martes, marzo 03, 2009


Ai confini della realtà

Tre anni or sono, un mio vecchio amico (ed ex-collega) mi regalò i primi 50 episodi in dvx di The Twilight Zone, serie di culto nell’America degli anni 50 e 60. La serie è apparsa anche sui teleschermi italiani, col titolo “Ai confini della realtà” (quando la traduzione letterale sarebbe stata meglio, essendo “La zona del crepuscolo” titolo ben più efficace e attinente all’originale – tra parentesi, “La zona del crepuscolo” è anche il titolo di uno degli albi “storici” di Dylan Dog, il n. 7). Il successo della serie continuò anche nel corso degli anni 70, fino ai primi anni 80, quando registi del calibro di Steven Spielberg e John Landis (insieme a Joe Dante e George Miller) le resero omaggio con l’omonimo film a episodi (uscito nel 1983). Sono molti gli episodi che mi colpiscono o che mi turbano, lasciandomi una sottile sensazione di angoscia esistenziale; uno dei miei preferiti resta quello che s’intitola “Tempo di leggere”. Vi si narra la storia di un impiegato di mezza età, infelicemente sposato, e con una smodata passione per la lettura. Legge tanto e di tutto, anche in banca, dove lavora e subisce le minacce quotidiane di licenziamento da parte del capo (il nostro eroe è troppo distratto con i clienti, troppo “sperduto” tra le sue letture, per prestare la dovuta attenzione al denaro e ai conti – che non tornano mai).

Il tono dell’intero episodio è cinico. Una riprova: la scena in cui il nostro povero impiegatuccio torna a casa e scopre che la moglie gli ha rovinato una copia di un libro (un saggio o un’antologia di poesie, ora non ricordo bene) scarabocchiandone tutte le pagine a penna. L’uomo si dispera e piange. E le domanda perché; perché tanto odio e tanta cattiveria? (e allo spettatore, anche a quello meno affezionato alla lettura, verrebbe davvero voglia di strangolarla, la faccia da schiaffi della moglie arpia).

Fin quando non succede l’impensabile: un’esplosione atomica distrugge e rade al suolo ogni cosa. Il nostro impiegatuccio diventa l’unico sopravvissuto, l’ultimo uomo sulla Terra (è anche il titolo del n. 77 di Dylan Dog). Che fare al posto suo? Come occupare il tempo, in mezzo a una desolazione universale? Oltre a nutrirsi e a dormire (e a passeggiare tra le macerie), il protagonista non sa con chi parlare, se non con se stesso (con il conseguente rischio di impazzire). Fino a quando non si trova a passare davanti alla Biblioteca Nazionale e lì, sulle scalinate, s’imbatte nella sua possibile salvezza: mucchi di libri e di scaffali ricolmi di carta stampata. L’omino urla di gioia, c’è di tutto, e ha tutto il tempo per leggere: l’opera omnia di Shakespeare, tutti i romanzi di Dickens, di Swift, di P.D. Woodhouse gli appaiono come l’ultima speranza, un modo per attendere la morte col sorriso sulle labbra (un modo per comunicare con i morti, con quelli che ci hanno preceduto ma che ancora continuano a parlarci, a distanza, attraverso la scrittura).

Ma il tono dell’episodio è cinico (l’ho già detto). E cosa accade a questo punto? Che mentre sta per aprire il primo tomo e sfogliare la prima pagina, l’omino fa cadere gli indispensabili occhiali da miope, vanificando ogni possibile tentativo di salvarsi attraverso la lettura. Il nostro omino non può che constatare la catastrofe. Scoppia a piangere e si chiede perché… perché tanta sfortuna… perché tanta disgrazia.

Accanto ai libri trovati per terra, l’omino trova un orologio che, ovviamente, non segna più le ore. Il tempo si è fermato. Forse per sempre. D’altronde, anche se quell’orologio continuasse a funzionare (e le sue lancette a girare), non servirebbe a nulla. Che senso ha lo scorrere del tempo quando il solo destinatario dello stesso scorrere è soltanto un singolo, povero omino? Che senso avrebbero gli orologi dell’intero pianeta, se sulla Terra fosse rimasto solo un uomo?

Ecco che i libri (ovvero la lettura: ovvero la letteratura) si presentano come un “tempo altro”, strumenti che misurano un altro tipo di tempo e che, soprattutto, ci permettono di evadere dal nostro (da quello segnato e indicato dagli orologi). Togli i libri, distruggi le biblioteche, elimina la carta stampata, e non ci resta altro che la nuda terra e il nudo scorrere di un tempo “senza direzione” e, quindi, “senza senso”. Non solo i libri “riempiono” di senso il nostro “esserci” (nel tempo), ma danno anche una direzione “nuova”, per così dire “aperta” (e imprevedibile; ancora meglio: “imprevedibile perché aperta”) al tempo che (ci) li contiene. Togli i libri, insieme al tempo, e all’ultimo uomo sulla Terra non resta che darsi la morte per evitare di impazzire nell’attesa che l’Oscura Signora se lo venga a prendere da sola. L’attesa è troppo lunga; e troppo snervante per poter trovare una soluzione “pacifica” al problema… o no? Come potrà vivere ancora il nostro amico lettore? Come passare tutto quel tempo? Non lo sapremo mai; o forse, lo sapremo solo quando anche noi finiremo “in una dimensione senza limiti, come lo spazio, e senza tempo, come l’infinito, la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere, una regione che potrebbe trovarsi… ai confini della realtà”. 

2 comentarios:

  1. "Ai confini della realtà" era un capolavoro.
    Altro che "X-files" etc.
    Grazie per avermi ricordato questo particolare episodio che non ricordavo e che invece è densissimo di significati.
    D'altra parte, non è possibile ricordare tutto.
    (Voglio mica tormentarti con il tormentone della Memoria) ;-)

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  2. E' proprio un tormentone; ormai c'ho la deformazione "professionale" e basta che in un titolo appaia il termine "tempo" o "memoria" o "ricordo" o "passato" che mi si accende il lumicino della curiosità...ma, appunto: non si può mica ricordare tutto (o leggere tutto il leggibile su Tempus e Chronos!).
    Grazie dei commenti e a presto, Gabrilù!

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