lunes, enero 19, 2009

Di che parla (o sembrerebbe parlare) INLAND EMPIRE: ovvero quante porte aprono i protagonisti nei film di David Lynch

 L’altra sera soffrivo d’insonnia e così mi è venuta la brillante idea di vedere l’ultimo film di David Lynch, INLAND EMPIRE, uscito nelle sale nel 2006, dopo anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. Di che parla INLAND EMPIRE? (N.B.: il regista vuole che il titolo del film venga trascritto – e pubblicizzato – a caratteri cubitali. Motivo? Non lo so. Bisognerebbe chiederglielo. Questa puntualizzazione, comunque, me ne ricorda un’altra: quella del titolo del romanzo di Tiziano Sclavi, Nero., con “punto” finale incluso… ma non divaghiamo). La domanda: “di che parla?” è mal posta, ogni qualvolta si parla dei film di Lynch; e questo non perché egli non sappia raccontare una storia con un suo inizio, uno sviluppo e il suo finale catartico (vedi: The Straight Story (1999), ovvero: Una storia vera, in cui, appunto, Lynch racconta la storia vera di quel vecchietto che decide di rivedere suo fratello dopo anni di silenzio e di reciproco astio e che, per portare a termine la missione, lo raggiunge (da solo) con una specie di motozappa attraversando mezza America dopo non ricordo più quanti mesi), ma perché, sin dagli esordi, egli ha manifestato una particolare predilezione per la rappresentazione dell’inconscio e degli incubi o sogni inquietanti di cui questo si nutre (vedi: Eraserhead, ovvero: La mente che cancella, un film del lontano 1978 con al centro della trama un giovane padre che, abbandonato dalla compagna, continua ad accudire il figlio, una specie di esserino a metà tra un neonato e un coniglio, che per tutto il film non fa altro che giacere su un letto emettendo un fastidioso e monotono ronzio o lamento da far tremare i polsi anche al più imperterrito degli amanti dei film di terrore). Chi ha già visto Strade perdute (del 1996) o Mulholland Drive (del 2001) sa a cosa mi riferisco; chi non li ha mai visti, e fosse curioso, beh, caro il mio potenziale spettatore dei film di Lynch, un consiglio spassionato: metti da parte la logica aristotelica, la logica narrativa, la consequenzialità spazio-temporale, la verosimiglianza e il principio di causalità (insieme a quello di non-contraddizione e a quello di identità) e abbandonati per un po’ all’irrazionale e al surreale, a mondi dove risulta complicato sapere chi fa cosa e dove e quando, esattamente, lo fa, oltre che perché la fa… Pensiamo anche solo all’incipit di un altro capolavoro lynchiano “doc”: quel Blue Velvet (1986), ovvero Velluto blu, che ha come attore protagonista quello stesso Kyle MacLachlan che impersonerà poi l’agente Cooper in Twin Peaks: una scolaresca attraversa la strada guidata da una amabile nonna-vigile; un fiammante camion dei pompieri cammina al ritmo della canzone anni 50 che dà il titolo al film, tutto è luce, splendore, e gioia di vivere, quando ad un tratto la musica (del geniale Angelo Badalamenti) cambia, si fa cupa, e la macchina da presa si abbassa sul prato fino a mostrarci un orecchio umano immerso nell’erba… Ecco, è così che funziona coi film di Lynch: quando tutto sembra preannunciare qualcosa di già visto (o già noto e prevedibile), ecco che qualcos’altro irrompe per distruggere ogni forma di tranquillità (e razionale e filmico-narrativa). Da lì in poi, Velluto blu diventerà una specie di indagine amatoriale condotta da MacLachlan intorno all’uomo che ha perso l’orecchio e una specie di discesa agli inferi intorno alla pulsione verso il male che ognuno di noi sente (o ha sentito almeno una volta) nel corso della sua placida vita da “persona per bene”.

Ecco, in parte è quanto succede anche in INLAND EMPIRE: solo che qui le irruzioni nel surreale e nell’anormalità avvengono sin dall’inizio e di continuo; il film dura quasi 3 ore, ma non si ha proprio mai il tempo per realizzare in quale fase dell’incubo (o del sogno inquietante) ci troviamo (e una volta entrati nell’ottica, posso assicurare che diventa davvero difficile: a) annoiarsi; b) staccare gli occhi dallo schermo; c) guardare il film con calma). C’è (anche qui, come in Mulholland Drive, o ancora, come in Strade perdute) un minimo di “storia” e di “trama”. E’ il plot principale che riguarda Niki (impersonata dalla bravissima Laura Dern, già attrice lynchiana sin dai tempi di Velluto blu), una donna di mezza età,  felicemente sposata, che riesce ad ottenere la parte in un film in cui si parla di un triangolo amoroso tra lui, lei e l’altro. Nei primi venti minuti del film capiamo anche chi sia il regista (Jeremy Irons) e chi l’altro attore chiamato a impersonare la parte dell’amante (Justin Theroux). E capiamo anche che il film, in realtà, non è basato su un soggetto originale, ma che è una sorta di remake di un film polacco che sembra non si sia mai riusciti a finire di girare per la morte dei due attori protagonisti. Un film “maledetto”, dunque, intorno a cui iniziano a circolare varie storie macabre; un film polacco, come polacca è la lingua parlata (e tradotta in didascalia) dalla coppia che apre il film in un iniziale bianco e nero (lei è una prostituta, lui un cliente; entrambi dal volto oscurato come si fa quando si censura un particolare anatomico). Ecco, mi diventa impossibile continuare a “parafrasare” o a “riassumere” il film. Di certo, questa è la storia (o trama) iniziale che Lynch ci presenta in quanto condannata a spezzarsi, a frantumarsi, a moltiplicarsi in mille altre storie a essa (più o meno) concatenate. Laura Dern inizierà a confondere il piano della realtà e quello della finzione fino a credere di aver tradito davvero il marito con l’attore che è suo amante sul set e fino ad avere degli incubi allucinanti.

Alla fine una cosa credo di averla capita; o almeno, credo di aver carpito almeno un aspetto importante di questo film che affascina e inquieta proprio perché “ci si entra dentro” (quando e se glielo concediamo) e “non si è più capaci di uscirne” (almeno fino alla scena finale): ogni volta che Laura Dern o uno degli altri attori del film aprono una porta, ebbene, allora quella porta condurrà in un altro film, in una storia secondaria, in un incubo o in un universo parallelo (è un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie). Per cui la domanda sensata da porsi davanti a un film di David Lynch dovrebbe essere questa: “quante porte aprono i protagonisti dentro i film di David Lynch?”. Esempio tratto dai primi minuti del film: una ragazza (che sembra - ma non è - la prostituta intravista in bianco e nero e dal volto “censurato” citata più sopra) piange mentre guarda seminuda la televisione all’interno di una camera d’albergo; in tv danno una sorta di sit-com o rappresentazione del teatro dell’assurdo in cui tre attori travestiti da “conigli” (una reminiscenza di Eraserhead? Ma sono poi davvero dei “conigli”? Hanno le orecchie dritte, ma il muso potrebbe essere anche quello di un altro animale, un cane, un gatto, un topo, etc.) dicono frasi senza senso, scatenando le risate del pubblico che intuiamo sia presente in sala. Uno dei “conigli” a un certo punto si alza; sembra abbia sentito qualcuno; apre la porta e scompare per poi riapparire all’interno di un hotel che sembra (ma forse non è) quello in cui si trova la ragazza che sta guardando la sit-com o rappresentazione teatrale surreale dei tre “conigli”…

Due le scene geniali che non posso non citare: 1 - quella in cui Laura Dern, accoltellata con un cacciavite da una donna misteriosa, si accascia a terra su un marciapiede di Hollywood e agonizza tra una coppia di giovani sbandati e una barbona di colore (è una scena straziante, mi fa tremare e mi commuove anche solo ricordarla e scriverne; la donna sta agonizzando, si tiene la mano stretta sulla ferita, vomita sangue, mentre la barbona, con cinismo e indifferenza le sussurra: “non ti preoccupare, signora, stai solo morendo”, e poco dopo la ragazza cinese accoccolata al fidanzato di colore ricomincia a parlare di discorsi assurdi con la barbona che ascolta attenta); e 2 - quella in cui Laura Dern pronuncia una frase che riassume il dilemma che la corrode dopo il tradimento ai danni del marito, rivolgendosi a Justin Theroux, e poi si ferma e dice: “sembra una delle frasi del nostro copione”… e per un momento anche noi spettatori non sappiamo più se quanto la donna sta dicendo appartenga al piano della finzione del film o se, invece, è parte del piano della “realtà” vissuta dall’attrice…

In sintesi: INLAND EMPIRE è un film che parla di film; è un film sull’erotismo insito nell’atto del guardare e del farsi guardare; è un film sulla possibilità di scivolare da un universo (noto) a un altro (apparentemente sconosciuto) senza sorta di continuità e provando i brividi che si sentono sempre al risveglio dopo un brutto sogno. Ed è anche uno dei miei film preferiti, perché fa 3 cose per me imprescindibili e le fa tutte e 3 contemporaneamente: fa commuovere, fa riflettere e fa paura.

 

P.S.: commento a caldo di una mia ex dopo la visione di Eraserhead: “No lo entiende ni su puta madre”; commento a caldo di mia cugina dopo la visione (al cinema) di Mulholland Drive: “Lynch: linciamolo!”; commento a caldo di mia madre dopo la visione (fugace e a una certa distanza dalla tv) di Strade perdute: “Ma che schifezza è? Cambia canale, per favore!”.

2 comentarios:

  1. Di Lynch ho visto solo Mulholland Drive. Piaciuto moltissimo ( ho pure comprato il DVD) e mi ritrovo perfettamente in quello che scrivi.
    Ma non è questo il punto. Il punto è che di INLAND EMPIRE (rigorosamente tutto in maiuscolo, of course ;-) che non ho visto ho letto decine e decine di critiche, articoli etc.
    Questo tuo mi ha fatto sbellicare dalle risate. Ma guarda che lo dico in positivo, eh. Ho trovato questo tuo post molto arguto e puntuto.
    Ciao e grazie! ^__^

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  2. Grazie, Gabrilù, troppa bontà!Se riesco a far sorridere (o addirittura ridere) qualcuno con un mio post, non posso che esserne orgoglioso!Un saluto affettuoso (e grazie a te per le "letture nonsoloproustiane")

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