vecchio nel suo girovagare apparentemente senza senso per il centro della città, fino ad arrivare (di notte) nella zona più periferica e malfamata, quella in cui vivono i poveri e gli alcolizzati. Non sapremo mai chi sia questo anziano, né perché ossessiona così tanto il narratore. Le strade diventano labirinti nei quali ognuno di noi può perdere la percezione della propria identità.

Ne Il pozzo e il pendolo la vittima della Santa Inquisizione è in attesa di subire una morte atroce. Senza capire bene dove si trova, per colpa dell’oscurità tremenda che lo avvolge, questo povero cristo scoprirà di essere prigioniero all’interno di una sorta di cella dal cui soffitto pende una lama gigantesca che si muove come fosse un pendolo che segnala lentamente, ma inerosabilmente, l’ora della morte. Qui lo spazio è davvero claustrofobico: leggiamo e sentiamo che ci manca l’aria e che, al posto del protagonista, preferiremmo morire d’infarto piuttosto che attendere la fine del viaggio della lama che pende sul nostro collo e sulla nostra testa come una spada di Damocle.

Ancora non ho riletto Il gatto nero, né Il barile di Amontillado, né La verità sul caso del signor Valdemar, Il cuore rivelatore, né Una discesa nel Maelstrom, ma è evidente che in tutti questi racconti meravigliosi lo spazio è uno dei motori centrali che fa partire e accelelare la pulsazione del cuore dei lettori. E chissà perché Baudelaire sentì tanta passione per l’opera di Poe. E chissà se Poe avrebbe scritto ciò che ha scritto se non fosse stato schiavo dell’alcol e di quello stato d’animo distaccato e plumbeo che potremmo definire come lo “spleen” baudelairiano.

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