miércoles, octubre 22, 2008


Teoría del conocimiento, di Luis Goytisolo (Barcelona, Seix Barral, 1981)

Mentre Alì chatta con i suoi fratelli e riesce a sentire la sua Giordania molto più vicina di quanto non sia grazie a messanger, e mentre qualche cliente entra ed esce dall’hotel in preda a chissà quale strana smania o inquietudine interiore, leggo un romanzo strano sin dal titolo. Un’opera dello scrittore spagnolo Luis Goytisolo; un libro il cui titolo è già (di per sé) un enigma: “Teoria della conoscenza”… Che s’intende per teoria? E cosa per conoscenza? Esisterà mai una “teoria della conoscenza”? Mi vengono subito in mente altri due libri: due saggi, in realtà: l’uno di Immanuel Kant (Critica della capacità di giudizio, la cosiddetta “terza critica” – quella in cui il filosofo tedesco s’interroga su che cosa sia il “bello” e se esista una “capacità” o “facoltà” di giudizio che operi nel momento stesso in cui decidiamo che qualcosa ci risulta essere “bello”); l’altro di Ludwig Wittengstein (Osservazioni filosofiche, una specie di work in progress in cui non sapremo mai chi è l’assassino, anche se un qualche assassinio deve essere stato commesso in principio). E mentre mi ripeto la domanda: “esisterà mai una vera teoria della conoscenza, una teoria che sappia spiegarci per filo e per segno cosa succede quando “apprendiamo” e “conosciamo” qualcosa?”, leggo sul risvolto di copertina dell’edizione dell’81 che maneggio che Teoría del conocimiento è, in realtà, la quarta parte di una tetralogia composta dagli altri tre capitoli: Recuento (1973); Los verdes de mayo hasta el mar (1976) e La cólera de Aquiles (1979). Inutile aggiungere che la scoperta non fa che aggiungere ansia a sconforto, sconcerto a ansia. Non so se riuscirò a leggere mai le altre tre parti. E non so ancora di cosa mi parla la fine, questo quarto capitolo che, chissà in quale strano modo, dovrebbe concludere e chiudere l’intero impianto narrativo…

Eppure vado avanti a leggere. Mi affascinano i libri che non riesco a capire o a interpretare subito; mi piacciano le trame complesse o inesistenti. La prima pagina mette in crisi chiunque: perché ripete il titolo che si legge in copertina ma aggiunge un dettaglio, anzi, due: a) il nome del presunto autore, tale Raúl Ferrer Gaminde; b) il sottotilo “novela”, ovvero, in italiano, “romanzo”, come a voler sottolineare il fatto che sì, chi legge si trova davanti a un “romanzo”, un libro che ha una sua trama narrativa, un suo sviluppo e, eventualmente, una sua fine… o conclusione esplicativa.

Il libro è diviso in 12 capp.; sono arrivato al cap. VIII, ma non so ancora niente del finale né se ci sarà un finale. Intuisco che sulla pagina scritta si alternano i monologhi di diversi personaggi; spicca su tutti la voce di un tale, un architetto, che sembra rispondere al nome di Ricardo Echave (niente a che vedere con il Raúl Ferrer Gaminde del titolo iniziale; il secondo, dopo quello ufficiale che appare in copertina). Non che mi sia molto simpatico, ma i discorsi che questo Ricardo fa intorno alla sua infanzia, i familiari, l’adolescenza, i primi atti di ribellione politica all’Università (contro il franchismo, che dal 39 al 75 regna sovrano imbavagliando ogni forma di resistenza interna alla Spagna più civile e democratica), i suoi amori plurimi con donne che rispondono ai nomi di Magda, Rosa e Margarita, i suoi odi o dissensi nei confronti del padre o dei fratelli, insomma, tutto ciò che dice con uno stile forbito e un periodare complesso, da analista, da filosofo analitico, mi coinvolgono e mi spingono a continuare la lettura… fino a quando non si verifica una prima grossa sorpresa. A un certo punto qualcuno fa un commento intorno al presunto diario di Ricardo Echave: si nota che vuole scioccare il lettore, descrivendo nel dettaglio alcune sue esperienze sessuali. Ma si nota anche l’influsso dello stile di Luis Goytisolo… Accidenti! Ma allora il diario è solo un finto diario autobiografico. Chi scrive dicendo di parlare con tutta onestà e franchezza lo fa con lo stile-Goytisolo… c’è qualcosa che non quadra.

Vado avanti nella lettura e nel cap. V trovo un paragrafo che mi chiarisce e, al contempo, mi complica ulteriormente le cose: Teoría del conocimiento è evidentemente un meta-romanzo; ma chi guarda chi (o chi legge chi) quando chi scrive ci mette sotto i nostri stessi occhi le sue stesse critiche al modo di poter scrivere dei propri dubbi nel momento stesso in cui si mette a scrivere di sé? Chi guarda chi? Chi legge chi? Chi scrive di chi? Il cap. V è centrale, in tal senso: e l’ultimo paragrafo (dal titolo significativo “El ojo” – ovvero “l’occhio”) serve a ribadire quanto andavamo solo ipotizzando. In questa parte l’autore ci coinvolge pienamente nel lavoro di “scrittura” e “ri-scrittura” del testo attraverso le sue riflessioni:

1-     mentre leggiamo un testo di finzione (traduco al volo e, forse, male)scopriamo aspetti non solo imprevedibili da parte dello stesso autore, ma anche insospettabili, completamente estranei ai piano di questi;

2-     ciò accade non solo e non tanto perché quanto l’autore si è proposto di scrivere racchiude significati non progettati, e che in tal modo si riflettono nell’opera, ma anche e soprattutto perché leggere un libro è come sottolinearlo a matita, come evidenziare, segnalare e perfino aggiungere commenti a margine, non tanto intorno a ciò che è importante rispetto al testo in sé, quanto intorno a ciò che è importante per noi, motivo che spiega perché ci dia tanto fastidio prestare libri sottolineati nella misura in cui la nostra intimità può venire coinvolta; ciò porta a questo nuovo ragionamento:

3-     il lettore di un’opera di finzione trova sempre una serie di significati che l’autore non saprebbe spiegare perché sono lì, nell’ipotesi che si sia accorto del fatto che ci sono, per progettata che avesse pensato l’opera, tanto nelle linee maestre che la determinano, quanto in rapporto ai dettagli minori della sua realizzazione, soppesata parola per parola;

4-     e allora che cosa diventa l’opera, da questo punto di vista? L’opera diventa il punto verso cui convergono autore e lettore, l’ambito in cui si riflettono le loro rispettive attitudini.

Mi fermo a pensare. Mi accendo una sigaretta, anche se non si può (ordino ad Alì di spalancare le porte e di consegnare lui le chiavi se torna qualche cliente nottambulo o ritardatario). Rileggo il punto 4. E mi viene in mente Proust. E Cesare Pavese (in particolare il suo diario intimo, Il mestiere di vivere). Non solo vivere è un mestiere (che a volte richiede pazienza e forte capacità d’adattamento o doti di prestigio), ma anche leggere è vivere e scrivere è vivere; mi viene in mente un altro scrittore spagnolo, Enrique Vila-Matas, che colpisce perché non sai mai quando parla sul serio o sta solo scherzando. E penso a James Joyce. Dopodiché continuo a leggere e il narratore prova a spiegare la sua “teoria” attraverso vari esempi, tra cui Proust e il suo Contre Saint-Beuve; e il Velázquez de Las Meninas, quel quadro in cui si vede Velázquez nell’atto di dipingere un quadro di cui vediamo solo la parte posteriore, e mai il soggetto, che (sono i Re) appare di riflesso su uno specchio posto dietro il pittore, mentre in primo piano vediamo le “damigelle” che accompagnano la piccola “infanta”, e sullo sfondo uno spettatore scuro che, incorniciato dentro una porta, sta per salire delle scale (o forse le ha appena scese) e contempla la scena (il pittore che dipinge) mentre su tutto aleggia un’atmosfera da sogno, bello e inquietante, com’è l’atto del leggere, com’è leggere questo romanzo, che comincio a sottolineare a matita e a commentare con commenti e giudizi al margine, senza riuscire più a capire chi scrive cosa e chi legge chi, ma con la ferma convinzione del fatto che sì, è vero, il testo scritto (di finzione) è davvero l’unica superficie riflettente in cui autore e lettore possono incontrarsi e scontrarsi o venire a patti, in cui l’universo dell’uno si completa e prende vita grazie all’universo dell’altro, e i nostri occhi guardano l’universo attraverso gli occhi dell’autore, che, non visto, forse ancora ci sta guardando, come Velázquez guarda il soggetto del suo quadro, un quadro che non vedremo mai (più).

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