lunes, mayo 19, 2014

Salò o le centoventi giornate di Sodoma: un cinema che riflette il (e sul) male


Ieri, dopo più di 10 anni, ho rivisto Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Questa volta l’ho rivisto in compagnia, non da solo, come la prima volta, quando avevo circa 21 anni ed ero un cinefilo fissato con le pietre miliari della “storia del cinema” e non avevo paura di niente e vedevo ogni genere di film, anche quelli più “indigesti” o strambi o fuori dall’ordinario. L’ho rivisto con la mia “compagna di sventure”, come amo definirla in questo blog, e lei – al di là dei miei avvisi (guarda che è un film duro, guarda che c’è chi non è riuscito a vederlo fino alla fine, guarda che qualcuno ha vomitato prima di arrivare all’ultima inquadratura, guarda che è uno dei film più censurati della storia del cinema italiano, etc.) – ha apprezzato molto, le è sembrato un film duro, ma perfetto, un film certamente “disturbante”, ma anche bello, nel senso di “compatto” ed “esteticamente riuscito”.

Concordando con la mia compagna di sventure e, a visione ultimata, mi chiedo: in cosa consiste questa “compattezza”? Perché è un film “esteticamente riuscito” (al di là e al di sopra delle immagini che lo popolano)? [pensiamo anche ai casi "eclatanti" come A Clockwork Orange di Stanley Kubrick o a Trainspotting di David Fincher o a Il silenzio degli innocenti di Johnatan Demme].

Un primo pregiudizio che potrebbe portarci ad una erronea interpretazione del film è legato alla fonte: si sa che Pasolini s’ispira ai romanzi del Marchese De Sade per creare quello che sarà il suo ultimo film e, in particolare, trarrà spunto da Les 120 journées de Sodome (un romanzo incompiuto del 1785).

Ovvio che un regista che s’ispira all’inventore dei termini “sadico” e “sadismo” ci spingerà verso un certo tipo di immagini, dove la violenza, la ferocia e la freddezza mostrata nell’esercitare entrambe le cose diventano elementi (sempre) espliciti (oserei dire: "insopportabilmente espliciti"). Il punto è che il discorso di un regista come Pasolini esula dalla fonte prettamente letteraria o strettamente legata alla visione che del mondo aveva uno come De Sade. Ne è una riprova uno dei primissimi fotogrammi, in cui il regista cita altre fonti, specificando che nel corso della trama i personaggi parleranno con le parole di altri (autori), come Maurice Blanchot (quello de Le livre à venir e de L’entretien infini) o Roland Barthes (quello di Sade, Fourier, Loyola) o di altri che adesso non cito verbatim perché non li ricordo. In realtà, Pasolini fa citare ai quattro protagonisti anche Nietzsche e Proust e Baudelaire (netta prevalenza della letteratura francese, dunque, su tutte le altre letterature nazionali) e lo fa con uno scopo ben preciso: dimostrare come anche gli assassini possono avere buon gusto (letterario o artistico) e un ottimo olfatto, in quanto a riferimenti culturali (paradosso che la Storia ci ha descritto anche prima della Letteratura, ancor prima dei romanzi di De Sade: cfr. certi capi delle SS di Hitler).

 Pasolini, in realtà, allarga e amplia il discorso "sadiano" per trasferire i fatti in un contesto storico ben delimitato: quattro nazifascisti rapiscono uno svariato numero di ragazzi e ragazze nella Salò che sta per assistere alla fine di Mussolini allo scopo di dare sfogo a ogni aberrazione o perversione sessuale venga loro in mente (geniale l'uso del sonoro: ogni tanto - sopra la villa che sarà luogo del delitto - si sentono gli aerei "nemici" volare).

E qui tocchiamo un altro tema che – ad una prima visione e a 21 anni – mi era sfuggito: Salò parla del Potere e di come esso si esercita e di come esso possa trasformare ognuno di noi (ogni corpo umano) in merce, in oggetto di consumo, in pezzo o giocattolo intercambiabile.

Di fatto, i quattro protagonisti incarnano ognuno un diverso tipo di Potere: il Duca è il potere della Nobiltà; il Monsignore quello della Chiesa; Eccellenza quello della Giustizia; il Presidente quello dell’Economia. Di fronte al Potere è proprio il corpo in quanto “essenza” dell’essere umano a patire una prima, radicale metamorfosi: questi adolescenti, una volta fatti prigionieri e una volta oltrepassata la soglia dell’elegante villa in cui moriranno, diventano immediatamente carne da macello, perdono la loro identità per trasformarsi in oggetti delle perversioni dei quattro fascisti...

E sono proprio le scene in cui la telecamera più si avvicina ai corpi che più schifo proviamo in quanto spettatori; schifo (o ribrezzo) che nascono non dalla nudità, bensí dalle parole, dal linguaggio verbale che i quattro capi usano per comandare, modellare, plasmare quei corpi a propria immagine e somiglianza.

E a proposito di linguaggio verbale, non posso non notare come – per tutto il corso del film – è l’imperativo il modo verbale più usato dai gerarchi nazifascisti: “Mangia!”, urla uno; “Piscia!”, ordina un altro; il film mette in scena il Potere che comanda a forza (e a suon) di imperativi. Pena: la morte (uno dei quattro appunta su un quaderno i nomi di coloro che non ubbidiscono o che realizzano atti religiosi o che contravvengono alle regole del gioco; chi finisce nella lista sa già che verrà ammazzato senza pietà).

E il corpo (o il “basso corporale”, come direbbe Bachtin) è un altro degli aspetti più “compatti” che rende il film “esteticamente riuscito”: non esistono scene in cui non ci sia un nudo (come a ricordare allo spettatore che è la condizione della nudità di fronte al Potere a rendere la vita un vero Inferno – e non è un caso che il film si suddivida “al modo dantesco” in un “Antinferno” e in 3 gironi: “Il girone delle manie”; quello “della merda” e, infine, quello “del sangue”, in un crescendo che fa davvero spavento); così come non esistono scene più cruente e fastidiose (o direttamente “insopportabili”) come quelle in cui i corpi sono costretti a mangiare le proprie feci (e qui Pasolini non solo ha rischiato la censura, la critica dei più, la rabbia dello spettatore, ma – elemento ancor più decisivo – la “compattezza” del film stesso; il pericolo essendo o quello di scadere in un “carnevalesco” che non fa ridere o quello di scadere in un “horror” che non spaventa ma provoca solo i conati di vomito degli stomaci più deboli - e non nego che a qualche spettatore la visione di queste scene possa provocare il vomito - come già anticipato in partenza; Pasolini, però, vuole anche farci riflettere, vuole andare oltre il mero "dato di fatto" o la mera "immagine" disgustosa).

Il banchetto a base di merda è anch’esso funzionale al tema di fondo: come il Potere può avvelenarci fino a obbligarci a mangiare quanto espelliamo (il contrario del cibo, la riduzione del cibo a scarto).

Di fronte a queste scene mi viene in mente un saggio del 2009 di Giorgo Agamben, un saggio intitolato proprio Nudità; cito (questa volta verbatim):

La nudità del corpo umano è la sua immagine, cioè il tramite che lo rende conoscibile, ma che resta, in sé, inafferrabile. Di qui il fascino del tutto speciale che le immagini esercitano sulla mente umana. E proprio perché l'immagine non è la cosa, ma la sua conoscibilità (la sua nudità), essa non esprime né significa la cosa; e, tuttavia, in quanto non è che il donarsi della cosa alla conoscenza, il suo spogliarsi delle vesti che la ricoprono, la nudità non è altro della cosa, è la cosa stessa.

Non ho mai ben capito cosa volesse dire Agamben con queste parole; e però un fatto è certo: la nudità ci attrae perché: a) è inafferrabile (si tratta solo di un’immagine o di una parte del corpo umano, composto anche di "parti" che non si vedono a occhio nudo, appunto); b) è affascinante (perché si traduce in immagini che ci attraggono, che ci colpiscono, che ci invitano alla riflessione).

Ecco un altro, decisivo aspetto che rende il film di Pasolini (l’ultimo, prima della sua morte violenta – e oggi ancora “misteriosa”, per i motivi che tutti sappiamo o possiamo arrivare a sapere) “compatto” ed “esteticamente riuscito”: ci mostra la rabbia, ma pure l’impotenza somma di quattro emissari del Potere alle prese con corpi che li ispirano, che li attraggono, che li catturano, che li ipnotizzano, ma che non possono mai arrivare a capire, proprio perché nudi, di fronte a loro, proprio perché privi di velo.

E questo spiegherebbe il ghigno d’insofferenza assoluta di uno dei quattro aguzzini quando, torturando le ultime vittime nel cortile della villa, urla come un pazzo e si arrabbia: qui vediamo davvero il Potere che, forse per la prima volta, si sente incapace di piegare il prossimo, di plasmare il corpo altrui a propria immagine e somiglianza, di storpiarlo fino alla morte.

E poi (sempre nell’ambito delle scene finali) c’è la scena più assurda e paurosa di tutte, quella in cui vediamo tre dei quattro assassini mentre improvvisano un balletto: tutti in vestaglia, ballano come fossero le danzatrici del Moulin Rouge, con piccoli saltelli ridicoli.

Questa scena fa davvero paura, perché ci fa vedere senza veli (per tornare alla citazione di sopra di Agamben) il Potere che si diverte in modo fanciullesco alle spalle dell’indifeso, della persona priva di identità e ridotta a semplice corpo nudo (quando non a corpo morto, a cadavere).

È per questi motivi che dico (insieme alla mia compagna di sventure) che Salò è un film "esteticamente riuscito": perché partendo da una ipotesi (vediamo, cari spettatori, che cosa succede quando il Potere s’impossessa dei corpi innocenti di poveri adolscenti figli di partigiani) sviluppa una tesi (il Potere si scatena calpestando ogni corpo e ogni principio morale o etico o giuridico) per approdare a una sintesi (il Potere balla e ride e si diverte, mentre tutto intorno a sé muore o soffre o urla o si dispera).

Salò è uno dei pochi film (di Pasolini? Della “storia del cinema”?) che si spinge così lontano sulla rotta verso la rappresentazione e l’analisi del male; è un film che riflette il male e che ci fa riflettere sul male (che ognuno di noi può scatenare contro il prossimo o che ognuno di noi potrebbe presenziare in quanto testimone innocente dell’ingiustizia e del mondo “alla rovescia”).

P.S.: in un’intervista a pochi mesi dalla morte di Pasolini, Dacia Maraini dice che Pasolini non era un “sadico”, bensí un “mite”. Ricordo che un giorno ascoltai un intervento di Ninetto Davoli nell’ambito di un congresso sul cinema pasoliniano e l’attore (sorridente e riccioluto) ricordava un breve aneddoto legato ai giorni delle riprese per Il Vangelo secondo Matteo (per me il miglior film dell’autore di Accattone). Ebbene, Ninetto Davoli ricordò che fu solo in quell’occasione che udì pronunciare una bestemmia da parte di Pier Paolo: dovevano girare la scena in cui la Vergine Maria fugge da Betlemme insieme a Giuseppe e al Bambin Gesù. Solo che l’asinello su cui viaggiano non si muove. E Pier Paolo si arrabbia. E bestemmia. Quel film gli valse un Premio Speciale da parte del Vaticano... E una valanga di critiche da parte della “intelighenzia” comunista o della sinistra più "ortodossa".

P.P.S.: c’è una scena che nessuno potrà dimenticare di Salò ed è quella in cui uno dei soldati viene scoperto a letto con la cameriera di colore. I quattro gerarchi nazifascisti sono pronti a sparare, il ragazzo, invece, completamente nudo e senza paura, solleva il braccio e fa il gesto del pugno chiuso (come fosse un quadro o un manifesto). La faccia che fanno i suoi carnefici ricorda il ghigno dei killers dei film di Tarantino. Solo che nel caso di Pasolini non c’è un filo d’ironia. E quando uno dei quattro aguzzini finisce la cameriera lo spettatore non può non provare pietà per queste ennesime vittime del Potere...


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