lunes, junio 08, 2020

Edoardo Albinati



In questi giorni di letture a pezzi, fatte nei pochi momenti di ozio e tranquillità, invece di leggermi tutti gli altri titoli dell'edizione di quest'anno del "Premio Strega", ho iniziato a leggere il tomo La scuola cattolica di Edoardo Albinati (con cui vinse proprio lo "Strega", nell'edizione del 2016) e non c'è modo di staccarmi dalla voce che l'autore è riuscito a inventare in questo romanzo.

Io Albinati non lo conosco; o meglio, l'ho sentito dal vivo solo una volta, in un incontro organizzato alla "Sapienza", quand'ero studente, o forse (perché non lo ricordo in modo netto e chiaro), in una conferenza organizzata in qualche Biblioteca pubblica, tra le molte di cui dispone Roma, fortunatamente.

Eppure, ecco, leggendolo, mi sembra di sentire la sua voce, proprio il timbro, il tono, l'accento, come se invece che leggerlo, lo stessi ascoltando mentre parla. E questa cosa non è dovuta solo ed esclusivamente al fatto che l'autore adotta una lingua che ha molto a che vedere con il "parlato", ovvero, con la "lingua orale", ma anche e soprattutto perché è stato in grado (e ci riescono in pochi) a plasmare tutto se stesso nella scrittura, per cui, alla fine, certi tic, certi modi di dire, certi vezzi, certi giri di parole e della frase, insomma, ti diventano familiari e ti viene da pensare che, ecco, solo Albinati può permettersi il lusso di scrivere certe cose ("Giriamo insieme questa pagina, dunque", mi sembra di ricordare che scriva alla fine di un capitolo; manco fosse Proust, e però sembra Proust, un Proust ironico e più metaletterario, ma Proust, in fondo in fondo, ovvero, un autore che - attraverso la maschera del narratore - si conquista, vincendo a man bassa, la fiducia del lettore, per cui a partire da un certo momento in poi l'autore - tramite questa maschera - può decidere d'intraprendere qualsiasi svincolo o sentiero narrativo e uno è disposto a seguirlo ovunuqe, anche in capo al mondo...).

Forse accadde proprio alla Biblioteca di San Lorenzo; forse alla "Basaglia", a Primavalle (ci facevo lezione da supplente, per un certo periodo della mia vita da precario); forse alla Feltrinelli di Largo Argentina, insomma, non ricordo il luogo concreto, ma sì ricordo che Albinati ci parlò della sua esperienza di insegnante d'Italiano nel carcere di Rebibbia. E mi colpì molto la sua umiltà (indossava una maglia bianca e un paio di jeans, con le scarpe da tennis - o forse erano le polacchine - e una giacca leggera perché era primavera, se non estate piena). Sì, mi sorprese che uno scrittore potesse parlare in quel modo dimesso, quasi sottovoce, con estrema chiarezza, ma anche con grande umiltà, del suo ruolo di insegnante e scrittore insieme, delle sue esperienze a contatto con i carcerati, con gente dalle vite spezzate o irrimediabilmente compromesse, dei suoi ricordi di ragazzo del Quartiere Trieste, una delle zone "bene" di Roma, che torna, prepotentemente, quasi come un altro personaggio protagonista, proprio nelle pagine di questo romanzo-monstre, un tomo di quasi 1300 pagine, un libro lunghissimo ed enorme, quasi osceno nella sua mastodonticità (si dice? Sto scordando pure l'italiano). 

E quindi, dicevo, ecco che mi ritrovo a leggere (a pizzichi e smozzichi, ma con grande passione e trasporto) La scuola italiana, un romanzo che, a partire da un fatto di cronaca (nera) realmente accaduto, parla di tutto: dell'amore, del sesso, del tradimento, della famiglia, della memoria, della politica, della violenza, della paura, della borghesia, dell'oblio, della moda, dei rapporti uomo e donna, dell'eterna guerra tra i sessi, della religione e di Dio, del peccato e dell'assenza del senso del peccato, della possibilità della scrittura di aiutarci a capire, anche se nessuno conosce se stesso, è questo che dice il narratore, a un certo punto, contraddicendo il famoso detto socratico.

E allora bravo, Edoardo Albinati, per averlo scritto, questo "mostro". E grazie per aiutarci a capire, anche se siamo coscenti che non capiremo mai niente del tutto e per sempre.


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