domingo, septiembre 27, 2009

Basta che funzioni ("Whatever works") di Woody Allen: guerra ai clichés e giochi del destino



Chi va a guardare un film di Woody Allen sa già cosa lo aspetta: New York con i suoi grattacieli o i suoi scorci più romantici; storie di amori incrociati, e corrisposti, e poi di nuovo spezzati; personaggi nevrotici e simpaticamente problematici; una colonna sonora in cui prevalgono pezzi di musica jazz e classica di alto livello; etc. etc. Non solo: chi ha apprezzato La rosa purpurea del Cairo o conosce a memoria quel famoso e stupendo monologo con cui si apre Io e Annie ("Annie Hall") in cui il personaggio protagonista ci guarda dritto negli occhi e ci parla della sua particolare "filosofia di vita", ebbene, chi ricorda le immagini legate a questi due film sa anche che quando si va a vedere un film di Woody Allen può saltare il principio di verosimiglianza e l'illusione di realtà (o "effét du reél", come lo chiamava Roland Barthes) e i personaggi possono interagire con lo spettatore chiamandolo direttamente in causa e rendendolo esplicitamente "co-attore" e "co-autore" del film stesso.

E' quanto succede anche con quest'ultima fatica del Nostro: Basta che funzioni ("Whatever works") inizia con il protagonista, Boris Yellnikov, che a un certo punto smette di chiacchierare con gli amici e si rivolge a noi spettatori fissandoci in primo piano e "bucando" lo schermo. Da questo esatto momento in poi noi spettatori diventiamo testimoni oculari del processo che ha portato Boris a essere quello che è; e non solo: guardiamo la sua storia, ascoltiamo la sua vicenda, con quella giusta dose di malizia e di ironia distanziante che, nella vita reale, raramente applichiamo a noi stessi e alle nostre esistenze. E' come se, attraverso la "maschera" del suo alter-ego isterico, nevrotico, scorbutico e misantropo, Woody Allen ci dicesse: "Guardate che quello che state guardando non è altro che un film; ma sappiate che il film parla proprio di voi; anzi, di noi, delle paure, delle ansie, delle illusioni che ci rendono - tutti - umani, ovvero, quello che siamo: limitati nel tempo, condannati a morire e a sparire per sempre, a volte fin troppo assuefatti al dolore e sempre troppo pronti a lasciarci influenzare da quella strana malattia che molti chiamano amore"; d'altronde, lo diceva anche Eco: "lector in fabula" - di te si parla qui dentro questa storia fittizia che sembra finta ma che, forse, non lo è poi tanto).

E così, da testimoni oculari e ironici, ascoltiamo e vediamo come mai questo quasi Premio Nobel per la fisica (specialista in meccanica quantistica) per una fase della propria vita lascia che una giovane e bella fanciulla proveniente dal Sud nella Grande Mela riesca ad allontanarlo per un po' dal suo stato di pessimismo cosmico (o "leopardiano") e lo spinga a guardare con un po' più di ottimismo la vita.

Non solo: attorno a questa incipiente storia d'amore (coronata con tanto di matrimonio lampo), si andranno intrecciando nel corso del film le storie degli altri comprimari; la madre della ragazza, dopo lo shock di vedere sua figlia sposata a un uomo di 40 anni più vecchio, si aprirà a nuovi orizzonti e smetterà di ragionare come una "cattolica fervente e ortodossa"; il padre della ragazza, addirittura, accetterà la propria omosessualità repressa; e insomma, alla fine tutti scopriranno angoli del loro carattere che erano tenuti nascosti forse per il timore di essere "condannati" da Dio e dalla società o forse per il timore di accettarsi per quello che sono.

Il film è tra i migliori di quelli girati fino a oggi dal regista americano: le battute sono tantissime e tutte esilaranti (sarebbe impossibile riportarle tutte per esteso; e molte sono da antologia); non posso non citare quella del gay che chiacchiera seduto in un bar con il padre della fanciulla appena andata in moglie a Boris: "Dio è gay"; anzi: "Dio è un arredatore gay", dopo che il più morigerato fa notare al suo interlocutore la bellezza dei fiori, delle piante, degli alberi, dei boschi, delle montagne...). Il ritmo è sempre sostenuto; è impossibile annoiarsi guardando questo film (sebbene Boris all'inizio ci avvisi: "Non ho niente d'interessante da raccontarvi; non sono un bel carattere; odio tutti questi vermicelli" - ovviamente, si riferisce a noi, ovvero: il resto dell'umanità). E la sceneggiatura è attentissima nel calcolare i momenti clou, quelli in cui le apparenze mostrano di essere tali e le verità nascoste vengono alla luce del sole grazie agli incroci che il caso (o il destino) si diverte a creare nostro malgrado...

Potrei riassumere il tutto dicendo che il film parte come una sorta di "guerra ai clichés" (quelli pronunciati troppo spesso dalla bella e inesperta giovane sposa di Boris, e che lui, il genio, s'impegna a debellare, riuscendo a trasferire le perle della sua infinità ed eccelsa saggezza da "uomo superiore alla massa" alla pulzella senza laurea) e finisce come una sorta di "lode ai giochi del destino".

Nessuno si salva: né dai clichés, né dai giochi del destino. Siamo tutti vittime e carnefici (allo stesso tempo): Boris trova l'amore vero gettandosi dalla finestra al suo ennesimo tentativo di suicidio (fallito); ed è lo stesso "quasi-Nobel" a riassumere la sua "filosofia" in quello che, certamente, possiamo considerare come un bel cliché: "basta che funzioni" (come a dire: "finché dura fa verdura"; "cogli l'attimo"; divertiamoci finché ce n'è, tanto la vita è corta e nessuno può scampare alla morte).

Woody Allen allo stato puro e in stato di grazia...

Qui sotto il monologo tratto da Annie Hall (uno dei capolavori del Nostro e uno dei film più belli della storia del cinema, a mio modesto parere):

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