lunes, mayo 27, 2013

John Cheever e la solitudine



Prima di acquistare Una specie di solitudine (la versione integrale ed italiana dei suoi Diari), non sapevo nulla di John Cheever; o meglio: il solito Enrique Vila-Matas vi faceva cenno in non ricordo più quale suo romanzo anti-romanzesco (o meta-letterario) e mi ero sottolineato alcune frasi che si riferivano proprio a questi diari…

Ora che lo frequento da più di 6 mesi (leggo a spizzichi e bocconi centellinando il piacere che mi provocano i diari stessi), posso dire che John Cheever si è trasformato in un mio amico (anche se obbligatoriamente postumo, perché è morto nel 1982, quando io avevo appena 5 anni) e in una di quelle che George Steiner chiamerebbe “vere presenze”.

John Cheever è uno scrittore americano contemporaneo di Philip Roth e Saul Bellow, di J. D. Salinger e di Vladimir Nabokov; uno che ha pubblicato dei racconti meravigliosi (a detta della critica specializzata) e dei romanzi dai titoli strani come Bullet Park e Falconer; uno che non conosco affatto nelle vesti del narratore ma che, al contempo, in questi suoi diari mostra una capacità affabulativa notevole e una capacità di osservazione e di auto-analisi che lasciano col fiato sospeso.

Sposato a una donna che l’ha reso felice e depresso in pari misura, padre di due figli che adora, scrittore di successo che non ha mai certezze sul proprio lavoro e che pure lotta per avere il riconoscimento pubblico dei colleghi e dei critici, omosessuale in segreto che soffre perché cattolico e perché marito e padre di famiglia, alcolizzato che lotta per smettere e che non riesce a togliersi il vizio perché in parte schiavo dei suoi vizi, filosofo che dubita di tutto e che in questo mare d’incertezze impara per lo meno a stare a galla, John Cheever è queste e molte altre cose ancora.

Ma prima fra tutte, è uno scrittore che sa raccontare la sua vita come fosse un romanzo e che, in certo modo, prevede e profetizza la lettura di queste pagine intime da parte di un lettore che arriverà solo dopo, soltanto quando lui sarà già morto e sepolto.

E così, sebbene siano assenti ammiccamenti o riferimenti espliciti al lettore, il lettore di questi diari (nell’ed. Feltrinelli del 2012 – tr. it. di Adelaide Cione – ammontano a quasi 500 pagine) si sente chiamato in causa, partecipa del dolore del loro autore, si commuove e si emoziona con lui, condividendone sfortune, amarezze, tristezze e piccole gioie quotidiane.

Come quando parla di sesso: “C’è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità” (id., p. 17) (e a uno vengono in mente le mille volte in cui, passeggiando per strada, l’occhio va a poggiarsi in automatico sulla scollatura della bella signora matura che ci sfiora lungo le scale mobili della metropolitana o dentro gli autobus stipati di pendolari all’ora di punta); o come quando parla di ipocrisia: “[…] e penso alle immani energie che sprechiamo a fingere” (id., p. 179) (già: quanta energia buttiamo via per fingere con gli altri? E con noi stessi?); o come quando parla del Paradiso: “Forse il paradiso non è altro che l’insieme dei teneri ricordi dei nostri amici e amanti; qualche riapparizione spettrale che facciamo, restaurando il coraggio e il senso dell’umorismo” (id., p. 133).

E uno si domanda: è davvero questo il Paradiso? L’insieme dei ricordi legati ai nostri amici e alle amanti, alle persone che abbiamo amato e a quelle che abbiamo abbandonato (o che ci hanno lasciati)? Il Paradiso è questo tornare ad incontrare se stessi in questi ricordi cari? Potrebbe essere il luogo in cui riappariranno queste persone a noi così care? E che vuol dire che questo ci permette di “restaurare il coraggio e il senso dell’umorismo”?

Miguel de Cervantes, pochi giorni prima di morire, scrisse un bellissimo prologo a quello che sarebbe stato il suo ultimo (e postumo) romanzo, Los trabajos de Persiles y Sigismunda: a un certo punto, si commiata dai suoi amici e dalle persone care e inizia a dire una serie di “addii”… Addio, divertimenti, addio, gioie! Addio, amici cari, spero di potervi ritrovare presto nell’al di là (cito non verbatim e inventando qualcosa, quindi).

Cervantes e Cheever: due cattolici che devono per forza di cose credere nell’al di là, se si reputano fedeli. Due che immaginano il Paradiso come il luogo del reincontro e della restaurazione dei divertimenti, delle risate, del buonumore, dell’umorismo terreni…

Sono passati 6 mesi e ancora non so com’è il John Cheever autore di romanzi e racconti; so per certo che questo John Cheever (intimista e intimo) mi accompagna ogni giorno con discrezione e sottile ironia, con malinconia e leggera tristezza, in quella che tutti noi possiamo definire (come la vita stessa) “una specie di solitudine”.

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