viernes, marzo 26, 2021

 Diario di un disperato (1944) di Friedrich Reck o dell'Apocalisse del Nazismo



In questi giorni di primavera, di sole e di caldo quasi già estivo, leggo uno dei libri più sconvolgenti che abbia mai letto in vita mia. Si tratta del diario di Friedrich Reck (il cognome completo è quasi impronunciabile: Reck-Malleczewen), un aristocratico d'origine ebraica, ma convertitosi al cattolicesimo, che ha vissuto sulla propria pelle gli effetti devastanti del Nazismo e di ciò che egli stesso definisce nelle pagine del suo diario "hitlerismo".

È un'opera scritta di getto; si capisce che chi scrive lo fa per lasciare una testimonianza che possa spiegare l'inspiegabile, che possa offrire ai lettori futuri (e del futuro) una serie di dati obiettivi, anche se inevitabilmente filtrati dalla soggettività di un cattolico e benestante che arriva ad usare la parola "odio" nei confronti di Hitler.

Si tratta di un'opera che fa male, che disturba, che angoscia, che provoca (o può provocare) il pianto, il ribrezzo o la rabbia, soprattutto (mi azzardo ad ipotizzare) per un lettore del XXI secolo, uno che viene dopo i disastri e le tragedie legate alla Seconda Guerra Mondiale e ai campi di concentramento in cui i nazisti pianificavano la distruzione massiva degli ebrei e di chi non sposasse la loro causa assurda...

Il diario comincia nel maggio del 1936. All'altezza di agosto ecco cosa scrive Reck:

"Sono ormai cinque anni che vivo in questa fossa. Da più di quarantadue mesi vivo con odio, vado a letto con l'odio nel cuore, sogno con odio e mi risveglio con odio. Soffoco all'idea di essere prigioniero di un'orda di malvagi babbuini e mi logoro su questo enigma: come è possibile che lo stesso popolo che ancora qualche anno fa vigilava così gelosamente sui propri diritti sia caduto da un giorno all'altro in questo stato di apatia, nel quale non soltanto tollera la sottomissione da parte di uno sconosciuto, ma, al colmo del disonore, non è nemmeno più in grado di percepire la propria ignomia come tale?..." (pp. 16-17 dell'edizione italiana di Castelvecchi Editore - enorme il lavoro del traduttore, che cito: Matteo Chiarini).

Ed è una domanda del tutto logica e razionale: com'è possibile che nessuno abbia visto, nessuno abbia previsto, nessuno abbia frenato la corsa al potere di uno come Hitler?

Segue la descrizione del Nemico: 

"Di recente ho visto Hitler [...]: un viso rotondo stralunato, insulso, flaccido, in cui due occhi vitrei e malinconici spiccano come grani di uva secca. Così triste, così incredibilmente insignificante e rozzo che appena trent'anni fa, nel periodo più oscuro dell'età guglielmina, sarebbe stato impossibile trovare un ufficiale con quel viso, non fosse altro che per ragioni estetiche" (p. 17).

E fanno impressione certi ragionamenti: Friedrich Reck non è un nostalgico dell'antico regime, o non solo; riflette sul volto del mostro e si sorprende del fatto che solo trent'anni prima uno con una faccia simile non avrebbe mai fatto carriera nell'ambito militare. 

E poi c'è il racconto del suo secondo incontro, in diretta, dal vivo, con chi sarà causa della sua disperazione: nel 1932, all'interno di un'osteria, Friedrich Reck sta mangiando quando Hitler entra con le guardie del corpo e pretende di essere servito e riverito. Reck porta una pistola nascosta nella tasca della giacca. E scrive, con tono amareggiato, col senno del poi:

"Se allora avessi saputo quale ruolo avrebbe assunto quell'infame, e gli anni di sofferenza che ci ha fatto patire, lo avrei certamente fatto. Ma allora lo consideravo ancora un personaggio comico, e non sparai" (p. 21).

Un aristocratico d'origine ebraica. Uno che si converte alla religione cattolica. Un conservatore. Un uomo della classe agiata, ma dedito allo studio e alla letteratura. Uno che esercita come medico e che possiede una casa e una terra e che scrive romanzi e saggi di Storia. Non solo arriva ad odiare Hitler, ma si rammarica di non averlo ammazzato quando avrebbe potuto farlo, di non aver avuto il coraggio di premere il grilletto quando ancora lo considerava un pagliaccio...

Il lettore che continua a leggere rimarrà per sempre legato a questa scena: perché il diario non è altro che la "discesa agli Inferi", la narrazione spietata di tutto ciò che Hitler ha fatto all'autore del diario, alla Germania e al mondo intero a partire da quel giorno del 1932 in cui Friedrich Reck lo risparmiò dalla sua rabbia.

Non citerò le moltissime scene scioccanti in cui l'autore ci parla dei morti, delle impiccagioni, dell'uso smodato della ghigliottina, dei processi farsa, dei tradimenti e delle delazioni fatte solo per odio verso il vicino, né dell'atmosfera da incubo che assume la Germania stessa man mano che passano gli anni. Lascio al lettore che voglia scoprire questo testo il piacere disturbante di una lettura che inquieta, che fa tremare, che fa riflettere e che sorprende quasi ad ogni riga.

Sì citerò, invece, una delle ultime domande retoriche che l'autore si pone e ci pone verso la fine del testo. È il 9 ottobre del 1944 (l'autore sarebbe stato arrestato e deportato nel campo di concentramento di Dachau di lì a poco: viene ucciso il 16 febbraio del 1945). E questo è ciò che si domanda Friedrich Reck, un uomo devoto di Dio e che crede nella resurrezione delle anime e dei corpi:

"È il colmo di una situazione tragica e di una vergogna inconcepibile che proprio i migliori tedeschi sopravvissuti, prigionieri da dodici anni di un'orda di babbei, debbano per sua colpa sperare e implorare la sconfitta della loro patria?" (p. 170).

È il colmo, sì. E noi che veniamo dopo di lui e dopo l'Olocausto, dovremmo tenere a mente e fare tesoro di queste parole, scritte in un diario che l'autore tenne nascosto seppellendolo nella terra del giardino della propria casa, prima che qualcuno lo scoprisse e lo rendesse (per fortuna) pubblico. Una lettura che toglie il respiro. Uno dei libri più incredibili che abbia mai letto...

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