sábado, agosto 23, 2025

 La ricreazione è finita (2023) di Dario Ferrari




Si può raccontare uno dei momenti più bui della Storia d'Italia come gli "Anni di piombo" con ironia? E, al contempo, si può fare la satira del mondo accademico senza scadere nel "panflet"? La risposta ad entrambe la domande è sì, se si legge il premiato (e forse troppo lungo) romanzo di Dario Ferrari, La ricreazione è finita (di 2 anni fa).

Spassosa la fenomenologia di come scrivere un buon articolo: (p. 66): "L'articolo è una trascurabile appendice delle sue note: solo gli sprovveduti credono il contrario" e questo perché (come sa chi fa questo mestiere e come sa chi ignora che "è così che va il mondo accademico"): (p. 64): "Nelle note si tessono le trame politiche, ovvero si inserisce il proprio scritto nella complessa rete della geopolitica accademica" (per non parlare del ritratto del "barone perfetto" o dell'eterno aspirante a un posto fisso tramite concorso).

Meno spassosa e certamente interessante la rappresentazione della mentalità e della psicologia dei potenziali terroristi anti-Stato e anti-fascisti, come a p. 330, dove uno dei giovani ribelli spiega "more geometrico" come si fa (o dovrebbe farsi) la rivoluzione: "Il sogno, se non lo nutri, si rattrappisce. E per nutrire il sogno c'è bisogno di farne una cosa. Bisogna reificarlo. Se non ci si assume la responsabilità della violenza, se non si accetta la possibilità di avere le mani sporche di sangue, il sogno è solo utopismo sterile, velleitarismo infantile".

Ecco: sono brani come questi che avvicinano il lettore del XXI secolo all'Italia degli anni 70. E a quegli ambienti giovanili (e, a volte, giovanilistici) in cui sono nate le Brigate Rosse o i gruppi extra-parlamentari che hanno creduto davvero in un ribaltamento delle prospettive, in un mondo migliore e in una lotta senza quartiere allo Stato ingiusto o che, in nome di una determinata politica, tende a schiacciare chi non ha voce, chi non si sente rappresentato, chi si vede continuamente umiliato dai meccanismi della politica e di chi comanda.

Curiosità (o coincidenze) della vita: Marcello, il dottorando per caso che dovrà svolgere le sue ricerche sull'ex-terrorista rosso e scrittore Tito Sella, si ritrova a vincere una borsa di studio presso l'Università di Pisa. Anch'io frequentai quell'Università, in un'altra vita, e non posso non ricordare Francesco Orlando e gli aneddoti che ci raccontava (con il suo stile elegante e la sua ironia sottile) attorno ai brigadisti che pullulavano in città, tra sospetti e leggende urbante, tra pettegolezzi e spiate alla polizia.

Può una valigia di esplosivo finire in una biblioteca come quella della Normale? Forse sì, all'epoca sì. La ricreazione finì come sanno tutti. Aldo Moro e ciò che seguì a quell'esecuzione è Storia Contemporanea della Repubblica d'Italia. Merito di Dario Ferrari e del suo alter-ego un po' disilluso e un po' cinico è quello di ri-avvicinarci a quella Storia che ancora ci riguarda. Da molto vicino.

lunes, agosto 18, 2025

 Il pane perduto di Edith Bruck



Pubblicato nel 2021, questo libro potrebbe assumere un valore etico ancora più dirompente se ne immaginassimo una lettura colletiva lunga la striscia di Gaza, tra palestinesi e israeliani, tra musulmani ed ebrei (soprattutto ebrei contrari allo sterminio portato avanti dalla politica di Netanyahu - non ho idea di quanti ce ne possano essere, ma sono certo che esistono, così come esistono russi profondamente, intimamente contrari alla politica di Putin)

Edith Bruck, ungherese ebraica che ha adottato la lingua di Dante per parlare della sua vita e delle esperienze che ne hanno segnato il cammino, rievoca ne Il pane perduto il dramma della Shoah e la violenza a cui ha dovuto assistere (bambina) nel corso della deportazione della sua famiglia nel campo di concentramento di Dachau. 

Sono molte le pagine che restano impresse nella memoria del lettore, molte le riflessioni che scuotono la coscienza di chi non ha mai patito una guerra, anche se ne vede frammenti in diretta in ogni edizione del telegiornale (magari comodamente seduto sul sofà di casa, o mentre fa colazione o mentre pranza o cena senza stenti, né fatica, né disperato bisogno di saziare la fame).

Il pane: ecco un simbolo antico come l'uomo, un'immagine portante del Cristianesimo ("questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, mangiate e bevetene, in nome mio", dice la vulgata). Quando i nazisti entrano in casa, la madre della piccola Edith non ha fatto in tempo a prendere il pane fatto in casa, con il lievito buono. Quel pane resterà per sempre impresso nell'anima di chi si vede ridotto ad animale da macello, a numero stampigliato sul polso, a nemico da convertire in cenere o in sapone.

A p. 31 c'è già un primo approccio all'orrore (di chi non sa ancora cosa stia succedendo, del perché gli ebrei sono diventati i nemici dei tedeschi e degli ungheresi che li aiutano nel loro sogno di razza pura ariana e senza macchia):

"Con i Reisman, per la prima volta così vicini, avevo scambiato un saluto muto. Il bambino più piccolo in braccio alla madre di Eva piangeva disperato e in quel pianto c'era un dolore puro, universale. Un dolore e un grido come quelli dei maiali di Natale sotto i lunghi coltellacci. Gli aguzzini che parlavano la loro lingua li ferivano con ogni parola, dirigendoli come fossero pecore verso la piccola sinagoga, dove c'erano già tutti gli ebrei del villaggio. Chiedevano muti con lo sguardo da bestie spaventate "Che succede, che succede?" come se le loro parole, le loro domande, non avessero più senso, né valore. Le uniche voci che contavano erano quelle dei gendarmi che pretendevano soldi, valori, le fedi, gli orologi da polso che ben pochi avevano. Perquisivano donne e uomini, controllavono gli orli dei vestiti e i cuscinetti delle giacche con parole sempre più offensive. "Pezzenti, straccivendoli, spilorci, nasoni che pisciano in bocca, brutti, sporchi ebrei via, via da qui!".
"Dove, dove?", si sentiva una voce".

Le domande senza risposta: le domande che smettono di avere valore perché chi li porge sa già che il suo destino non dipenderà più da una sua libera scelta o decisione, ma dal volere del tutto soggettivo e abritrario dell'aguzzino. Ecco come poco dopo la Bibbia diventa supporto nella descrizione del cataclisma, dell'Apocalisse che si abbatterà anche su quegli ebrei ungheresi ancora all'oscuro della precisione mortifera del piano di Hitler, lo sterminio, sì, ma su scala planetaria (siamo a p. 36):

"Non c'era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai passi e ai bimbi che potevano sfuggire dalle mani tremanti dei genitori, per sostenere i più vecchi che barcollavano come ubriachi e ciechi. Sembrava l'estodo dall'Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l'Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana venita spinta dentro con violenza".

È l'orrore di chi viene deportato senza sapere dove finirà. E di nuovo, come non pensare a tutti quei bambini palestinesi sterminati dalle bombe dell'esercito israeliano, come non pensare a quei genitori che vedono i loro figli cadere perfino mentre sono in fila per ottenere un po' di cibo dai camion delle organizzazioni che Isreale fa passare nella striscia col contagocce? Come non pensare al cinismo, alla violenza sadica di chi spara sulle folle affamate in fila e con pentole (per sempre) vuote?

Vecchi e bambini: sono le vittime più immediate, insieme alle donne, perché non sanno, perché non hanno la forza fisica degli uomini per resistere o tentare una via di fuga. 

Nei campi di concentramento, così come già ci insegna Primo Levi in Se questo è un uomo, la prima incognita riguarda proprio le regole che vi si applicano. Chi si salva e perché? Dove vanno a finire i condannati? Il fumo nero che esce da alcuni comignoli non è un segnale facile da decodificare, prima di rendersi conto delle cataste di cadaveri e dell'orrendo puzzo di carne bruciata. A p. 45 le domande della bambina che inizia a capire:

"Oh, capire le regole, le rigide discipline, i ruoli, non era facile, né conoscere i trucchi della possibile sopravvivenza, né essere guardiane della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare all'indomani".

È tremendo questo brano perché ci fa capire (ci fa toccare con mano) come sia facile perdere la dignità quando si tratta di sopravvivere, come sia quasi automatico pensare alla propria sopravvivenza a discapito di quella degli altri. Bisogna diventare "guardiani di se stessi" sia per sopravvivere sia per tentare di non determinare (magari senza volerlo, senza prevederlo) la morte di chi ci vive affianco... Se questo è un uomo, sì, consideriamo se questo è un uomo, costretto a sopravvivere nel dubbio di provocare la morte dell'altro per il fatto stesso di sopravvivere al prossimo.

E poi la perdita della percezione del tempo: nei campi di concentramento nazisti le vittime vengono spogliate di tutto e gli orologi non servono più a nulla, perché i giorni sono tutti uguali e il passare delle ore è cadenzato da ritmi che non hanno (più) nulla della vita umana civilizzata (id., p. 45):

"Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si moriva: chi per la selezione, chi all'appello, chi per la fame, chi per malattie e chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a lungo appesa come Cristo sulla croce".

Una Eva che muore appesa sul filo spinato come Cristo sulla croce: la donna che nell'Antico Testamento provoca la caduta di Adamo e la cacciata dal Paradiso Terrestre viene qui descritta come Cristo nel momento del massimo sacrificio...E perché Dio lo abbandona? Perché, mio Dio, mi hai abbandonato?

Queste domande tornano in modo molto esplicito nel finale del libro, quando Edith Bruck "invia" una lettera a Dio... Si tratta di pagine molto intime e scioccanti, di pagine piene di stupore e di umiltà, di domande senza risposte, di dubbi di chi ha visto la Morte in uno dei momenti più bui della Storia dell'essere umano e non sa darsi pace e non sa spiegarsi perché sia potuto succedere, perché tante vittime innocenti, perché tanti morti, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in un clima che, ahinoi, potrebbe ricordare fin troppo i tempi che stiamo vivendo oggi, nel 2025, a pochi passi dal baratro...

viernes, agosto 01, 2025

 Saint-Paul-Trois-Châteaux 
(o di un viaggio al passato per evitare il traffico del presente)

L'idea era quella di fermarsi ad Orange per vedere uno degli anfiteatri romani più antichi e meglio conservati del mondo. Il traffico stressante ci ha spinti a prenotare al volo un hotel (di lusso, incredibile) a Saint-Paul-Trois-Châteaux, un paesino medievale di 7 mila anime che toglie il fiato per la sua bellezza discreta, il silenzio, le strade quasi deserte. Questa è la Cattedrale di Notre Dame, risalente alla metà del XII sec. e davvero imponente per chi si avventura per le stradine labirintiche del centro storico:


Uno proprio non se l'aspetta: che ci fa un mastodonte del genere in un paesino così piccolo? All'interno, ci troviamo un gatto che dorme e che resta impassibile davanti ai pochi turisti che gli si avvicinano. È lui che comanda lì dentro, più dell'eventuale prete, abate o vescovo che sia...
Questo, invece, è un tipico scorcio delle stradine del centro:


È la Francia, certo, ma potremmo essere anche in Italia, in Abruzzo, in uno dei tantissimi paesini sperduti sulle montagne nostrane.
Questo, invece, è uno scorcio della piazza antistante l'hotel in cui alloggiamo prima di riprendere il volo verso Grenobles, le Alpi e l'estremo Nord:


La fontanella zampilla anche ora, il suono dell'acqua calma molto in una giornata in cui abbiamo raggiunto i 32 gradi centigradi. Quel negozio di vini non fa solo vendita di prodotti tipici, ma serve anche un'ottima focaccia (preparata con cura de un italiano che viene da Milano) e dei taglieri spettacolari con formaggi e salumi della zona che fanno venire l'acquolina in bocca solo a guardarli. Il vino rosso è anch'esso ottimo e il proprietario un tipo simpatico che si da da fare e che si mostra sempre gentile e sorridente.

Ecco: uno mette a confronto il caos di macchine in fila da Algeres-sur-mer e questo Paradiso che sembra perduto nel tempo e non può non concludere che sarebbe molto meglio perdersi e restare per sempre a Saint-Paul-Trois-Châteaux che perdersi e continuare a viaggiare lungo la A7 e la A9, collassate dai tir e dalle auto dei francesi che sembra che si siano messi tutti d'accordo per partire in vacanza proprio oggi...1 di agosto del 2025.

miércoles, julio 30, 2025

 Portbou e Walter Benjamin


È il 30 Luglio del 2025. Siamo arrivati a Portbou. La città in cui Walter Benjamin, l'inventore dei "passages", si tolse la vita, nella sua fuga dai nazisti e nel suo disperato e ultimo tentativo di passare la frontiera tra Francia e Spagna (l'idea era quella di imbarcarsi per gli Stati Uniti d'America).

Il monumento che commemora la sua morte è in cima a una collina con una vista spettacolare sul mare. Accanto al cimitero del paese (circa mille abitanti, che d'estate si triplicano). L'atmosfera è surreale: là in fondo, sulla sinistra, turisti e gente del luogo che si fa il bagno; qui sopra, accanti alle tombe dei morti del passato, un monumento che ricorda l'opera e il pensiero di un "flaneur" che ha finito la sua corsa (le sue mille passeggiate) in un paesino spagnolo a ridosso della Francia... L'allegria degli uni, la tristezza degli altri, ovvero, di coloro che sanno il perché della presenza di questa porta oscura verso l'abisso del mare (quando si scende si ha la sensazione di cadere in acqua, di rotolare in fondo all'acqua, di non riuscire a frenarsi...).


Milioni di turisti prendono il sole, sorridono, si baciano, mangiano il gelato, ignari della parabola esistenziale di uno fra i milioni di vittime ebree della furia (o della follia) di Hitler e degli esiliati spagnoli che fuggono dalla guerra civile per provare a rifarsi una vita in Francia.



Spagnoli che arrivano qui come sfollati, con le coperte e i pochi effetti personali sulla schiena, le donne e i bambini che percorrono chilometri come in una processione senza fine... 

Portbou ricorda anche quelle vittime, il passato torna presente, i fantasmi dei morti tornano a farsi presenze reali in questa collina in cui Walter Benjamin dovette pensare al suo destino, oltre che a quello dell'Europa distrutta (o in via di distruzione) per colpa della Seconda Guerra Mondiale. Era il 27 settembre del 1940 quando Benjamin inala una dose esagerata di morfina. Muore in una stanza dell'Hotel Francia. Dopo aver attraversato la Storia, aver scritto libri che hanno illuminato il pensiero del XX secolo e aver disceso quel tunnel verso l'abisso che l'artista Dani Karavan (anch'egli ebreo) ha realizzato nel 1994. 

 Sono passati 85 anni dalla morte di Walter Benjamin. E 31 dalla realizzazione del monumento di Portbou. Sembra di essere tornati indietro nel tempo. La Storia: un incubo da cui sembra difficile (o impossibile) svegliarsi...



lunes, julio 28, 2025

 Prima di ripartire per l'Italia


Sono in procinto di ripartire per l'Italia (passando dalla Francia, in macchina, per raggiungere Grenobles e poi entrare in Val d'Aosta, attraversando il valico del Monte Bianco, o "Mont Blanche", a detta dei francesi, e poi scendere in direzione Lucca, seguendo, in parte, il tragitto della Via Francigena, prima di "atterrare" a Roma capitale).

Il traffico delle 8:00 del mattino è scorrevole: si arriva a lavoro in meno di mezz'ora, dal paesino sulla costa del Sud del Sud della Spagna in cui vivo. Al semaforo in rosso i nostri sguardi insonnoliti s'incrociano: si trucca (o si aggiusta il trucco) sullo specchietto e mi guarda sorpresa dal mio sguardo attento, leggermente incuriosito (come fanno le donne a truccarsi anche mentre sono in auto? Quanta velocità, prontezza, precisione richiede un 'operazione del genere?).

Alle 8:30 ricevo un messaggio di una mia cara collega, Lola, compagna di avventure e di sventure, che io ho soprannominato "Sancho Panza". Mi chiede conferma dell'orario di un corso di formazione che ci impongono oggi, lunedì 28 luglio, a pochi giorni dalla chiusura completa dell'Università per tutto intero il mese d'agosto. Le confermo l'orario: dalle 10:00 alle 12:00. Lola mi dice che verrà cinque minuti prima (vive a pochi metri dall'Università e non ha voglia di entrare prima).

Ci chiediamo entrambi che senso abbia "costringere" i prof. a seguire un corso di formazione a fine mese, quando i cervelli sono fusi, il corpo stanco, la mente già proiettata verso le vacanze (Courmayeur, ad esempio, o Torino, o Pavia...).

Nel viaggio francese toccheremo alcune città emblematiche per chi studia letteratura: a Coillure morì Antonio Machado (il poeta); a Portbou trovò la morte Walter Benjamin (il filosofo, il critico letterario, l'esperto di arte). Andiamo alla ricerca delle tracce del passato dei fantasmi (benigni) sui cui libri ci siamo formati. È un viaggio di piacere costellato di fermate strategiche alla ricerca delle ombre degli eventi tragici della Storia del XX secolo (la Seconda Guerra Mondiale; la Shoah; la Guerra Civile Spagnola). Lola dice che ci accompagnerebbe volentieri. Sta finendo la tesi di dottorato (sulla cosiddetta "poesia dell'esperienza") e adora Benjamin (e sa a memoria alcuni componimenti di Machado).

"Caminante no hay camino...", certo. Il cammino si costruisce camminando (l'ho sperimentato nel 2012, cundo affrontai il famoso "Camino de Santiago"). E allora mi viene in mente il finale di una poesia di Pierluigi Cappello, poeta che ho scoperto grazie a Jovanotti (che mi fece scoprire anche Mariangela Gualtieri, un'altra scrittrice che emoziona e incanta con la sua lirica apparentemente umile, ma profondamente dirompente):

Piangere non è un sussulto di scapole
e adesso che ho pianto
non ho parole migliori di queste
per dire che ho pianto
le parole più belle
le parole più pure
non sono lo zampettio delle sillabe
sull’inverno frusciante dei fogli
stanno così come stanno
né fuoco né cenere
fra l’ultima parola detta
e la prima nuova da dire
è lì che abitiamo.

Traduco il testo in spagnolo per Lola; sottolineo con enfasi gli ultimi tre versi: "fra l'ultima parola detta / e la prima nuova da dire / è lì che abitiamo". E Lola mi fa notare come sia molto vicino a Benjamin questo Cappello, e forse anche ad Antonio Machado.

sábado, julio 26, 2025

 Ahora y en la hora (2025) di Héctor Abad Faciolince: scrivere da sopravvissuti



Un libro per l'estate. Ecco, questo che ho appena finito di leggere sarebbe proprio l'antesignano al concetto stesso di "libro per l'estate" (quelli che si leggono stesi sulla spiaggia o sotto l'ombrellone, su una sdraio, il volto accarezzato dalla brezza marina). 

In Ahora y en la hora (Madrid, Alfaguara, 2025) il colombiano Héctor Abad Faciolince racconta un fatto di cronaca nera legato alla guerra in Ucrania, ovvero, il tremendo attentato dei russi alla città di Kramatorsk.

Lo scrittore è lì per appoggiare la causa di Victoria Amélina e altri intellettuali e giornalisti che cercano di frenare l'invasione di Putin (invasione anche dal punto di vista ideologico, culturale e storico, non solo militare). Il movimento cui aderisce l'autore si chiama "¡Aguanta Ucrania!". Per farsi un'idea concreta di come queste persone si sono organizzate per dare testimonianze obiettive in diretta dal fronte (o dei luoghi più critici della guerra), Héctor decide di partire dalla Colombia e di conoscere dal vivo Victoria e gli altri integranti del gruppo. 

In Ucraina il suo libro più famoso, El olvido que seremos (del 2006, stranamente ancora non disponibile in italiano), è stato tradotto da poco ed è diventato perfino "il miglior libro straniero dell'anno".

Héctor arriva a Kiev, la capitale, e nota che la guerra si respira nell'aira per la presenza dei carri armati e dei soldati, per i gesti e i comportamenti delle persone che ci provano a fare una vita normale quando la normalità è ormai un ricordo lontano. Così, accetta di andare a Kramatorsk, in una delle zone più attaccate e, perciò, più pericolose del momento. Rimanda il viaggio già programmato per fare esperienza del male, della violenza e delle ingiustizie che Putin ha generato dopo l'invasione dell'Ucrania il 24 febbraio del 2022.

È il martedì del 27 giugno del 2023 quando, mentre sono sul punto di mangiare una pizza, un missile russo cade sulla pizzeria della città e provoca decine di morti, tra cui la scrittrice, giornalista e attivista Victoria Amélina. Il caso ha voluto che si sedesse nella sedia che le cede Héctor perché ha problemi d'udito all'orecchio sinistro e voleva cercare di intendersi con l'altro collega seduto al suo fianco.

Può un cambio di posto a tavola, può un difetto d'udito determinare la vita o la morte di un individuo? 

La risposta è ovvia e attorno ad essa gira tutta la trama frammentata, autobiografica, lirica, a tratti, e a volte straziante di Ahora y en la hora, un titolo che viene dalle ultime parole del Padre nostro, "Ora e nell'ora" (della nostra morte, amen).

Quello che più colpisce della scrittura di Héctor Abad Faciolince è la sua onestà intellettuale, la sua umiltà nell'ammettere che le parole non riusciranno mai a riportare in presa diretta le sensazioni vissute, né potranno riportare in vita le vittime della guerra ancora in corso. E però servono, perché la scrittura è uno dei pochi strumenti che abbiamo per non dimenticare, per non far precipitare nell'abisso dell'oblio ciò che è stato (ciò che abbiamo visto, ciò che abbiamo vissuto, ciò che ci ha ferito a morte).

Cito questa frase che Victoria pronuncia in un intervento presso l'Istituto Goethe di non ricordo più quale città:

"Mi rendo conto che la guerra ha distrutto la mia lingua. È ciò che la guerra ti lascia: le frasi sono il più breve possibile, la punteggiatura è un lusso superfluo, l'argomento non è chiaro, ma ogni parola ha un grande significato. Tutto questo vale per la poesia, ma anche per la guerra".

È la stessa scoperta che fa Primo Levi ad Auschwitz. È la scoperta (amara) che fa sulla propria pelle Héctor, sopravvissuto a un attentato che lo ha portato a guardare in faccia la Morte. Anche le parole di Ahora y en la hora hanno grande significato. Soprattutto quelle che descrivono le foto di Victoria e quelle che fanno parte delle tante poesie che lo scrittore inserisce all'interno della trama per cercare di capire e di capirsi. È un libro duro, quello di Héctor, un libro che gli storici del futuro dovranno leggere se vorranno scrivere una Storia della Guerra in Ucraina con obiettività e serietà, con rispetto verso chi l'ha vissuta e la vive ancora oggi, verso chi la subisce e verso chi prova a capirla...

miércoles, junio 25, 2025

 La fine di un ciclo "chisciottesco" nel caldo torrido spagnolo

Temperature torride, sorrisi spenti, prof che vorrebbero andare già in vacanza, ma gli impegni accademici e burocratici che ruotano attorno a questa professione lo impediscono... L'aria condizionata dell'ufficio segna 24 gradi, fuori ne faranno almeno 36. L'auto scotta e pur abbassando i finestrini si suda come in una sauna. L'asfalto si sfalda sotto i colpi di sole di questo fine Giugno tremendo. Presso la Biblioteca Regionale, nonostante la stanchezza, riusciamo a portare a termine un caffè letterario chisciottesco. Lancio la domanda: "Che idea vi siete fatti di Miguel de Cervantes? Cosa ne pensate di lui ora che avete letto o riletto alcuni dei capitoli della Seconda Parte del Chisciotte?".


Una donna sui settant'anni alza la mano: "Dovette essere una persona tremendamente colta. Un vero intellettuale. E io mi domando come facesse ad avere una memoria del genere, capace com'era di citare dalla Bibbia, dai classici, dai suoi contemporanei con tanta nonchalance...".


Un altro lettore di nome Gesù alza la mano anche lui: "Io credo che Cervantes sia stato un tipo divertentissimo, dotato di grande senso dell'umorismo, uno davvero molto ironico e pefino autoironico, uno che raccontava le barzellette, ne sono quasi sicuro...".


Un altro di nome Cesare aggiunge: "E anche un tipo acuto, molto diretto nella critica a ciò che non andava nella sua società. Io mi domando come fosse riuscito a schivare la Santa Inquisizione, perché se leggiamo bene il Chisciotte, anche lì ci sono molte scene "problematiche" o "complicate" dal punto di vista morale...".


M'intrometto anch'io: "È per questo che il finale del Chisciotte mi sorprende, come vi dicevo prima... Alonso Quijano el Bueno muore in modo cristiano, sul letto di casa sua, al cospetto degli amici e dopo aver ricevuto l'estrema unzione. Si confessa e fa testamento e lo ripete mille volte: "Io rinnego da Don Chsciotte della Mancia, riconosco il mio peccato e la follia a cui mi ha spinto la lettura dei romanzi di cavalleria; io non sono più quello di una volta; io voglio morire sperando che tutti si ricordino di me come di un buon cristiano, rispettoso della fede e di Dio". Non vi sembra un po' artificiale, un po' troppo forzata questa sorta di conversione in articulo mortis?".


Una ragazza giovane, dai lunghi capelli neri e ricci, molto timidamente alza la mano e aggiunge la sua riflessione: "Io credo che Cervantes abbia inventato questo finale proprio a scanso di equivoci e proprio per evitare problemi con la censura. E che, in realtà, era ciò che tutti qui hanno già detto, ovvero, una persona tremendamente ironica, divertente, colta, una sorta d'intellettuale in grado di fare la radiografia della realtà storica del tempo a partire dalla visione distorta di un pazzo".


Fa davvero caldo in questa città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo da ormai più di un decennio, ma che bello, che emozione, che piacere vedere che questa sorta di mini-corso chisciottesco abbia dato luogo a questi dibattiti a metà tra la vita e la finzione, tra il testo letterario e le paure e le speranze di cittadini del XXI secolo... Cervantes fa parlare di sè anche nel 2025. E Don Chiosciotte - ma lo sapevamo già, lo sanno anche i bambini - non muore mai.

 La ricreazione è finita (2023) di Dario Ferrari Si può raccontare uno dei momenti più bui della Storia d'Italia come gli "Anni di...