viernes, enero 06, 2012


Gli esordi di Antonio Moresco: percorrere strade interrotte, chiuse, infinite o soltanto intraviste


Ho adorato Lettere a nessuno (Torino, Einaudi, 2008); mi sono esaltato e sono rimasto scioccato dai Canti del caos (Milano, Mondadori, 2009); avevo proprio voglia di scoprire Gli esordi  (una prima versione apparve per Feltrinelli nel 1998; questa seconda versione è stata sottoposta a nuova revisione da parte dell’autore prima di venire pubblicata da Mondadori nel Settembre del 2011).  A primo impatto posso dire che Antonio Moresco non delude mai, soprattutto quei suoi lettori affezionati che, pur di seguirne gli andirivieni narrativi, le invenzioni più visionarie, le descrizioni più strambe, sono disposti a perdonargli qualche ripetizione di troppo, così come qualche neologismo che stona o suona male. Ma proviamo ad illustrare i contenuti di questo romanzo, diviso in 3 parti (o “scene”: si parte con quella “del silenzio”, si prosegue con quella “della storia”, per finire con quella “della festa”) e scritto con lo stile peculiare di Moresco per un totale di 647 pagine…

La “Scena del silenzio” ci presenta un narratore in prima persona intento a sviscerare lo strano mondo chiuso e, a tratti, claustrofobico di un convento. E’ questa la sezione in cui il narratore adotta con maggiore frequenza la tecnica dell’ellissi: taglia scene intere o sottace interi dialoghi, ci sottrare la verità per spingerci a farci detective o investigatori dell’oscura trama che sembra svilupparsi sotto gli occhi del giovane aspirante prete… Il convento diventa il micro-cosmo angosciante da cui osservare il macro-cosmo; il convento è una specie di buco nero in cui è finito (quasi senza esserne cosciente) un narratore che dice “io” e che cerca di capire fino in fondo chi è, chi sono gli altri e qual è la vera ragione per cui si trova lì dentro… La città (contemplata spesso di notte e vista come un mondo scintillante o luminoso) è percepita come il mondo degli altri, delle persone normali; il convento (con i suoi orari fissi e stabiliti dal succedersi delle preghiere da recitare in modo meccanico ad ogni determinato momento della giornata) è, invece, il mondo che non si riesce a fare proprio, un mondo freddo e pericoloso, pieno di gente strana, come il Gatto, un viscido e inquietante superiore che sottrare carta e penna al giovane narratore intento a scrivere ciò che gli  succede. Il Gatto: una delle invenzioni più perturbanti di Antonio Moresco (e che ritroveremo sia nella terza parte de Gli esordi – nelle nuove vesti di un editore – sia nei Canti del caos – dove, addirittura, si mette in testa di svendere il mondo e d’inventarsi all’uopo la pubblicità più efficace e grandiosa mai pensata prima).
Insieme al Gatto, faremo la conoscenza dello Ziò (un paralitico che passa il tempo a sparare o a sognare di sparare agli uccelli e ai conigli) e la Pesca (una specie di fata turchina affascinante).
E’ già da questa prima parte che l’autore dà mostra del suo stile indescrivibile: a volte fa pensare a Lucrezio, quando si concentra microscopicamente sull’osservazione di dettagli naturali piccolissimi e apparentemente insignificanti, ma che diventano enormi, giganteschi, paurosamente incalcolabili, se rapportati (come nell’esempio che cito qui) ai movimenti planetari della Terra nei confronti del Sole:

“Sul tronco di un grande albero borchiato migliaia di dischetti luminosi lanciavano riflessi tutt’intorno, parevano accendersi e spegnersi e pullulare in zone della corteccia sempre differenti, aumentavano e diminuivano d’intensità registrando ogni minima mutazione d’angolo dei raggi solari per la rotazione incessante della Terra nello spazio” (p. 75).

Più spesso l’attenzione è tutta concentrata verso tutto ciò che ci risulta brutto, macabro o ributtante. E’ in casi come questi che Moresco mostra una strana attrazione verso quello che potremmo definire come “gusto del grottesco”; un esempio tra tanti: il brano in cui un personaggio ferisce a morte un gatto e il narratore descrive come non si riesca a spezzare una zampetta dell’animale:

“La zampetta era stata spezzata quasi del tutto, ma un unico tendine la teneva ancora tenacemente attaccata al resto del corpo, come un filo.
Provai a tirare due o tre volte, ma il tendine sembrava allungarsi sempre più senza spezzarsi, scivolava e brillava come la corda lucente di un violino. Provai a sfregarlo contro la dentatura di una sega da legno, […]. Emetteva una nota stridente, prolungata, che si diffondeva piano piano attraverso tutto il parco” (p. 114).

Stessa cosa per i conigli (e qui rasentiamo il “pulp”):

“Vedevo da lontano i loro corpicini scuoiati, i loro stivaletti di pelliccia ancora infilati alle zampette” (p. 154).

Questa attenzione agli animali (o tendenza a descrivere grottescamente l’animalità insita nell’essere umano) è presente anche in brani più filosofici o dal carattere aforistico (c’è da dire che a tratti Moresco pecca di retoricismo, o eccesso di retorica, come qui):

“Non più parlare e neppure essere parlati, ma scorrere semplicemente altrove, ma in un altrove che non si possa neanche più chiamare altrove, e lasciare dietro di sé un nulla che a qualcuno possa apparire come la coda della lucertola che fugge…” (p. 191).

E’ anche questa la sezione del romanzo più dura nei confronti del tema della fede e della religione. Il narratore legge la Bibbia o sembra ricordare eventi legati a Gesù, ma lo fa a modo suo, rileggendo i brani del Vangelo, come in queste battute (che pur non suonando blasfeme, turbano alquanto):

“Pensavo ad altri mondi…” disse Gesù, che si guardava attorno come assente.
Il suo corpo emanava ancora il profumo di aloe e di mirra della sepoltura.
“Ma che cos’è un sogno di Dio?” provò a chiedere ancora dopo un po’.
L’angelo si era adesso arrestato sul bordo del sepolcro, non si riusciva a distinguere quasi la sua voce.
“Signore, non capisco” sussurrò” (p. 205).
Questa prima sezione si chiude, non a caso, con una domanda: il cap. 17 (e ultimo) s’intitola, di fatti: “Che sia questa la Grazia?”. L’interrogativo resta tale; il convento e i preti che lo gestiscono e che si curano dell’educazione spirituale dei loro seminaristi sembrano piuttosto assumere i tratti del mondo post-apocalittico (o in attesa dell’Apocalisse giovannea).

La seconda sezione, “La scena della storia”, sposta la nostra attenzione su quello che sembra essere lo stesso protagonista e narratore in prima persona, ma in un’epoca diversa della propria vita: ora è un militante (di estrema sinistra?), che fa volantinaggio e comizi per preparare la rivolta collettiva (la Rivoluzione?). Come per il convento, così per la sezione di partito: il narratore si ritrova in uno spazio (un luogo che è anche un simbolo di lotta ideologica) che non riconosce come proprio, dove non vive a proprio agio. E a proposito di luoghi, l’intero secondo capitolo si svolgerà quasi integralmente all’interno di una “macchinina gialla”, un’auto scassata in cui il narratore si ritroverà a guidare insieme agli altri compagni di lotta: l’uomo senza volto, Sonnolenza (che dorme sempre e che fa addormentare gli altri perché noioso e lento), il Gagà, che ha tatuati sul petto la falce e il martello e che va in giro a derubare le mogli dei poveri operai o le vedove rimaste sole in casa. E’ attraverso il Gagà che la Storia con la maiuscola entra all’interno della trama romanzesca: è questo personaggio ambiguo e antipatico, strampalato e stralunato, a citare le sue passate scorribande per la Spagna (dice di avere conosciuto Durruti – il leader degli Anarchici spagnoli – e Rosa Luxemburg, oltre a Lenin stesso).

Ecco un nuovo (ennesimo) esempio di grottesco (stavolta “sonoro”) tipico di Moresco; descrive come il Gagà si taglia le unghie e l’effetto che tale operazione provoca nella stanza in cui riposa:

“Si cominciava a tagliare le unghie dei piedi, schizzavano via calcificate attraverso la stanza, andavano a colpire fragorosamente le pareti, lo specchio, facevano risuonare per qualche istante gli elementi del calorifero prima di piombare sul pavimento” (p. 442).

L’effetto sonoro viene descritto sinestesicamente anche in questo brano (all’apparenza inutile o insulso – in realtà, serve a descriverci bene il senso di solitudine che inizia a provare il protagonista quando si accorge che i suoi compagni sono scomparsi, che non c’è più un piano d’azione ribelle, che non esiste più la sede centrale del partito):

“Sentivo uno di quei lievi rumori che fanno le mentine quando vanno a sbattere infinitamente sottili contro i denti” (p. 502).

La terza sezione, ovvero, “La scena della festa”, è quella che personalmente ho apprezzato di più e ci narra la terza fase della vita di questo ex-prete che non ha mai preso i voti ed ex-militante che non ha mai fatto la rivoluzione… Ci spostiamo a Milano e iniziamo a vivere la vita appartata, nascosta, disperata di questo narratore che ha scritto un romanzo (lo stesso che stiamo  ancora leggendo?) e che aspetta con ansia che l’editore gli dia una risposta e, possibilmente, gli permetta di pubblicare. E’ la sezione più polemica, più critica e più satirica del romanzo: anche quella più pericolosa per la tenuta narrativa del romanzo stesso, perché Moresco rischia di pontificare o di usare la voce narrante del suo personaggio per spiegare in modo fin troppo retorico che quello che sta scrivendo è opera originale, di rottura, libro che farà il vuoto attorno a sé, che cerca di rompere il conformismo in cui annaspa la cosiddetta “industria culturale”.
E’ qui che torna il Gatto, come già ricordato, in veste di editore che lascia sulle spine il povero esordiente (vive da solo in un monolocale nella periferia più triste e squallida della città e passa il tempo al telefono, a parlare con la segretaria dell’editore che è sempre in viaggio, e a contemplare la varia umanità del vicinato).

“Vuoi diventare per caso, come suol dirsi, un caso? Ma c’è già tutto un proletariato di casi, sono tutti già in fila col loro cartellino!” (p. 591) esclama il Gatto rivolgendosi al suo povero scrittore in erba e ancora inedito…

Ecco, è qui, è in casi come questi, è quando riesce anche ad adottare l’ironia (oltre che l’auto-ironia) che Moresco riesce ad evitare il rischio di cadere nella retorica (o nelle frasi smaccatamente costruite ad arte); è quando riesce a non prendersi troppo sul serio che ci cattura… E il finale di questa terza “scena” sarà davvero degno delle aspettative del lettore che, pazientemente, avrà avuto la forza, il coraggio e la volontà di seguirlo fino alla fine (non svelerò qui questo finale; posso anticipare che il lettore si ritroverà davanti gente come Bartleby lo scrivano, Cervantes o Pascal, per non dire di altri… reali e fittizi insieme… tutti mescolati in una festa grandiosa).

Antonio Moresco ci spiega  (in una nota apposta alla nuova edizione: “Come sono nati Gli esordi") che non ha una “visione geometrica” né della letteratura né della vita; questo romanzo lo dimostra ampliamente. A mio modesto parere, Gli esordi sono un tentativo: quello di cercare di ri-scrivere la propria vita in prima persona attraverso il filtro della letteratura (quella migliore e che più azzarda o rischia) e, al contempo, quello di cercare di vedere cosa succede quando si adotta l’imperfetto dell’indicativo per raccontare porzioni anche molto ampie e grosse e complicate della propria esperienza. In definitiva (e in sintesi): con questo romanzo Moresco tenta di usare la letteratura come una sonda per scoprire quello che non credevamo di sapere e sapevamo già, per illustrare e descrivere strade chiuse, interrotte, infinite o solo intraviste (la geometria aiuta, in questi casi, ma non risolve - come solo la letteratura sa fare - tutti i problemi legati alla nostra personale e sempre soggettiva “quadratura del cerchio”).

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