sábado, abril 21, 2012


Diaz, di Daniele Vicari: un film duro, che ci ricorda cos’è (diventata) l’Italia oggi



Tempo fa, e su queste “pagine virtuali”, elogiavo uno dei film più intensi (e meno noti) di Daniele Vicari, Il mio paese, un documentario – uscito nel 2006 – su cos’è l’Italia oggi e su cos’era in passato. Memore della lezione di alcuni maestri del cinema documentaristico (come Joris Ivens) e di alcuni “mostri sacri” del cinema nostrano cosiddetto “civile” (penso a Francesco Rosi e a Citto Maselli), Daniele (mi viene spontaneo chiamarlo così, anche perché quando lo conobbi la prima volta ero ancora un giovincello e, all’epoca, non sapevo ancora cosa fosse il linguaggio cinematografico) intraprendeva un viaggio da Sud a Nord per tentare di mostrare l’altra faccia dell’Italia, quella che gli slogan berlusconiani e le tv di Stato tentavano costantemente di nasconderci. E riusciva nell’intento: nel senso che Il mio paese metteva sotto gli occhi dello spettatore quei luoghi, volti, eventi da cui, in genere, le telecamere dei cronisti si tengono a debita distanza (la stessa “giusta distanza”, oserei dire, che Daniele mostra verso il finale del film, quando inquadra da lontano suo padre, intento ai lavori umili del contadino e dell’allevatore, sotto una coltre di neve impressionante, e riflette con voce in off su cosa sia diventata l’Italia – da mondo contadino a mondo industrializzato a “piccolo mondo globalizzato” che non sa (più) che pesci pigliare).

Con Diaz Daniele torna a occuparsi dell’Italia, ma fissando lo sguardo (suo e della sua macchina da presa) su un solo, singolo e ben delimitato spazio, quella tristemente nota “scuola Diaz” che divenne centro di scontri disumani tra manifestanti no-global e polizia di Stato durante le tragiche giornate del G8 di Genova.

Il regista è abilissimo a mescolare le immagini di repertorio (quelle amatoriali finite poi su internet e quelle trasmesse dai vari telegiornali) con le immagini che “re-inventa” a partire dalle carte dei processi che hanno visto indagati gli uomini delle forze dell’ordine resisi protagonisti del pestaggio ai danni dei manifestanti presunti violenti e/o affiliati ai famigerati “black block”.

Per re-inventare, Daniele ci racconta la storia di quella giornata riprendendola da diversi punti di vista: quello del giovane del Global Forum che non sospetta nulla e che non vede l’ora di fare l’amore con la fidanzata; del giornalista francese che non vede l’ora di tornare a casa con l’aereo; del poliziotto che guiderà l’irruzione nella scuola, dopo la schifosa cena servita a mensa; del vecchio sindacalista che, in mancanza d’alloggio, decide di dormire per una notte dentro la palestra della scuola, ecc.

E’ come se, da spettatori, diventassimo via via quei personaggi, come se, ogni volta, sposassimo il loro personale e soggettivo punto di vista. Ed è qui che il film ottiene il suo scopo: renderci partecipi dell’orrore, sia da vittime che da carnefici (non mi dilungo sulla fotografia – davvero bella e iperrealistica – né sulla prova degli attori né sulla colonna sonora).

Confesso di aver avuto paura e di aver sofferto, di essere stato fisicamente male, mentre guardavo le scene più violente e sanguinolente (o quella della tortura ai danni della giovane tedesca, davvero difficile da sostenere fino in fondo). E confesso pure di avere provato una rabbia cieca, non solo e non tanto contro gli “sbirri”, ma contro tutto quell’insieme di concause che hanno portato a quegli effetti devastanti (per tanti giovani venuti da Francia, Spagna, Grecia, ecc.). Confesso anche che il film mi ha fatto vergognare di essere italiano e che, mentre lo guardavo con occhi lucidi, mi venivano in mente sia Il divo (di Paolo Sorrentino) sia Gomorra (di Matteo Garrone).

E poi ho pensato ad una delle ultime frasi che appaiono prima dei titoli di coda: in Italia non esiste il reato di “tortura”. Se torturo qualcuno, in Italia, nessuno può condannarmi, perché, semplicemente, la legge non contempla quel reato. E infine, chiacchierando con l’amica giornalista che mi ha accompagato a vedere il film, mi sono ricordato di un articolo di Adriano Sofri, uno dei pochi articoli che, recentemente, avevo ritagliato da La Repubblica: quello che s’intitola “L’uso della tortura negli anni di piombo” (del 16/2/2012); non sono sempre d’accordo con le cose che scrive Sofri, però ricordo che quell’articolo mi colpì così tanto che fui spinto a ritagliarlo e a conservarlo come qualcosa di prezioso perché lì, con pacatezza e dovizia di particolari, l’autore mi spiegava che anche uno Stato democratico come l’Italia consentiva (e non ignorava affatto) l’uso della tortura come strumento per punire o estorcere informazioni al “nemico”.

Concludendo: Diaz è uno di quei film che, insieme ai succitati Il divo e Gomorra, farei vedere a tutti gli studenti delle scuole superiori, dopo attenta e corretta disanima dei fatti di cronaca, politici e storici cui questi film si riferiscono. Diaz è un film duro, a volte anche troppo duro, ma va visto perché serve a ricordarci che cos’è (diventata) l’Italia oggi; che cosa non deve diventare domani.

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