domingo, diciembre 04, 2011

Tra operetta e film noir

Esterno notte: una città di provincia, nel Sud Italia, completamente immersa nella nebbia. E' l'alba e mi sveglio con una strana sensazione di angoscia, come se un peso mi opprimesse il petto e facessi fatica a respirare. Sono le sei del mattino; fisso il soffitto vicino, a pochi centimetri dal mio volto (la mansarda si abbassa lungo la pendente del tetto e il letto è posizionato nel punto più basso): osservo delle macchie di cui non mi ero mai reso conto prima d'ora, macchie che sono come ombre sul soffitto, ombre che mimano forme strambe, come un topo, un serpente, forse un gufo dalle ali spiegate... Mi alzo e preparo tutto l'occorrente per fare una lauta colazione (tazza di latte e caffè, uno yogurt, delle fette biscottate imburrate, la marmellata, il cucchiaino e il cucchiaio più grande, lo zucchero e i corn-flakes, i biscotti al cioccolato e una banana). Accendo la tv e un giornalista dai capelli bianchi molto ricci ripassa le notizie principali a partire dalle prime pagine dei giornali. Fa freddo. Mangio in fretta. Mi rinchiudo nel bagno e mi lavo rapidamente la faccia e le ascelle. Preparo i libri e gli appunti per la lezione. Afferro le chiavi e indosso al volo il cappotto imbottito. Scendo le scale e mi preparo a vivere la mia giornata di lavoro quotidiano.

Esterno giorno: la nebbia è ancora folta; la prima persona che incontro, camminando a passi rapidi sul marciapiede, è un vecchietto stranissimo che indossa la tipica coppola e sostiene, nella mano sinistra, un bastone di legno tutto piegato e, nella destra, una motosega, luccicante, con i denti bene in vista, senza la copertura o la guaina di plastica d'ordinanza. Il vecchio cammina aiutandosi col bastone e mi domando come faccia a sostenere con tanta facilità una motosega all'apparenza pesante, lui che sembra magro come un chiodo...

Arrivo al piazzale da dove partono i pulllman. L'autista che guida quello che mi porterà all'Università indossa gli occhiali da sole. Accende il motore, accelera lasciando la marcia in folle, come per verificare che sia tutto in ordine, e poi parte, allegro, sorridente. Fortunatamente, solleva gli occhiali da sole sulla fronte; mi vedevo già in mezzo alle lamiere del pullman fumante e accartocciato contro qualche altra auto o contro il guard-rail della superstrada. Altri studenti intorno a me chiacchierano allegramente della giornata che li attende, tra lezioni, pranzi a mensa, riunioni con gli amici e organizzazione di feste in discoteca per la serata che verrà.

Interno giorno: ufficio. Sulla mia scrivania un caos di libri e appunti sparsi, fotocopie a colori e foto di vecchi poeti morti ormai tre o quattro secoli fa. Entra la donna delle pulizie, senza bussare: "Mi scusi, professore, non sapevo che fosse dentro". Le spiego che mi ha spaventato e che la prossima volta, prima di entrare, è pregata di bussare. La donna si scusa di nuovo e comincia a passare l'aspirapolvere. Il punto è che quello non è l'orario delle pulizie.

Ormai sono a lezione, nelll'aula 21, una delle più grandi e capienti dell'Università. Parlo di Shakespeare, sto spiegando la funzione del "meta-teatro" all'interno di The Tempest (Prospero, Miranda, Calibano... li cito come fossero persone reali, come se anche loro fossero presenti, presenze vere e in carne ed ossa, in aula, lì, insieme a noi, davanti a noi). Finché, nella parte finale, preso dall'entusiasmo e nel corso della spiegazione, tocco con il dorso della mano sinistra la bottiglietta d'acqua che uso sempre quando sono a corto di saliva... L'acqua si rovescia sulla cattedra; una parte dell'aula ride; altri studenti hanno il viso preoccupato; chiedo aiuto a qualcuno che possa darmi dei fazzoletti di carta: una ragazza in prima fila mi cede il suo pacchetto intero e, mentre continuo a parlare a voce alta e forte dal microfono, cerco di rimediare e di prosciugare il laghetto artificiale che si è creato, mio malgrado, mentre continuo a parlare di "meta-teatro".

Sono a pranzo e una collega che non conosco inizia a parlarmi di sé e dei suoi guai personali. Vorrei spiegarle che la nostra confidenza non è tale da permettere di simili confidenze (lei tradisce il marito, per ripicca e vendetta, perché ha scoperto che lui la tradisce da anni con un'altra), ma non c'è verso di intendersi, di capirsi, di comunicare alcunché, questa donna è pazza, e non smette, e parla e parla, aggiungendo dettagli intimi e sgradevoli che non ho nessuna intenzione di ascoltare, faccio finta di prestare attenzione, la guardo dritta negli occhi, ma in realtà, rivolgo il mio udito verso il dialogo che due professori anziani stanno avendo a pochi passi da noi, mentre sorbiscono una zuppa o minestrone vegetale.

Sono di nuovo sul pullman, lungo la via del ritorno: una studentessa mi sorride e mi mostra una cifra scritta a penna sul dorso della sua mano sinistra. E' un numero di telefono? E' per caso il suo numero di telefono? Le sorrido anch'io, per non essere scortese. E lei cambia all'improvviso espressione, diventa acida, arcigna, mi guarda come fossi un maniaco sessuale, come a dire: "Cosa cazzo hai da guardare?".

Esterno notte: è ora di cena. Le strade sono deserte. La nebbia, però, è scomparsa. Il vecchietto con il bastone e la motosega, pure. Salgo le scale a due a due e mi rintano in casa. Non c'è più il frigorifero. Non riesco a credere ai miei occhi, ma il frigorifero che era in cucina è scomparso. Mi siedo sul divano, l'unico divano che ho, e mi guardo attorno, osservo la scrivania piena di libri e fotocopie, la libreria sul punto di crollare per il carico eccessivo di libri, il tavolino su cui mangio, e all'improvviso sento un rumore, il rumorino tipico del motore interno del frigorifero: viene dal bagno. Il frigo è finito in bagno; qualcuno ce l'ha portato e ha attaccato la spina al posto della lavatrice. La lavatrice c'è, anche se è lì dove non dovrebbe essere, e cioè, a pochi centimetri dalla vasca da bagno, staccata.

E' notte fonda, ormai. Le quattro del mattino. Non ho chiuso occhio e prevedo di starmene a occhi aperti fino a che non sorga il sole. Squilla il cellulare. E' mia madre. Mi chiede quand'è che mi decido ad andarla a trovare. Ci sono stato ieri (Domenica), come sempre. Ma lei non ricorda, mi chiede se mi sento bene. Le dico di sì. Come fa a non ricordarsene? Ci siamo visti ieri, a casa sua. Mia madre mi chiede se ho bevuto. Io le chiedo cosa ci fa alzata a quell'ora del mattino, Mia madre non risponde. E riattacca, dopo avermi augurato buon lavoro.

Verso mezzogiorno, vado a buttarmi sul letto, per disperazione, più che per stanchezza o sonno. Sul soffitto non ci sono più macchie o ombre strane. Solo bianco, un bianco luminoso, come se avessero riverniciato da poco le pareti della mansarda. Come se qualcuno fosse entrato mentre ero via e avesse dato una riverniciata alla casa...

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