miércoles, mayo 15, 2013


L’arte del racconto “according to” Julio Cortázar



Tra i vari generi letterari “canonici” e “canonizzati”, il racconto è uno tra quelli che più si avvicinano alla poesia. Come un sonetto, così un racconto – quando è ben scritto, quando centra il bersaglio, quando riesce a ricreare un mondo e a dirci tutto in poche pagine limpide e dirompenti – non solo ci cattura col suo ritmo e le sue rime interne, ma riesce anche a trasportarci in una dimensione diversa da quella in cui viviamo, una dimensione in cui le categorie di spazio, tempo, intelletto, immaginazione, sintassi e linguaggio vengono messe in crisi (o in stand-by, potremmo dire con un anglicismo noto).

Scrivo queste riflessioni generali (e, forse, anche un po’ generiche) e mi vengono subito in mente i racconti di Jorge Luis Borges, o quelli di Henry James, così pieni di spazi vuoti o di misteri irrisolvibili; quelli di Horacio Quiroga, o quelli di Alice Munro; quelli di Juan Ramón Ribeyro, o quelli di Italo Calvino; quelli di Tommaso Landolfi o quelli di Edgar Allan Poe (letti quando avevo appena quindici anni – ecco i risultati, un’adolescenza piena di traumi e di incubi ad occhi aperti, con annessa un’insana passione per il genere splatter e gore…).

Se torniamo a guardare con attenzione la lista appena stilata, i nomi di autori appartenenti all’area della cosiddetta America del Sud (o Latino America) sembrano essere la maggioranza; credo che in quella parte di mondo gli scrittori siano più propensi a raccontare e ad inventare storie; chissà se il clima incide, in qualche modo, nel genere del “racconto” (nell’arte del “raccontare”)…

E comunque… tra gli scrittori latinoamericani più bravi possiamo citare senza tema di smentite Julio Cortázar che, nell’arte del racconto, è uno dei geni assoluti, un vero mago, un incantatore, una specie di cantastorie che uno starebbe intere giornate ad ascoltare, rapito.

In questi giorni mi è capitato di rileggere due dei suoi racconti più famosi ed emblematici: “Las babas del diablo” (da cui Michelangelo Antonioni ha tratto l’ormai classico Blow Up, del 1966) e “El perseguidor”, entrambi apparsi nella raccolta Las armas secretas, del 1959.
Mi concentro sul secondo, perché il primo è più noto (e anche – forse – più studiato).

“El perseguidor”, ovvero, “Il perseguitore”, racconta in maniera “romanzesca” scampoli di vita privata di tale Johnny Carter, un suonatore di tromba, un musicista jazz dotato del tocco del genio… Come molti non si sono stancati di mettere in rilievo, dietro Johnny Carter si celerebbe niente popò di meno che il famoso Charlie Parker, tra i jazzisti più bravi e noti al mondo. Come lui, così pure il protagonista del racconto di Cortázar vive una vita al massimo, creando con la sua tromba acrobazie musicali mai ascoltate prima e vivendo il successo come fanno molti artisti noti, e cioè, abbandonandosi agli eccessi della droga, dell’alcol e del sesso sfrenato…

Chi narra i fatti legati a Johnny Carter è Bruno, un tale che sembra abbia appena scritto e pubblicato una biografia (dobbiamo supporre “autorizzata”) sullo stesso jazzista; Bruno è una sorta di angelo custode di Johnny; va a trovarlo in hotel quando perde sulla metropolitana il suo strumento più pregiato; gli offre soldi e assistenza psicologica quando Johnny non ha voglia di provare e vuole solo che l’orecchio attento e comprensivo di un amico sappia scagionarlo dai suoi vizi e dai suoi eccessi.

“L’ho suonato domani”, dice a un certo punto delle sue riflessioni rocambolesche il giovane e sfortunato musicista. Johnny, di fatto, ha un rapporto anomalo non solo con la musica (che gli da la fama e il denaro), ma anche con il tempo: dice che quando suona è come quando si trova a viaggiare in metro: il tempo gli sfugge, si sottrare, gli sembra di galleggiare in una dimensione temporale che non ha nulla a che fare con la realtà. La musica per Johnny è rapimento estatico, trasporto automatico in un’altra realtà (e questo è uno dei temi cari a Cortázar, come sanno i lettori delle altre sue opere).

Bruno prova a riportare l’amico con i piedi per terra; ma il tentativo fallisce; Johnny non si presenta alle prove previste per la registrazione di un nuovo disco, un disco che dovrà consacrarlo definitivamente nell’olimpo dei migliori jazzisti del mondo… Johnny sembra essersi rifugiato tra le braccia di una ricca signora, una specie di mecenate che ama fare sesso con i suoi protetti e che tratta Johnny come fosse un bambino.

Intanto, man mano che la narrazione va avanti, noi lettori curiosi ci accorgiamo che qualcosa non quadra, che il rapporto tra Bruno e Johnny non è poi così tutto rose e fiori come ce lo vuole presentare il primo; Bruno è il biografo e Johnny è l’oggetto della sua biografia. Cosa succederebbe se Johnny negasse quanto Bruno è andato sviscerando nella sua opera?

E il peggio non tarda ad arrivare: dopo l’ennesima sbronza, Johnny confessa a Bruno di aver letto il suo libro, “bello”, gli fa, “ben scritto, ben fatto”, sottolinea il biografato… “Ma mancano dati, non hai detto tutto”, dice Johnny, gettando Bruno nello sconforto più cupo…

Piano piano, il lettore si rende conto del fatto che Bruno, più che l’angelo custode di Johnny, è una sorta di parassita che gli sta addosso per poter rimpolpare e migliorare la sua opera letteraria (si dice che la biografia sta vendendo un mucchio di copie, e anche Johnny ne è sinceramente felice).

Eppure… Bruno non riesce a bloccare i comportamenti di Johnny e, soprattutto, non riesce a capire che se Johnny è l’artista geniale, e sopra le righe, lui non è nient’altro che un fallito, un critico, uno che prova a disporre i fatti in bell’ordine, ignorando il mistero che si cela dietro l’arte del jazzista.

Con stile musicale simile a un pezzo di jazz, Cortázar è abilissimo nel condurci alla scoperta dell’amara verità: “le biografie raccontano la vita di un uomo, ma nessuna di esse può aspirare alla completezza”; come dice Johnny, mancano dati, e non può essere diversamente.

Il libro continua a vendere, Johnny continua ad autodistruggersi e Bruno diventa sempre più cinico; il lettore, a questo punto, non sposerà più il punto di vista del biografo, ma quello dell’artista falsamente compreso.

Come in brano jazz, e ricordandosi dei famosi racconti di Henry James sul tema del critico letterario ossessionato da un determinato autore o da una certa opera (si pensi, primo fra tutti, a The Aspern Papers), Cortázar costruisce un racconto perfetto in cui ogni virgola, ogni aggettivo, ogni sbandamento di frase serve ad accrescere il senso perfetto del ritmo dell’intera trama, fino alla conclusione non risolutiva…

“L’ho suonato domani”: è questa l’arte del racconto “according to” Julio Cortázar; il lettore arriva a capirlo quando ormai è troppo tardi. L’incantesimo si è avverato; il racconto è finito; i dubbi che esso suscita continueranno a risuonare nella nostra memoria chissà fino a quando…

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