viernes, enero 08, 2010

Invisibile, di Paul Auster


Come per i film, così per i libri: ci sono opere (cinematografiche o letterarie) che ti lasciano un'eco, che riecheggiano, per così dire, dentro gli occhi o nel ricordo e nell'anima, una volta che le hai "finite" (quando lo schermo diventa buio e devi deciderti ad abbandonare la sala; quando arrivi all'ultima pagina e sai che di pagine scritte non ce ne saranno più... oltre quel confine segnalato dalla parola Fine - a proposito: com'è che oggi i romanzieri non hanno più bisogno di indicare anche visivamente che sì, che quella è "la fine"? Perché nel 500, mettiamo, o nel 600, o anche con Dickens o Defoe, con Balzac o Flaubert, lo scrittore di romanzi chiudeva con quella parola?The End; Fin; Fine... Shakespeare, poi: lui addirittura certi drammi li chiude con il più che cristiano - e ambiguo - Amen; come se lo scrittore fosse cosciente che ormai non può più aggiungere nulla a quanto scritto; come se gli facesse venire una certa nostalgia lasciare per sempre l'universo narrativo, il mondo di personaggi e episodi che ha creato; o forse, anche, come a voler dire al possibile, potenziale scrittore apocrifo: "è la fine, qui finisce l'originale, non ti ci provare nemmeno a inventarti un prosieguo dell'azione, l'opera originale, quella vera, quella doc, è mia e questa è la fine", non dice: To be continued o Continua)...

Ebbene, Invisibile, di Paul Auster (Einaudi, 2009, tr. it. di Massimo Bocchiola; il libro è ricolmo di refusi, davvero vergognoso per una casa editrice come Einaudi, comunque...) è uno di quei libri che ti rimangono in mente per giorni e giorni, una volta che arrivi alla fine. Che risuonano nell'animo del lettore a distanza di settimane, giorni, mesi, forse anni... Perché? Cos'ha di speciale?

Premetto: non sono un fan di Auster; specifico: The New York Trilogy (1987) è una delle raccolte di racconti più belle e riuscite e compatte che abbia mai letto in vita mia; aggiungo: di Auster, dopo la famosa "Trilogia" (letta in lingua originale), ho letto solo L'invenzione della solitudine (1982) e Hand to mouth (1997) letto in spagnolo ("A salto de mata. Crónica de un fracaso precoz"): due libri strani, perché mescolano (deliberatamente) i generi e, soprattutto, la realtà (anche biografica, dell’autore) con la finzione.

Ciò stabilito, Invisibile cattura per come è strutturato: quattro parti, ognuna narrata da un personaggio diverso e legato in un modo o nell’altro a quello principale, Adam Walker, che ci viene presentato all’inizio della sua storia come un giovane studente della Columbia University, aspirante poeta ribelle e amante di poeti medievali semi-sconisciuti. Siamo nel 1967, l’America è in fermento; tra un anno, a Parigi, comincerà il 68. Adam Walker è un tipo solitario; partecipa controvoglia a una festa di facoltà e lì fa la conoscenza di un certo Rudolf Born, un personaggio strano, un professore di Economia d’origine francese che, guarda il caso, ha un cognome simile al nome di uno dei poeti preferiti di Adam, quel Bertrand de Born (poeta provenzale del XII sec.) che Dante colloca nel canto XXVIII dell’Inferno, quello in cui vengono puniti per l’eternità i “cattivi consiglieri” (de Born ha consigliato il principe Enrico di ribellarsi a suo padre, Re Enrico II d’Inghilterra; per questo de Born è condannato: perché ha seminato odio, morte e distruzione tra un padre e un figlio; perché amava la guerra come somma espressione della violenza umana; e Dante lo fa vagare per l’eternità con la testa staccata dal collo e portata a mano per i capelli).

E’ un segnale: Rudolf Born presenta al ragazzo inesperto in materia sessuale la sua amica e amante Margot (un’altra francese, affascinante e più grande di Adam di una decina d’anni). E sembra quasi che il professore voglia indurre il ragazzo in tentazione, offrendogli su un piatto d’argento la bella fanciulla misteriosa. Poi gli propone, addirittura, di finanziargli una rivista letteraria: sarà Adam a scegliere tematica, veste grafica e collaboratori, visto che si intende così bene di letteratura.

La relazione fra i due va avanti fino a quando Adam finisce a letto con Margot, approfittando dell’assenza momentanea di Born (volato a Parigi per risolvere certe questioni avvolte, anch’esse, in un alone di mistero).

Parte finale e tragica di questa prima sezione: Born cammina per Central Park insieme ad Adam, esponendogli le sue posizioni piuttosto reazionarie (per non dire, fascistoidi), fino a quando non gli dà una prova concreta della sua violenza innata, sfoderando un coltello e pugnalando un rapinatore di colore, un ragazzo armato di pistola finta, che ha provato a scipparli.

Adam Walker taglia i ponti con Born, ma non sa se andare dalla polizia e denunciarlo per omicidio (la legittima difesa svanisce come ipotesi quando Adam legge sul giornale che il ragazzo presenta sul corpo un gran numero di coltellate).

Un lettore comune si aspetterebbe come minimo uno sviluppo, a questo punto; e invece, Paul Auster cambia narratore. Chi parla, all’inizio della Seconda Parte, è un vecchio conoscente di Adam, uno scrittore di successo cui Adam stesso invia la Prima Parte, che abbiamo appena finito di leggere, e che dovrebbe essere la Prima Parte di un romanzo autobiografico sulla vita di Adam da giovane. Il problema è che ora – nel 2007 – Adam è vecchio, ha 62 anni, e sta per morire di tumore. Non sa come fare per andare avanti e chiede aiuto all’amico scrittore per poter poi pubblicare il libro completo.

Non voglio svelare altro. Paul Auster è bravissimo a farci penetrare nella parte più intima e oscura dell’animo dei suoi personaggi (la relazione apparentemente incestuosa tra Adam e sua sorella è uno dei capitoli più riusciti e coinvolgenti del romanzo) e a mostrarci ancora una volta come, a essere invisibile, non siano soltanto le intenzioni degli altri, ma anche la verità che gli altri affermano di conoscere… Ribaltamenti di prospettiva legati alle narrazioni fatte dai vari narratori; riconoscimenti tardivi tra gli stessi; e ammissione delle proprie colpe fanno di questo libro una specie di riflessione romanzesca su male e bene (la morale comune che sembriamo avere smarrito); su passato e sue influenze nelle vite di tutti; su sesso e sua capacità di distruggere le vite altrui.

Ecco: la capacità che ha Paul Auster di farci immergere nella caduta morale ed esistenziale dei suoi personaggi fino all’annientamento totale; la capacità di farci smarrire la direzione mentre leggiamo e di obbligarci a leggere di nuovo per capire com’è avvenuta questa discesa agli inferi; l’abilità nel farci sprofondare nel baratro insieme alla sua scrittura ipnotica. Sono queste le qualità che fanno di Auster un autore di razza. Che si legge tutto d’un fiato (e si ri-legge con piacere).

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