domingo, septiembre 06, 2009


Come raccontare la guerra: Camilo José Cela e San Camilo 1936 (Madrid, Alfaguara, 1970)




Un giovane si guarda allo specchio e non riesce più a vedere chi sia: sullo sfondo, dietro di lui (ma anche dietro quello stesso specchio che non riflette più l'immagine reale), la guerra impazza, i cittadini fuggono da Madrid o si rintanano in casa o sotto gli scantinati mentre i repubblicani, insieme agli anarchici, ai sindacalisti e ai comunisti, provano a coalizzarsi e a dare vita a quello che sarà il cosiddetto "Frente Popular" contro le armi ben affilate (e ben più moderne) di Franco e dei franchisti.

E' la Guerra Civile spagnola (o meglio, l'inizio della): Camilo José Cela (l'ultimo Premio Nobel per la Letteratura di nazionalità spagnola, vinto nel 1989) ce la racconta adottando il punto di vista di uno zio che parla e prova ad insegnare al nipote come ci si comporta nella vita, come si affrontano le avversità, in che modo si può fronteggiare la morte. E' proprio questo rivolgersi al protagonista in seconda persona singolare a permettere al lettore di entrare nella mente, per così dire, di questo ragazzo impaurito e, al contempo, codardo, forse spia al soldo del nemico, incapace di mantenere un rapporto sentimentale con Toisha, la sua fidanzata, e incapace di gettarsi nell'azione o di prendere una decisione netta tra i due schieramenti in lotta tra di loro.

Novello Amleto, egli sa di essere un ignavo, è preda dell'inerzia, dell'apatia e dell'egoismo: sa che non potrà mai essere Giulio Cesare nè Napoleone Bonaparte nè tantomeno il Re Cirillo d'Inghilterra. Lui è un debole e, dinanzi alle tragedie scatenate dalla Storia, si sente un fallito, un perfetto idiota, un fatuo, un intruso. Non sarà mai un eroe (come per Stephen Dedalus così è per lui: la Storia con la "S" maiuscola non è nient'altro che un "incubo dal quale vorrei svegliarmi").

Ecco, qui tocchiamo uno dei temi centrali del romanzo: la confusione e il senso d'incertezza acuto che provoca la guerra, momento catartico della Storia (o che la Storia produce nel corso del tempo cronologico umano). In questa sorta di monologo interiore ininterrotto, la voce narrante riesce a inglobare tutto, dagli elementi più madornali (i titoli dei giornali, la censura contro il nemico politico, i rastrellamenti che potevano significare la morte anche solo per l'abbigliamento che si indossova, gli spari e le sparatorie dei giudizi sommari impartiti da entrambi gli eserciti) a quelli più minuti (i bordelli - che continuano a funzionare anche quando Madrid è una città sotto assedio; le relazioni dei vari personaggi - accomunati dalle stesse ansie e paure e, a volte, in lotta tra loro proprio perchè appartenenti a partiti politici opposti; le cene e i pranzi - più miseri o meno lauti perchè cominciano a scarseggiare pane, latte e altri beni di prima necessità).

Siamo nel bel mezzo dell'abisso: e Cela, famoso per aver inventato una corrente letteraria che va sotto il nome di tremendismo, si diverte, per certi versi, a scandagliare gli aspetti più biechi o truci della realtà quotidiana in tempo di guerra. C'è l'omosessuale che, senza mai essere venuto allo scoperto, si spara un colpo con un fucile infilato nell'ano; c'è la prostituta che si getta sotto un vagone della metropolitana; c'è il mendicante che raggranella pochi spiccioli per l'ultima sbronza prima che cada la notte e arrivi il corpifuoco.

Non si salva nessuno; San Camilo 1936 (esattamente come succede nell'altro grande romanzo di Cela, La colmena, del 1951) è popolato da un numero ragguardevole di personaggi, ma non ce n'è nemmeno uno che si possa definire "sano" o "positivo". Sono tutti colpevoli: dal Primo Ministro all'ultimo giornalista da strapazzo; dal commerciante al barbiere; dalla prostituta al nobile decaduto, non c'è personaggio che spicchi sugli altri in quanto a eroismo.

D'altronde - sembra suggerirci il ragazzo che si contempla nello specchio - siamo davvero certi che Giulio Cesare o Napoleone o Re Cirillo siano stati degli eroi? Chi decide chi sarà ricordato in futuro per le sue azioni in guerra?

Altro tema è quello della confusione dei ruoli e delle apparenze che ingannano: è un dato accertato, ormai, che durante il conflitto (durato 3 anni, e terminato nel 1939) si poteva finire in carcere o si poteva venire giustiziati con un colpo di pistola a cielo aperto anche solo per il modo di vestire o di salutare. Anche qui, come in altri romanzi spagnoli sulla Guerra Civile, si narra di persone normali, appartenenti alla borghesia media, che vengono fatte prigioniere o "rastrellate" dai "rossi" solo perchè non fanno il saluto con il pugno chiuso o solo perchè vestono troppo bene (da "nobili" o "señoritos" come si diceva in gergo); anche qui si narrano i casi di suore e preti costretti alla fuga per gli incendi che alcuni ribelli appiccano alle loro chiese; e anche qui si narrano i casi di contadini che si rifiutano di salutare al modo fascista o che non si fanno il segno della croce davanti a un cimitero o a una chiesa e che per tali motivi finiscono nelle fosse comuni o spariscono nelle prigioni franchiste. E' il tono che cambia; Cela ha il gusto per tutto quanto è "grottesco" e "sporco" e non risparmia i dettagli più apocalittici e sgradevoli.

In vita, Cela fu criticato da molti (colleghi, critici, giornalisti, politici); ora che sono passati 7 anni dalla sua morte (avvenuta nel Gennaio del 2002) possiamo azzardarci a separare il "grano" dalla "paja" (quanto di buono scrisse, rispetto alle opere minori) al di là delle ideologie. Senza alcun dubbio, San Camilo 1936 è uno dei suoi romanzi migliori; è come se Cela avesse usato la tecnica del monologo interiore e del flusso di coscienza di Joyce per mescolarla alla tecnica del montaggio "alternato" usato da John Dos Passos in Manhattan Transfer; ed è come se, attraverso quel mix sperimentale e coinvolgente, avesse voluto trasmetterci tutto l'orrore che si può respirare vivendo in mezzo alle grida, agli spari e ai soprusi che l'un bando e l'altro hanno commesso nel momento in cui si scatena il conflitto. Non solo: Cela sembra usare quelle stesse tecniche adottate ne La colmena per riflettere in modo ancora più esplicito su che cosa voglia dire "essere spagnoli". Su chi sia lo "spagnolo tipico". La risposta non è delle più allegre o rassicuranti. Come si evince anche da queste parole:

"(p. 298): “[…] sul cielo di Madrid inizia a vedersi subito lo splendore degli incendi, uno, due, tre, fino a cinquanta o più, chissà se ancora di più, a tuo zio Jerónimo dà molto da pensare la relazione tra la chiesa e il fuoco, non avere dubbi, nipote, dentro ogni spagnolo abita un incendiario religioso, basta solo dargli l'occasione giusta per mettere in mostra le sue abilità, gli estremi si toccano, la reazione brucia eretici e libri e la rivoluzione brucia chiese e immagini sacre, purchè si bruci qualcosa, osserva nipote che il popolo spagnolo anche se patisce la fame non brucia le banche ma i conventi, dietro tante fiamme non c'è una motivazione politica nè tantomeno economica ma religiosa e magica, forse lo spagnolo confonde la politica, l'economia, la religione e la magia, tutto è possibile, il fuoco come grande soluzione, la panacea universale per ogni dubbio e lo spagnolo dubita di tutto tranne del fuoco eterno, del fuoco della pentola di Belzebù che viene dal catechismo, qui l'unica cosa che non è permesso bruciare sono i cadaveri perchè dicono che è peccato, qui si bruciano persone vive e case con dentro persone vive, lo spagnolo ha anima da "falla valenciana", quanto più fuoco tanto meglio, i militari si sono ribellati e negli acquartieramenti di Madrid nessuno sa cosa succede ma il popolo invece di andare contro i militari va contro i preti, il fuoco religioso ha l'effetto del miracolo sugli spagnoli, su tutti gli spagnoli, qui non si salva nessuno, o meglio, si salvano in pochi da questa mania di bruciare o di essere bruciati, qui tutto si deve risolvere con la fiamma che brucia, lo spagnolo vorrebbe bruciare la propria storia affinché dopo, quando non sia rimasto più nulla, possa gettarsi sulle braci urlando, in Spagna ci sono molti più pazzi di quanti ce ne sia bisogno [...]".
(p. 298 dell'ed. originale; la traduzione, liberrima, è mia).

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