jueves, abril 07, 2016

IL BUSTO DI MUSSOLINI



“La pazzia suscita in noi sentimenti analoghi a quelli ispiratici dall’indebolimento delle facoltà intellettuali nei vecchi o dalla morte”. 

Questa frase è una citazione della parte conclusiva dell’articolo che Marcel Proust intitolò (in modo alquanto enigmatico) Sentimenti filiali di un matricida (ora in M. Proust, Sulla lettura, a cura di Mariolina Bertini, trad. di M. Bertini e P. Serini, Milano, Rizzoli, 2011, p. 111) e che pubblicò subito dopo esser venuto a conoscenza dell’assassinio di un suo conoscente, amico della madre, un tal signor Blarenberghe, resosi, appunto, reo di aver ammazzato la propria madre… E questa citazione mi viene in mente quando contemplo lo spettacolo (mostruoso) di mio nonno, un quasi novantenne che, a causa della malattia che va sotto il nome di “demenza senile”, è diventato ciò che mia cugina ha giustamente definito “l’ombra di se stesso”.

Ed è questo che fa paura o incute timore in noi che siamo ancora vivi (e vigili): il fatto che si avvicini la morte di una persona cara e, soprattutto, il fatto che quell’ “io” d’un tempo non esiste più, l’identità del nonno soppiantata dalla falsa identità (dalla “maschera”) di uno zombie che trascorre le giornate seduto in una poltrona a dormire (o a dormicchiare) e le nottate disteso su un letto enorme senza avere assolutamente una coscienza chiara di ciò che gli sta capitando… L’oblio di ogni dato: confonde i nomi, i volti, le date, non sa più (letteralmente) in che mondo (e in che epoca) vive, non riconosce più nessuno, tranne sua moglie, nostra nonna, che lo accompagna (dalla sedie a rotelle) in questa discesa assurda verso gli Inferi, verso la nebbia assoluta, verso il nulla.

Ha ragione Proust ad associare la paura che sentiamo verso la pazzia a quella che proviamo verso la demenza senile e verso la morte. Queste tre cose si somigliano: in tutte e tre i casi l’ “io” si sperde, si annulla, svanisce, si trasforma in un “non-io”, in una “non-identità” che nessuno è in grado di rapportare a quella persona che conoscevamo prima, quando era ancora sana di mente, sveglia, in salute, ben lontana dalla minaccia della fine totale.

Mio nonno era un lettore assiduo (e mi fa male usare il verbo all’imperfetto – è un verbo che evoca la malinconia, secondo Proust) e adorava immergersi nei saggi di Storia: leggeva di tutto, dai libri sull’uomo primitivo, a quelli sulla Seconda Guerra Mondiale, da quelli sull’Impero Romano, a quelli sull'alto Medio Evo.

Mio nonno visse l’epoca del Fascismo come un periodo di prosperità e di gloria per l’Italia: ci diceva sempre che Mussolini aveva commesso un unico grosso sbaglio nella sua carriera politica: aver stretto l’alleanza con Hitler, essersi alleato al Nazismo, portando così l’Italia verso la catastrofe.

Mia nonna si vide costretta ad obbligarlo a rimettere in cantina un busto in bronzo del faccione squadrato di Mussolini, quando mio nonno pensò bene di ricordarci le sue simpatie ideologiche legate a un passato ormai tramontato (fortunatamente per noi, i nipoti venuti dopo, quelli nati alla fine degli anni 70 e diventati adolescenti – e poi passati alla fase della “giovinezza” – sotto il ventennio berlusconiano).

Non andavamo d’accordo, ovviamente, quando si parlava di politica e, proprio per questo, cercavamo di tenerci a debita distanza dall’argomento (tranne quando si trattava di andare a votare: e nostro nonno sapeva benissimo che non avremmo mai regalato il voto al candidato da lui considerato come “il meno peggio” o “il male minore”; le elezioni erano la scusa perfetta per litigare).

La bava gli scende dalla bocca che non sa restare chiusa. Gli occhi sono perennemente chiusi e, ciononostante, sembrano esprimere un dolore allarmato e costante: come se stesse per crollargli addosso qualcosa (non sappiamo cosa) e lui cercasse di ripararsi (invano) per l’impatto imminente. Le orecchie (già grandi di suo) sembrano essergli cresciute, ma non sente, ormai la sordità è totale (o quasi) e bisogna gridargli a due centimetri dalla faccia per sperare di scorgere un minimo di reazione. Quando torna nel mondo dei vivi, a volte sorride, e non si sa perché né verso chi è rivolto quel sorriso.

Giace sul divano circondato da un numero indefinito di scatole: medicine,rimedi inutili, ne deve prendere così tante che anch'io faccio fatica a tenere il passo (figuriamoci mia nonna, che a volte si confonde e gli dà la pasticca delle 16 alle 20 o viceversa).

Sappiamo che prima o poi arriverà quel momento fatidico che ci farà piangere ancora di più di quanto stiamo piangendo finora (ognuno per conto suo, ognuno vergognoso della propria debolezza e ognuno chiuso nel proprio dolore particolare – la morte allontana, non è vero che rende più socievoli, tutto il contrario, rende più solitari e asociali). E sappiamo pure che nostra nonna sarà la vittima principale di questa perdita.

Eppure… c’è chi dice che sarebbe meglio se la morte facesse in fretta il suo lavoro; che così perdiamo la nostra dignità; che la “demenza senile” è una vera tortura sia per chi la patisce in prima persona che per chi ne diventa testimone (involontario) giornaliero. Qualcuno dice anche che, se dovesse arrivare a 89 anni in questo stato, preferirebbe morire subito, con un colpo di pistola alla nuca (c’è anche chi patteggia un’eutanasia più pia e dolce: “fatemi una siringa, iniettatemi qualcosa che mi faccia dormire e che non mi faccia risvegliare mai più, per favore”).

Io non lo so perché scrivo queste cose ora, oggi, a quest’ora, ma è certo quello che diceva Proust in quell’articolo citato più sopra: la pazzia, la demenza degli anziani, la morte ci fanno paura, ci fanno tremare, ci spingono a riflettere su chi siamo diventati, su chi potremo essere in futuro, su chi siamo nel presente continuo che si consuma a ogni minuto, a ogni secondo…

Quando me ne sono andato, gli ho stretto la mano (calda, aveva un po’ di febbre). L’ho salutato (“ciao, nonno”), ma a bassa voce, così bassa che non mi ha sentito nessuno, figuriamoci lui…

Mia nonna ha pianto. Ci siamo abbracciati, le ho dato un paio di baci sulle guance paffute e ci siamo ripromessi di vederci ad Agosto, al mio rientro in patria… Io non ho pianto. Ma sono dovuto scappare da quella camera come se dentro vi fossero degli appestati, o dei cadaveri che qualcuno ha dimenticato di coprire con il telone bianco che ce ne nasconde i tratti e l’odore. Sono fuggito, con un certo senso di colpa verso colui che mi ha aiutato a crescere, a diventare chi sono oggi. Sono andato via di fretta e furia, come per scacciare un’immagine da incubo che si ripresenta sempre uguale a se stessa in un modo monotono, perfino banale, e, proprio per questo motivo, ancora più spaventosa e fastidiosa. Sono tornato a casa in aereo con un senso di morte nel cuore. E so che nessuno di noi potrà farci nulla.

La legge di natura, dice qualcun altro. E’ la vita, dice un altro ancora. E io non so perché è dovuto capitare proprio a lui, un uomo colto (per la sua epoca e il contesto geografico in cui è nato e vissuto), un lettore accanito, una persona istruita anche solo con la quinta elementare che era riuscito ad ottenere prima che diventasse un Balilla (agli ordine del Duce, uno dei suoi miti personali).


E mi chiedo che fine farà quel busto di bronzo (quell’immagine assurda e orrenda) quando lui non ci sarà più, chi lo erediterà, a chi spetterà farsi carico di quella faccia muscolosa e stizzita. Una faccia grottesca. Un ghigno che non ispira fiducia, né ottimismo, né serietà. A chi toccherà…

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