viernes, enero 15, 2010

Dunque, non è solo questione di effet du réel (come voleva Roland Barthes)


"Un individuo reale, per quanto profondamente possiamo simpatizzare con lui, è percepito in gran parte dai nostri sensi, il che significa che resta opaco per noi, che la nostra sensibilità non riuscirà mai a sollevare il suo peso morto. Se una disgrazia lo colpisce, potremo essere turbati solo in una piccola parte della nozione totale che abbiamo di lui. Di più: lui stesso potrà essere turbato solo in una parte della nozione totale che ha di sé. La trovata del romanziere è consistita nel sostituire quelle parti impenetrabili all'anima con una uguale quantità di parti immateriali, tali cioè che la nostra anima possa assimilarle. Che importa allora se le azioni, le emozioni di questi individui d'un genere nuovo ci appaiono come vere, dal momento che le abbiamo fatte nostre, dal momento che è in noi che esse si producono e che è da loro che dipendono, mentre voltiamo febbrilmente le pagine del libro, la rapidità del nostro respiro e l'intensità del nostro sguardo?"

Cosa vuole dirci Proust in questo brano? Per quanto ho capito io, ci sta dicendo (con tono lirico e argomentare da filosofo attento, oltre che da critico letterario arguto - e anticipando di svariati anni le teorie sul lettore di Umberto Eco, Wolfgang Iser, Hans Robert Jauss e tutta quella corrente che va sotto il nome di "critica della ricezione") che la lettura ci permette di conoscere i personaggi di un romanzo meglio di quanto potremmo conoscere una persona reale. Perché? Perché noi lo "facciamo nostro" meglio di quanto potremmo "fare nostre" le nostre mogli, amanti, amiche, conoscenti, etc. I personaggi letterari, dunque, (ci) si presentano (spesso) come più veri delle persone vere. E ci restano impressi perché, grazie alla storia che li riguarda, ne riusciamo a scorgere la parabola esistenziale (ogni romanzo racconta sempre vita morte e miracoli -nascita, crescita e riposo finale - di un determinato gruppo di personaggi). E questa visione "panoramica" e a tutto tondo, ripeto, solo la lettura del romanzo ce la può offrire. Ma poi va avanti; cosa accade dopo?

"E una volta che il romanziere ci ha messi in questo stato nel quale, come in tutti gli stati puramente interiori, ogni emozione è decuplicata, e il turbamento che il suo libro ci darà risulterà simile a quello di un sogno, ma di un sogno più nitido di quelli che facciamo dormendo e destinato a durare di più nel ricordo, ecco che egli scatena dentro di noi nello spazio di un'ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione [...]" (Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, tr. di Giovanni Raboni, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, pp. 104-105, grassetti miei).

E qui la questione, se vogliamo, si complica e, al contempo, si risolve, in modo davvero inaspettato, o che non ci saremmo aspettati da uno che scrive un romanzo e lo intitola A la recherche du temps perdu... Dunque: il romanziere riesce - se è bravo, ci sa fare ed è degno di questo nome - a trasportarci in un'altra dimensione. Quando leggi, e soprattutto se leggi un romanzo ben scritto, ti estranei dal mondo reale esterno a te - quello empirico che avverti coi sensi, ma che vedrai sempre in maniera opaca, perché, a quanto pare, solo l'arte sembra riuscire nell'ingrato compito di togliere il velo alla realtà; ed è per questo che solo dei personaggi posso avere una visione nitida e chiara e completa, mai delle persone vere, reali, che mi stanno accanto e che vedo e che sento parlare e muoversi "dal vivo" - ma non solo: finisci con l'abitare temporaneamente - o col precipitare improvvisamente, dipende dai casi - dentro un mondo non dico irreale, ma "altro dal reale", pieno di emozioni che, proprio in quanto intime, sono "più estreme" di quelle che potresti provare nella vita vera (Proust parla di "sogno più nitido di quelli che facciamo dormendo" - se applichiamo la riflessione al cinema, i conti tornano in modo ancor più esplicito e diretto).

L'intensità è tale che, anche dopo l'atto di lettura, ricordiamo (o possiamo ricordare) a occhi chiusi quanto abbiamo percepito grazie alla lettura stessa (possiamo impadronirci dell'essenza dei personaggi; dei loro ricordi; dell'effetto che personaggi e loro avventure esistenziali e ricordi ci lasciano a una prima lettura). Più vero del vero; più "memorabile" di tutte quelle cose (persone o eventi o ricordi) che ci capitano nel piano della realtà...

Non solo: il romanziere può farci sperimentare (temporaneamente - mentre leggiamo - o a tempo indeterminato - a lettura terminata) le emozioni o i ricordi più estremi e coinvolgenti vissuti dal personaggio nell'arco di una sola ora...accorciando in pochissimo tempo quanto, nella vita vera, sarebbe durato anni interi... (ma non può anche permettersi un altro e contrario lusso? Quello di allungare in centinaia di pagine quanto, nella vita reale, potrebbe durare pochissimi secondi o, al massimo, qualche minuto, un paio d'ore, un giorno soltanto? E' quanto fa lo stesso Proust grazie alla maschera di Marcel - e la voce dello stesso Narratore...che poi è l'operazione che tenta James Joyce raccontando nel suo Ulysses "solo" l'arco delle 24 ore della vita del suo anti-eroe omerico).

Concludendo: la letteratura (ma qui varrebbe anche dire: la lettura; o in senso traslato: la scrittura) ci permette di: a) inventarci la verità; b) di andare al di là dello scorrere del tempo e di penetrare in un tempo "altro" in cui il tempo in quanto "materia in cui siamo tutti immersi" diventa "materiale da costruzione di una vita - una storia - dotata di senso" (almeno apparente - che poi il senso non ce l'abbia, o io non ce lo riesca a trovare, è un altro paio di maniche).

Che vuol dire "inventarsi la verità"? Che, forse, quando mi manca qualche pezzo importante di un puzzle, quando non so come sono andate davvero le cose, l'immaginazione mi permette di "indovinare" quella stessa verità che, nel piano della realtà, mi era sfuggita o mi è impossibile scorgere e acciuffare una volta per sempre. E inoltre che, forse, può essere più "vera" la verità che invento con l'immaginazione che non quella che mi offre la realtà (tramite i giornali, i telegiornali, i libri di Storia)... Sul punto b) ha scritto molto Paul Ricoeur, parlando nel suo fondamentale Temps et récit di "romanzi-favole sul tempo" (come La montagna incantata di Thomas Mann, To the lighthouse di Virginia Woolf e, ovviamente, la Recherche di Proust). Ma questa, come si dice, è "un'altra storia"...

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