viernes, diciembre 12, 2025

 Un premio alla poesia

Poche ore fa (in queste ore) una mia cara amica ed ex-collega, oltre che ex-compagna di merende, ha vinto un premio molto importante nell'ambito del genere lirico, qui, in Spagna. Uno di quei premi che segnano il futuro di uno scrittore, soprattutto se questo scrittore e' poeta e usa la poesia come suo genere favorito.

La gioia si unisce alla malinconia: troppo tempo che non ci vediamo e che non abbiamo modo di parlare da soli, faccia a faccia. Troppi anni di distanza (quando ci sono state occasioni in cui il contatto era diretto, ci si guardava negli occhi, ci si confessavano anche i peccati piu' scabrosi o i pensieri piu' assurdi...). 

Oggi no, nel 2025 (quasi 2026), no, non e' piu' possibile e posso apprendere soltanto dalla stampa cio' che e' accaduto a Madrid, presso la Biblioteca Nazionale, la mia seconda casa, li' dove ho vissuto giorni felice indimenticabili.

Le mando un messaggio: "Complimenti! Sono davvero felice per te! La notizia mi giunge mentre torno a Luis Cernuda", ed e' vero, proprio stamattina mi sono rimesso a studiare la poesia di Cernuda, il mio poeta favorito della famosa "Generación del 27". Ancora non mi risponde, ne' potra' rispondermi, visto che sara' immersa dalla folla per gli auguri e i festeggiamenti, i brindisi e le risate... 

Anni fa le annunciai che sarebbe diventata presto un Premio Nobel. Oggi, se continua cosi', vedo sempre piu' chiaramente che l'annuncio non e' irreale, e' davvero solo questione di tempo...una profezia sul punto d'avverarsi.

Eppure, sapere che noi due non avremo piu' modo di parlare come parlavamo anni fa mi da tristezza, mi getta un velo di malinconia, perfino ora, perfino oggi, alla notiza di questa bella notizia. Certo, posso dirlo: "Io la conoscevo bene". Fin troppo.


jueves, diciembre 11, 2025

 La luce e l'onda. Cosa significa insegnare? di Massimo Recalcati (Torino, Einaudi, 2025) [una nota a pie' di pagina]





Del succitato saggio di Massimo Recalcati (comprato al volo all'aeroporto Galileo Galilei di Pisa), vorrei citare solo una nota, che mi ha colpito e mi ha ricordato la domanda di un lettore di circa 70 anni (mio fedele alleato ai caffè letterari che organizzo grazie all'appoggio delle Biblioteca Regionale della città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo): mi riferisco alla nota 33, p. 52:

"Non a caso Schopenhauer riteneva che il pensiero degno di questo nome sorgesse solo dal dolore in quanto punctum pruriens della metafisica, ovvero da un reale traumatico che non può essere neutralizzato da nessun sapere. Cfr. A. Schopenhauer, Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 178".

Ecco: la domanda del mio lettore settantenne era la seguente: "Ma quindi si scrive solo quando si sta male?". E io gli risposi (davanti ad altri 24 lettori attenti e fedeli alle mie proposte letterarie): "Credo di sì, perché quando si è felici si vive o si cerca di spremere al massimo la felicità, ma è quando si è tristi o si cade in depressione che ci si rinchiude in se stessi, si pensa, e, quindi, si può anche arrivare a scrivere. Io non credo che Joyce avrebbe mai partorito l'Ulisse se fosse stato un uomo felice; né Proust la Recherche; né Kafka La Metamorfosi; né Cervantes il Quijote, che è pure un libro che fa ridere, pieno di battute e di scenette comiche, ma partorito in un momento non certo facile per l'autore, ormai dimenticato da tutti e senza grandi speranze per il futuro".

Ecco: una delle cose che si apprezza del saggio (l'ennesimo) di Recalcati sull'insegnare è proprio questo: per insegnare, per generare conoscenza, bisogna pensare e pensare non è né facile né scontato né scevro da sacrifici e sudore. Il problema più grande che ci si trova davanti, quando si entra in un'aula (e non mi riferisco solo a quelle delle scuole medie e superiori, ma anche a quelle universitarie, che sono le aule che sono solito frequentare per lavoro) è che ci si ritrova davanti a una massa di giovani che non vogliono pensare o che non immaginano che per pensare bisogna soffrire, frenare, rallentare, sudare, soppesare pro e contra, collegare, dedurre, insomma, sforzarsi molto (senza l'illusione che internet sia la soluzione a tutti i dubbi, l'enciclopedia infallibile in cui c'è tutto).

Ecco perché per me non c'è mai una lezione uguale all'altra, è letteralmente impossibile impartire la stessa tematica allo stesso modo (anche se gli appunti potrebbero essere gli stessi da anni - e in realtà ogni anno c'è un'aggiunta, una nota al pie in più, un commento che critica quello dell'anno prima, un riaggiustamento costante). Ogni lezione è davvero una sfida, una lotta, un'avventura, un'opzione tra mille che cambia a seconda del pubblico e delle reazioni di questo pubblico. È una scommessa che uno fa su se stesso e sugli altri, in nome della fatica di pensare o ripensare ciò su cui si è già riflettuto, è pensare di nuovo, rischiare sempre, rielaborare sempre il già letto o già scritto e pensato.

Ma come coltivare il pensare in un mondo accelerato? In una società dove si vuole sempre tutto e subito e in cui ogni minimo intoppo o lentezza è vissuta come sconfitta? Per pensare (per leggere) occorrono ingredienti (strumenti) molto poco quotati nel mondo contemporaneo: lentezza, calma, riflessione, concentrazione, solitudine, silenzio. Forse soprattutto queste ultime due cose: la solitudine e il silenzio. Dove andarle a trovare? Come ottenerle? E la scuola (e l'Università) non dovrebbero essere invece i luoghi della condivisione e della parola? Certo: ma per una condivisione e una parola efficaci, costruttive, bisogna prima aver coltivato bene il pensiero. E dunque, di nuovo, solitudine e silenzio come elementi centrali da cui (ri)partire. Ma chissà che paura fanno la solitudine e il silenzio a tanti (e non mi riferisco solo ai giovani, né solo agli studenti di ogni ordine e grado).

miércoles, diciembre 10, 2025

 Quali sono le cose che non si raccontano?




Ecco una domanda che deve porsi chi di mestiere fa lo scrittore: quali cose raccontare e quali non? E soprattutto: come raccontare le cose che sì posso e voglio, ho bisogno di raccontare?
La domanda sorge spontanea dopo la lettura di Cose che non si raccontano (Torino, Einaudi, 2023), di Antonella Lattanzi. Non un romanzo, non un diario, non una semplice cronaca dell'orrore: un libro a metà tra l'autobiografia e la denuncia, tra la confessione e l'urlo.
Erano anni che non leggevo un libro così duro, così scioccante e, allo stesso tempo, così tenero: sì, la tenerezza di chi trova il coraggio di raccontare l'indicibile e la tenerezza verso il corpo della protagonista che è il corpo delle donne, di tutte le donne.
Al centro: la gravidanza, il desiderio di maternità di chi ha abortito due volte da giovane e non riesce a restare incinta a 41 anni. Nel mezzo: gli incubi di una potenziale madre che non sa spiegarsi perché non ce la fa, perché vive la sua vita attaccata al lavoro (di scrittrice che cerca e vuole il successo) e al desiderio di essere finalmente madre e la storia (quasi la cronaca) dei giorni più bui, quando nemmeno gli amici più intimi, gli editori, il compagno sospettano la minima parte dell'Inferno che la donna è costretta a sperimentare sulla propria pelle (terribili le pagine in cui si descrive il raschiamento, in una clinica cattolica, dove chi abortisce è vista come peccatrice, come meritevole di dolore).
Da uomo penso che Antonella Lattanzi è riuscita a mostrarci come il corpo delle donne sia davvero un campo di battaglia in cui si svolge il miracolo della vita e, allo stesso, in cui può scoppiare l'inferno più atroce. 
In copertina, una donna sensuale che nuota nell'acqua (o liquido amniotico) con la testa rivolta dal basso verso l'alto, all'indietro. Quella donna ha nuotato sottacqua e ora si mantiene a galla. È forse l'emblema di tutte le donne, sia di quelle che sono riuscite a essere madri sia di quelle che, impossibilitate ad esserlo, continuano a vivere con un senso di mancanza e di vuoto che può essere incolmabile.

domingo, diciembre 07, 2025

 Il giardiniere e la morte di Georgi Gospodinov: o cosa resta di noi quando muore un padre





Lo sapevo. Io sapevo che a leggere Gosponidov avrei quasi pianto o mi sarei rattristato. È così da quando lo conosco, da quando scopersi (o scoprii?) Romanzo naturale (2007) e poi mi feci del male con Fisica della malinconia (2013). Ne Il giardiniere e la morte (Roma, Voland, 2025), Gospodinov ci racconta la morte del padre per colpa del cancro e cosa succede nei giorni che precedono l'evento finale. La morte attesa e, non per questo, meno temuta.

"Lo guardo e penso che non ci hanno insegnato a invecchiare. Cosa si fa alla fine della vita? Come rallenti, come ti abitui al fatto che il tuo compito adesso consiste nel riposarti (ma è un compito riposarsi?)" (p. 37).

Veniamo al mondo, in realtà, senza il libretto delle istruzioni: e quando (a volte) impariamo a vivere (in mezzo a mille dubbi e a mille incertezze) ecco che si avvicina la Signora della Falce e dobbiamo apprendere ad...andarcene, a lasciare i nostri cari, la casa, il giardino (che continuerà a crescere senza che nessuno se ne occupi o lo curi), il letto in cui abbiamo dormito, goduto, generato i nostri figli...

Non c'è un libretto delle istruzioni sul "buon morire", anche se Gospodinov cita Socrate, Seneca, Epicuro e Marco Aurelio (e avvicina il padre e questi grande maestri dello stoicismo).

E poi il contrasto spaziale tra infancia e vecchiaia: "L'infanzia è verticale. Cresci in altezza, [...] tuo padre ti solleva in alto, ti alzi sulle dita, [...] non vuoi andare a letto, ti ci costringono solo con la forza. La vecchiaia è orizzontale. Riposiamoci un po', sdraiamoci nel pomeriggio, mi stendo sul divano, ché la schiena... La vecchiaia è abituarsi a una lunga, forse eterna, orizzontalità" (p. 124). 

E che tenerezza ci provoca lo scrittore quando si descrive - appunto - stesso accanto al corpo del padre malato di cancro e moribondo, come se lo accompagnasse nella sventura, come se lo volesse proteggere contro la Morte, come a dire: "Morte, allontanati, ci sono io qua con lui...stai lontana, non lo vedi che stiamo facendo le parole crociate insieme?".

Libro malinconico, triste, profondo, e, allo stesso tempo, tremendamente lirico, con Il giardiniere e la morte Gospodinov (futuro potenziale Premio Nobel per la Lettatura) ci offre non solo una bellissima elegia in memoria del padre ormai assente, ma anche un'ennesima prova della sua capacità di plasmare la realtà in forma di poesia. Questo libro è anche un canto alla fragilità (e, quindi, alla bellezza) della vita. Da qui la frase del padre, che il narratore ripete come un talismano o come un ritornello, dalla prima all'ultima pagina. "Niente di grave. Niente di grave"...

sábado, diciembre 06, 2025

 

Domenico Starnone, Destinazione errata (Torino, Einaudi, 2025)



 

Che cosa succederebbe se, invece che mandare un “Ti amo” a nostra moglie (o alla nostra fidanzata), lo spedissimo per sbaglio ad un’altra donna? Destinazione errata, l’ultimo romanzo di Domenico Starnone, parte proprio da questo tremendamente possibile, quotidiano, fattibile errore di scrittura e invio tramite cellulare (la “scatola nera” delle nostre vite private, secondo felice definizione di Carla, una mia cara amica, a cui pure regalai a suo tempo Autobiografia erotica di Aristide Gambía (del 2011).

Chi conosce lo scrittore napoletano sa bene che il suo stile asciutto, apparentemente semplice, nasconde in realtà un’accuratissima attenzione ai dettagli, al non detto, all’elissi e alle accelerazioni improvvise. Soprattutto verso la fine, Destinazione errata si legge con il palpito, con il cuore accelerato, con l’ansia di volver vedere come va a finire il benedetto (maledetto?) qui pro quo. Nel mentre, ovvero, nel corso del viaggio verso l’inevitabile, temuto finale, il narratore in prima persona, il “mascolo” protagonista della trama, ci rende partecipi delle sue riflessioni, dei suoi monologhi in progress, nel pieno dei sensi di colpa, dei dubbi, delle paure, del desiderio di assecondare il desiderio (perché è così, anche nella vita reale: basta guardare una persona da un altro punto di vista, basta proiettare Eros verso un’altra persona, che repentinamente cambia il nostro modo di osservarla, di apprezzarla, di inquadrarla: il desiderio distorce e fomenta una visione “idelizzata” o “idealizzante” del soggetto che può divenire stranamente “oggetto del desiderio”).

Come in altre sue opere, Starnone è bravissimo a scandagliare le zone d’ombra di tutti noi (maschi e femmine, non credo ci sia differenza, quando parliamo di tradimento; e di fatto, Claudia, la collega cui il narratore spedisce quella dichiarazione d’amore che scatena il caos, è pure ella sposata, è anch’ella abile a orchestrare menzogne pur di cedere alla passione con il collega creduto timido o fin troppo distratto). Anzi: sia lui che lei sono apparentemente felicemente sposati; sia lui che lei hanno figli (e le figlie giocano con piacere tra di loro). A che pro, dunque, cedere alla tentazione? A che scopo ingarbugliarsi i destini e le vite, se ci vanno di mezzo mogli e mariti legittimi all’oscuro di tutto? Perché far del male (potenziale) a dei figli minorenni?

Starnone si diverte a mostrarci l’ampio spettro di emozioni e sensazioni di chi sperimenta nella vita il senso della trasgressione. E attraverso i personaggi simpatici di Clelia e di Carlo ci fa capire anche quanto Eros sia importante anche in età avanzata, quando la vecchiaia ci limita nei movimenti e nei desideri impellenti.

A un certo punto, non ricordo se lui o se lei, qualcuno afferma: “[...] non c’è nessun bivio, si obbedisce al corpo, e sennò a chi?” (p. 113). E qualcun’altro afferma (per il proprio tornaconto): “L’infedeltà non è un tradimento, è una manifestazione di curiosità” (p. 87). E chissà che non sia proprio così: chi tradisce lo fa perché vorrebbe sperimentare altre vite. Assaporare altre sensazioni ed emozioni che lo portino a sperimentare ciò che non c’è (più) nella quotidianità e nella routine. Che Eros possa sopravvivere solo grazie al tradimento? E allora come spiegare l’esistenza di quelle coppie che, pur essendo sposate da anni, continuano a desiderarsi e far l’amore con impeto? E allora come spiegarsi quelle altre coppie che, pur essendo sposate da anni, hanno ormai bandito o dimenticato il sesso? Lettura amena e allo stesso tempo avvincente, Destinazione errata ci spinge a porci queste domande. Le domande eterne che forse non prevedono risposta.

miércoles, diciembre 03, 2025

Ubriaco d'Italia


Sono ancora ubriaco d’Italia. L’arrivo a Milano Malpensa mi lascia a bocca aperta: c’è il sole e sono tutti gentili, se chiedi un’informazione, te la danno con il sorriso sulle labbra. Il bus per Torino Porta Susa parte alle 16:30, ho ancora quasi un’ora per prendere un caffè, ah, che buono il caffè italiano, e leggere le notizie dal giornale online. Sul bus è un piacere mangiare panini e guardare il paesaggio. Campi e distese di terreni lavorati da agricoltori e imprenditori che sono il motore economico del paese. Casolari, cascine, fabbriche che sembrano case, capannoni da dove s’intravede una stanza con la luce accesa, un lampadario nel centro della stanza, uno si chiede chi possa vivere in un edificio del genere, né luogo di lavoro né casa, un non-luogo a metà tra l’industriale e l’artigianale. Fa anche un po’ paura il Nord: con tutti questi filari di alberi allineati e i corsi d’acqua per l’irrigazione e le distese di terra coltivata, non è molto difficile immaginare le malefatte di qualche assassino che si diverte a squartare la gente e a seppellirla nei boschi su cui ora cala la notte.
Quanti misteri italiani irrisolti, come quelli di cui è ghiotto un Carlo Lucarelli qualsiasi...
Poi arrivo a Torino e qui le cose cambiano radicalmente. Un palazzo enorme con la scritta illuminata LAVAZZA è il segnale evidente che siamo vicini al centro. Fa freddo e anche percorrere i pochi metri che mi portano al tram 13 fa intirizzire. Sembra di essere in Abruzzo, il freddo è lo stesso, ti sferza il volto, non dà tregua. Sbaglio strada e ci metto il doppio per raggiungere i colleghi al ristorante vicino all’Università, la “Spada Reale”, in Via Principe Amedeo, 53. Arrivo con netto anticipo, perché, dopo la prima giornata di lavori, i colleghi hanno pensato bene di concedersi un bell’aperitivo. Quando arrivano, li accolgo come fossi il maitre o il cameriere che si occuperà di loro per tutta la serata.
Risate a crepapelle, pettegolezzi su chi è andato via e chi resta, su chi si è trasferito e che è asceso all’ordinariato, chi è ancora associato (come me) e chi è appena diventato ricercatore a tempo fisso (come una giovane che viene da Siviglia). Accanto a me, un signore distinto, molto simpatico e molto elegante che sembra abbia conoscenze ovunque, è amico dell’Appendino, ha pranzato una volta con Fassino, conosce Renzi, insomma, un tipo che ha un collegamento abbastanza evidente con la politica (locale, ma anche nazionale).
Brindiamo all’amicizia, che ci lega nonostante l’ambiente non sempre facile del mondo accademico, pieno zeppo di gente che fa lo sgambetto, di persone spregevoli, di tipi davvero loschi e poco raccomandabili.
La sera non dormo per l’emozione di essere in Italia. L’Abruzzo è lontano, ma mi sento a casa, e, come sempre mi succede nel cambiare letto, l’insonnia mi fa compagnia, mentre provo a immaginare come vivano qui, in questa residenza per studenti, le centinaia di iscritti alle più disparate facoltà dell’Università di Torino.
Il 26 novembre, il secondo giorno di congresso sul Franchismo, è tutto un fiorire di emozioni: per gli interventi degli esperti di letteratura (tra questi, vengono incluso anch’io, anche se provo a smentire, non sono esperto di nulla, nemmeno di come si fa a vivere), per la musica del gruppo che è stato invitato a suonare i canti popolari antifranchisti, per i disegnatori e creatori di fumetti e graphic novel e per i cinefili che ci regalano la visione di un documentario molto premiato sugli anni della dittatura in Spagna e i rapporti dei dissidenti comunisti con l’editore Einaudi (qui a Torino è nata la famosa casa editrice, qui la FIAT, qui i movimenti sindacali, motore dell’economia italiana e centro nevralgico della lotta anticapitalista).
Ceniamo “Da Michele 1922”, un ristorante e pizzeria storica della città, in Piazza Vittorio Emanuele (enorme e senza statue nel mezzo). Io mangio delle strepitose fettuccine ai funghi; qualcun’altro preferisce il secondo: tanto la carne como i primi piatti e le pizze sembrano ottime. Antichi sapori che mi carezzano il palato.
La notte, finalmente, riesco a prendere sonno, faccio almeno 5 ore filate di riposo. Il giorno dopo riparto per Pisa, dove, appena sceso dal treno, mi aspetta la Dany, amica di vecchia data, sin dai tempi del dottorato.
Che strano tornare a Pisa! Dopo più di 10 anni! E 20 anni fa il dottorato, la parentesi felice di studio intenso, di scrittura intensa, di amori intensi... Quanti ricordi legati a Pisa e che emozione davvero enorme entrare al Palazzo Boileau e fare lezione sul Quijote, in italiano, ai ragazzi dei licei linguistici della zona. Sono quasi tutte ragazze: stanno attente, fanno domande, una mi dice che le ho fatto venire la voglia di leggere il capolavoro di Cervantes. Tutto questo non ha prezzo. Mi emoziono ancora di più quando la Dany chiede un applauso ai partecipanti e loro lo fanno, mi applaudono per il piccolo, modesto intervento per introdurre i più giovani a un classico universale.
E siccome domani, 28 novembre, c’è lo sciopero nazionale, la Dany preferisce fare un aperitivo e scappare prima delle 21:00, tornare a Livorno in treno prima di correre rischi di cancellazioni o blocchi. Il tagliere; il Morellino di Scansano; i sapori toscani che facevano parte della mia quotidianità quando vivevo qui con Alyssa (tra Pisa e Firenze, per quasi 9 anni). L’ho avvisata. Domani arriva. In macchina, lei che ha il terrrore di guidare.
Dormo male, perché cambio di nuovo letto, presso le Benedettine, a pochi passo da quello che Leopardi considera il Lungarni più bello di tutti (migliore anche di quello di Firenze).
Intanto, il 28 mattina, Selena mi scrive, è tornata da Trento, un congresso sui dialoghi rinascimentali. È davvero un’impresa starle dietro: mi presenta tutti i responsabili della Biblioteca d’Ateneo; mi fa chiacchierare con colleghe spagnole ormai diventate pisane; mi trascina da un prestito all’altro, da un ufficio all’altro, senza pausa né soste, fino a che, verso le 14:00, si va a mangiare un panino con salsiccia strepitosa a “I Porci Comodi”, una paninoteca gestita da un ex-pugile toscanaccio e sarcastico come solo i toscani sanno esserlo. Mangiano in preda all’estasi. Poi un caffè e l’addio, arrivederci, amore, ciao...
Alle 17:30 Alyssa mi avvisa: è arrivata nel suo ostello, ha parcheggiato, possiamo trovarci, se voglio. E sì, lo voglio: passiamo il resto del pomeriggio e della serata a rimembrare i tempi passati, a ridere come una coppia di vecchi comici che si conoscono a memoria e sanno rispettare i tempi dell’altro, i nostri sketch continuano a far(ci) ridere, ci abbracciamo forte, ci baciamo, ci confessiamo tenerezza mutua e infinita, amicizia eterna, al di là delle distanze spaziotemporali. La notte mi risulta impossibile dormire. L’areo parte alle 11:00, Alyssa fa colazione con me a pochi passi dall’aeroporto Galileo Galilei. “Ma te lo ricordi quando mi stressavo per nulla?”. “Ma guarda che ancora oggi ti stressi per nulla! Non sei cambiato per nulla, caro mio!”. E la vita ci scorre davanti. Siamo entrambi consapevoli di averla vissuta a fondo, con passione, con intensità, con determinazione, anche quando ci facevamo del male...

domingo, noviembre 23, 2025

 In procinto di tornare in Italia

Un collega mi scrive per chiedermi il testo di un ricordo da leggere il 12 dicembre prossimo in memoria di una collega morta a fine settembre. Non sono convinto di ciò che ho scritto, a volte sono troppo esplicito, altre troppo autobiografico, dovrei tagliare e, infatti, dopo un'ora di dubbi, elimino le parti in cui il mio "io" invade troppo il primo piano. Qui la protagonista è Giulia. Che non c'è più. Che non ci manderà più libri da Pisa. A cui non potremo più chiedere un'opinione su questioni di teoria letteraria o di traduzioni, che non potremo più salutare dall'Italia facendole gli auguri di Natale (o di Pasqua, o di Buon Ferragosto).

Un'altra collega mi avvisa: andremo a cena in un ottimo ristorante vicino Piazza Dante. Non ci credo: dopodomani sarò a Milano Malpensa; poi Torino, per un congresso sul Franchismo; poi, finalmente, Pisa, per una lectio sul Quijote. E sono sicuro che è lì, sarà a Pisa, che ricorderò con più intensità e malinconia Giulia, la mia cara Giulia, un'amica, ancor prima che una collega, un'esperta di letteratura spagnola, una persona dotta e sensibile, piena di ironia e di autoironia, una che non ha mai smesso di lavorare, perché il lavoro è passione quando coincide con ciò che uno sa fare meglio, studiare, leggere, tradurre...

In procinto di tornare in Italia mi chiedo quanto freddo farà al Nord, quanta pioggia bagnerà le strade che tornerò a percorrere a piedi, dopo alcuni anni (Torino), dopo decenni (Pisa), come se il tempo non fosse mai passato o come se fosse passato troppo in fretta. Mai tempo.

 Un premio alla poesia Poche ore fa (in queste ore) una mia cara amica ed ex-collega, oltre che ex-compagna di merende, ha vinto un premio m...