Miguel de Cervantes & William Shakespeare: tra i Morti e i Dormienti
Come
notava giustamente il bravo Salvador de Madariaga (una delle figure di intellettuale
tra le più eleganti e iluminanti del panorama spagnolo della prima metà del
Novecento), il capolavoro cervantino è tale anche perché cambia. Come teorizza
e spiega bene nel suo saggio Guía del
lector del Quijote (apparso negli anni 20, ristampato nel 2016 dalla casa
editrice “Stella Maris” in onore del quarto centenario della morte di
Cervantes), il libro cambia non solo per ciò che succede tra il 1605 e il 1615
(il successo della Prima Parte e l’apocrifo di Avellaneda spingono Miguel a
darsi da fare e a sfruttare al massimo la sua vena immaginativa, anche per
smentire l’operazione di mercato subdola del suo concorrente), ma anche per ciò
che accade ai due protagonisti, per cui Don Chisciotte si “sanchifica” e Sancho
Panza si “chisciottizza”. È un fenomeno evidente anche dal punto di vista del
linguaggio. A furia di camminare insieme per le lande desolate della Mancha, a
forza di chiacchierare tutto il tempo, i due finiscono per “mescolarsi” l’idioletto,
oltre che il modo di pensare e di vedere (interpretare) la realtà. Più ci
avviciniamo verso la fine della trama e più Sancho spera davvero di cambiare il
proprio “status” (e il governo dell’Isola di Barataria gli offre perfino l’illusione
di aver cambiato “classe sociale” d’appartenenza) e, al contempo, e in modo inversamente proporzionale, più Don Chisciotte si fa
cupo e triste, proprio perché non crede più alle chimere che gli dettano gli
amati “libros de caballería”, diventando sempre più (pericolosamente) saggio, ovvero,
realista.
Riguardo
al primo fenomeno di metamorfosi, Madariaga ci offre vari esempi di frammenti
in cui Don Chisciotte abusa dell’uso dei “proverbi” (tipico modo di parlare del
suo umile scudiero) e, in parallelo e al contrario, Sancho abusa dell’uso
altisonante e aulico del “linguaggio letterario” (che è il modo tipico di
parlare del suo folle padrone).
Ebbene,
in uno di questi brani Sancho sembra dimostrare un’acume, un’intelligenza, uno
spirito critico, oltre che d’osservazione, degni di uno Shakespeare (e non serve
ricordare che il “manco de Lepanto” e il “Bardo” di Stratford-Upon-Avon
condivisero la stessa temperie storica e culturale, finendo col coincidere
perfino nella data di morte, quel fatidico 23 d’Aprile del 1616 che – a detta
dei biografi e degli esperti di entrambi gli autori – li vide abbandonare per
sempre questa nostra triste Terra).
Ecco il brano in
questione (lo traduco, male e al volo, dal testo originale, ovvero, dal cap. 68
della IIª Parte):
“Non lo
capisco – replicò Sancho –; so solo che, finché dormo, non ho paura, né
speranza, né pena né gloria; e sia lodato colui che inventò il sonno, manto che
copre tutti gli umani pensieri, prelibatezza che toglie la fame, acqua che fa
fuggire la sete, fuoco che riscalda il freddo, freddo che tempera l’ardore e,
infine, moneta universale con la quale si può comprare ogni cosa, bilancia e
peso che rende uguali il pastore al Re e lo stolto all’edotto! C’è solo un aspetto
che rende brutto il sonno, a quanto ho sentito dire, e cioè che si rassomiglia
alla morte, perché tra un dormiente e un morto c’è poca differenza”.
Ecco,
inutile sottolineare quanto sia abile qui Sancho a manipolare il linguaggio a
fine retorici (qui il contadino ignorante dimostra una ars retorica davvero all’altezza di quella che sfodera Don
Chisciotte). Ciò che più mi colpisce è un altro aspetto, e cioè, il tema della Morte,
rapportata (paragonata) qui al sonno, una specie di benedizione divina proprio
perché, quando dormiamo, ci liberiamo, in un certo senso, dal peso dei doveri
della vita da svegli: quando si dorme, come osserva giustamente Sancho, non si
patisce la fama, non si ha più sete, né freddo, né caldo (ed è così, il corpo assume
una temperatura standard dimenticandosi – letteralmente – del clima dello
spazio esterno che lo circonda in quel momento). Ma Sancho Panza non si ferma
qui: oltre a parlare bene del sonno, a farne l'elogio, lo compara con la Morte ed è per via di
questa comparazione che ne sottolinea anche un aspetto – come dire? – negativo:
i dormienti somigliano (in maniera perturbante?) ai morti; ed è proprio così, quando siamo stesi in orizzontale
su un letto siamo fin troppo simili ai nostri "simili" quando sono ormai
cadaveri.
Ora: a
parte il fatto che questa comparazione (o similitudine) potrebbe avere origini
antichissime e remotissime, a me colpisce il fatto che qui Sancho (assumendo il
linguaggio “elevato” ed aulico del suo padrone) sembri echeggiare proprio
William Shakespeare, il contemporaneo di Miguel de Cervantes (che peccato che
non si siano mai incontrati! Sarebbe stato certamente interessante vederli a
chiacchiera l’uno di fronte all’altro).
Pensiamo
a un primo riferimento evidente: nell’Atto II, Scena I del Macbeth, Lady Macbeth scuote suo
marito, che si è appena reso colpevole di aver ucciso il Re legittimo e i suoi
rivali per la conquista della Corona, e cerca di tranquillizzarlo. Macbeth
presagisce che, da quel momento in poi, non riuscirà più a dormire (teme che i fantasmi dei morti gli appariranno in sogno per ricordargli il suo ignobile gesto). Lady
Macbeth gli risponde:
“The sleeping and the dead
Are but as pictures”.
Che possiamo tradurre proprio come Sancho: “I
dormienti e i morti non sono altro che immagini”, che è concetto ben diverso
dal comparare i morti e i dormienti come fa lo scudiero cervantino. In tal senso, Shakespeare è più “oscuro”
di Cervantes. La comparazione è qui totalmente implicita e accomuna (nel giro
di soli due versi) “sleeping” (dormienti, ma anche “il Sonno” o “il dormire”)
con “the dead” (i morti, ma anche, in senso letterale, “la Morte” o “il morire”).
E chissà quanti fiumi d’inchiostro avranno fatto spargere questi versi (più
avanti Lady Macbeth torna a sottolineare l’apparato visuale o visivo della
comparazione:
“[…]'tis the eye of childhood
That fears a painted devil”.
Che
possiamo rendere con queste parole in italiano: “è l’occhio dell’infanzia [o
anche: dell’infante, oppure: del bambino che è in te] che ha paura [o anche:
che teme] di un diavolo dipinto [o anche: solo immaginario, perché solo “dipinto”]).
Insomma,
il “Bardo” vuole dirci che Macbeth ha paura perché sta sovrapponendo due
immagini che possono esser paragonate entrambe a un quadro dipinto: morti e
dormienti sono solo “fantasie”, cose immaginarie; o anche: comparare i morti ai
dormienti è qualcosa di spontaneo, quasi automatico, ma una cosa è un morto
(che non si sveglierà più) e un’altra ben diversa è un dormiente (che sì che
tornerà a stare in piedi e a camminare). L’errore di Macbeth è tutto qui: crede
che i morti (le persone che ha appena ucciso) possano tornare in vita (perché
solo “dormienti”). Ma così non è. Il fatto è fatto. Non si può più tornare
indietro (ed è per questo che Lady Macbeth gli sottrae la daga con la quale ha
ucciso quegli innocenti per “sporcarsi” anche lei del sangue dell’assassino; è
come se Lady Macbeth volesse esplicitamente diventare co-autrice del delitto,
assassina in contumacia con il marito).
Ma
tornando a Sancho Panza: quando paragona il Sonno a una “bilancia” e a un “peso”
che rende uguali il povero e il Re, l’ignorante e il dotto, sembra che stia evocando altre tragedie shakespeariane, in particolare, quei due o tre drammi
storici (o cosiddetti “storici”) in cui il “Bardo” fa in modo tale che il Re di
turno soffra d’insonnia e cominci tutta una tirata per dire esattamente il
contrario di quanto va qui dicendo il nostro caro scudiero, e cioè, che il Re è
il più sfortunato di tutti perché, a differenza dei suoi sudditi, deve vegliare
per il bene di tutti, deve essere sempre pronto a vigilare sulla propria nazione,
quando, invece e al contrario, il povero morto di fame non deve preoccuparsi di
nulla e può dormire sonni tranquilli dentro la sua capanna fatta di paglia.
Ecco,
questo tipo di ragionamento appare in modo molto curioso e quasi negli stessi
termini in almeno tre casi: penso a Richard
The Third (Riccardo III), penso a Herny
The Fourth (Enrico IV) nella sua Prima e nella sua Seconda Parte e penso forse
anche a Henry The Fifth (Enrico V).
Ecco i
versi finali di uno dei primi monologhi di Enrico IV nell’omonima tragedia (II
Parte, Scena I dell’Atto III):
“Then, happy low, lie down!
Uneasy lies the head that wears a crown”.
Che
possiamo tradurre in italiano con queste parole: “Felici, dunque, quelli che
giacciono di sotto! [oppure: che vivono in basso]. Scomoda giace la testa di
chi indossa [o anche: di chi porta] una corona”. E ciò prorio perché il fatto
di essere il Re impedisce allo stesso di dormire sonni tranquilli (come se
detenere il Potere implicasse il soffrire – per sempre? – d’insonnia; e non ha
tutti i torti Shakespeare a pensare una cosa del genere, perché chissà quanti “potenti”
– come Enrico IV – soffrono la stessa malattia cronica proprio perché
preoccupati di manterlo il Potere che hanno; chissà a quanti nemici devono
pensare, da quanti occhi malvagi devono guardarsi le spalle, l’indomani mattina….).
Ecco:
Sancho Panza sembra aver letto questo monologo di Shakespeare, ma per
smentirlo. Secondo lui il Sonno rende uguali tutti, ricchi e poveri, superbi ed
umili, Re e straccioni, proprio come…la Morte (Totò la chiama “a livella”, proprio
per questo motivo).
E insomma:
probabilmente né il “manco di Lepanto” ha mai letto le opere del suo contemporaneo,
né, probabilmente, il “Bardo” ha mai letto le opere del suo collega spagnolo.
Una cosa è certa: ci sono temi e tematiche che si riprensentano in modo
simmetrico tra l’uno e l’altro classico. Come il
fatto che il Sonno somigli alla Morte. O
come il fatto che il Sonno, come la Morte, possa renderci tutti uguali (tutti
vittime, in un certo senso) o, al contrario, possa visitare senza problemi le
case dei più poveri e tenersi a debita distanza dalle corti dei Re più potenti (e,
proprio per questo, più facili prede dell’insonnia). William
& Miguel. Cervantes & Shakespeare. Nel mezzo: noi, morti in potenza,
dormienti quotidiani…
No hay comentarios:
Publicar un comentario