jueves, abril 16, 2009

Convivenze

“Nada que al final creo que llego un poquito tarde para decirte que no lo hagas, que cuando decides compartir tu vida con otra persona no sabes que lo que decides en realidad es perder lo poco que te convertía en ti mismo para pasar a ser una persona totalmente sujeta a los deseos y sentimientos del otro y a estar en guerra continua intentando mantener vivo eso que eras y que ahora se contrapone constantemente con lo que quiere el otro que seas”.

Cito verbatim questa frase da un’email che mi ha inviato tempo fa (dopo più di un anno di ritardo) Veronica, una della mie migliori amiche madrilene (anche se lei non è spagnola, bensì argentina doc). Potremmo tradurla così (más o menos):

“Beh, alla fine, credo di essere arrivata un po’ in ritardo per dirti di non farlo, che quando decidi di condividere la tua vita con un’altra persona non sai che in realtà ciò che decidi è di perdere quel poco che ti rendeva te stesso per passare a essere una persona totalmente soggetta ai desideri e ai sentimenti dell’altro e a essere continuamente sul piede di guerra per provare a mantenere vivo quello che eri e che adesso si contrappone costantemente a ciò che l’altro vuole che tu sia”.

Veronica, con le sue parole, mi fa pensare. Fino a che punto sono disposto a combattere (quotidianamente) questa guerra (per certi versi assurda, come le guerre in generale)? E’ poi vero che quando si convive (si condivide con un’altra persona la propria esistenza) smettiamo di essere quello che siamo veramente per cominciare a essere quello che l’altro vuole che noi siamo? Mi fermo a rifletterci su ancora un po’ (intanto apro la finestra; qua dentro fa caldo, è tornata la primavera, ma sembra già estate; certi giorni a Firenze l’asfalto scotta). E se anche noi, scettici della convivenza, stessimo obbligando costantemente l’altro ad adeguarsi ai nostri ritmi, al nostro scetticismo, alle nostre ansie, paure, depressioni anti-convivenza? Quante domande. E com’è difficile rispondere. Penso che sia vitale mantenere i propri spazi (sennò buonanotte ai suonatori e addio forever). E che sia doveroso cercare un equilibrio (seppure precario, ma cercarlo). Come? Innanzitutto, devo avere rispetto dell’altro (non posso mica imporre le mie manie o prevaricare, pena la prevaricazione dell’altro su di me – o l’annientamento dell’ “io” dell’altro). E poi? Chi mi dice che l’altro resterà sempre “sé stesso”? Non cambiamo per caso a ogni scorrere di minuto? (mi torna in mente Montaigne, quando dice, negli Essais, che “Il mio io di adesso e il mio io di fra poco siamo certo due”). E come cambiare accordandoci al cambiamento costante dell’altro (senza nuocere alla sua identità - o ipseità – come direbbe Paul Ricoeur)?

Convivere vuol dire anche questo: condividere gli stessi spazi e, spesso, gli stessi tempi, essendo costantemente “io” e “altro da me” (due che convivono sono come due altalene che si muovono a volte fuori sincrono e a volte in sintonia perfetta)…

Mi accendo una sigaretta e provo a tradurre quest’ultima frase per Veronica (che, ne sono certo, mi risponderà nel 2010 – lei non è molto amante della tecnologia).

Poi provo a immaginarmi questi spazi miei e questi tempi del mio presente senza Alyssa…

E’ un esercizio “spirituale” che fa bene alla salute.

Poi mi viene in mente di fare un esercizio simile: immaginiamo come saremo noi tutti (l’umanità intera) fra mille anni… e come siamo stati mille, diecimila, centomila anni fa…

Propositi per il tempo a venire (o avvenire): ricordarsi di praticare questa ginnastica mentale ogni volta che si è in crisi o alquanto depressi… Fa bene anche alla convivenza…forse.

P.S.: Il post di cui sopra l’avevo scritto prima del 6 Aprile, ovvero: prima di venire a sapere del terremoto de L’Aquila. Al di là della rabbia che mi produce guardare la tv-sciacalla che parla con i toni del melodramma di quel che resta e di coloro che sono scampati alla morte e al di là dell’incomparabilità di quanto nel post succitato andavo dicendo con quanto effettivamente accaduto dalle mie parti, continua a sembrarmi valido il ragionamento intorno al sollievo che l’elasticità mentale ci può offrire attraverso l’immaginazione (di quello che siamo stati tanti anni fa e, al contrario, di quello che potremo essere fra molto, molto tempo). E mi pare anche che gli abruzzesi coinvolti dal terremoto lo stiano dimostrando al massimo grado. Non vogliono rifare la loro città in un altro posto; e non accettano gli aiuti tutti insieme e indistintamente. Oggi c’è bisogno di mutande. Domani di sapone. Dopodomani, quando ci saranno i soldi a sufficienza, decideranno loro dove e come ricostruire l’Aquila. In base a ciò che è stato; sognando ciò che potrà essere.

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