sábado, octubre 10, 2009

Le théoème d’Almodóvar di Antoni Casas Ros: la letteratura come redenzione


Non è affatto facile per me parlare di questo romanzo; non lo è per diversi motivi. L’ho scoperto su consiglio del solito Enrique Vila-Matas (una vera e propria guida, una specie di Virgilio benevolo, nel meraviglioso e intricato mondo della letteratura “altra”, dei libri “rari” e “strani” che si continuano a pubblicare ancora oggi, nonostante l’industria dei cosiddetti best-sellers e nonostante lo strapotere della cosiddetta “industria culturale” – un vero e proprio ossimoro, altro che). Ma non solo; è strano anche il modo in cui ne sono venuto in possesso: l’ho comprato in Spagna in francese per un mero calcolo economico: l’edizione tascabile di Gallimard costava solo 6 euro, mentre quella in spagnolo (apparsa presso Seix Barral) veniva sui 17. E così, mi sono ritrovato a leggere un romanzo in francese scritto da un autore esordiente per metà italiano e per metà spagnolo (madre piemontese e padre catalano – di qui il doppio cognome e la scomparsa della “o” dal nome Antonio), romanzo acquistato a Barcelona (città in cui lo stesso Casas Ros ha vissuto per svariati anni) e letto a Firenze, ma, scopro, ambientato a Genova (dove sembra che Casas Ros viva tuttora, dopo vari traslochi tra Parigi e Roma)…

La prima impressione è quella della vertigine spaziale. Leggo la storia di un individuo-nomade che sembra non avere pace e non trovare ancora una città in cui fissare la propria dimora. Ma basta andare avanti, leggere le prime pagine del romanzo, per rendersi conto che chi narra non solo ci parla di sé senza infingimenti apparenti, ma ci parla anche attraverso una prima persona che convince e attanaglia e cattura in modo quasi innaturale. Come si reagisce davanti a una voce simile? Con lo stupore, ovvio. Uno stupore destinato ad aumentare nel momento in cui ci rendiamo conto che chi parla ha perso letteralmente la faccia a causa di un incidente automobilistico. Al fine di evitare un cervo improvvisamente spuntato da un bosco, l’autore ha sbandato e l’auto è andata a finire contro un albero, causando la morte immediata della ragazza che gli sedeva accanto, Sandra, la sua fidanzata ventenne.

E’ un trauma e la scrittura sembra assolvere il ruolo terapeutico che alcuni gli attribuiscono: il dolore diminuisce, o si attutisce, se ne parli (o ne scrivi), se lo descrivi a parole e, così facendo, riesci a prenderne le distanze. E così il lettore si accorge subito di come tutto questo dolore, e il lutto per la morte della fidanzata, possa avere un ruolo positivo, nell’ambito della progressiva “ri-nascita” che l’autore tenta di portare a compimento attraverso la scrittura. Ci accorgiamo che solo soffrendo molto si capisce molto (o si riesce a scavare di più all’interno del mistero – di quello che è la vita e di quello che siamo noi, poveri individui limitati nel tempo e nello spazio).

Non si tratta solo di “perle di saggezza”. Si tratta di verità generali, di dimostrazioni quasi-matematiche della realtà (non è un caso allora che ogni capitolo inizi con un’epigrafe tratta da due saggi di Newton: De la gravitation e Du mouvement des corps) portate a capo da uno che non ha più una vita perché non ha più un volto (e, si sa, “Pour avoir un vie, il faut un visage”- p. 15 dell’ed. Gallimard, 2008). E qui tocchiamo uno dei punti nodali del romanzo, uno degli aspetti più originali e che ne fanno un’opera-prima davvero geniale: Casas Ros (o colui che ne assume la voce narrante) usa il tempo che intercorre tra l’incidente (avvenuto quando aveva 20 anni) e la scrittura del romanzo della sua vita-non-vita (34 anni suonati) per studiare matematica, la passione trasmessagli dalla madre, e per spiegare matematicamente il cosmo… come se fosse un nuovo Newton, o un neonato Einstein, pronto a dimostrare tutto…nonostante o forse grazie al fatto che vive una “non-vita”, appartato da tutti, in perfetta solitudine, perché nessuno accetterebbe mai di stare vicino a un “mostro”…

Peccato che la matematica non sia una scienza esatta. Ed è qui che il romanzo decolla. Puoi anche provare a trovare la formula magica che spieghi il perché di quell’incidente automobilistico. Puoi anche provare a scoprire il teorema che spieghi l’amore o la morte o la solitudine, ma la matematica (non dobbiamo mai dimenticarcelo) non è una scienza esatta, ed è forse questo quello che più conta, come sembra suggerirci lo stesso narratore:

“J’amerais mettre en équation le désir, la créativité, l’audace, la peur, l’intrépidité, la solitude. Je vois un amphithéâtre plein d’étudiants passionnés cherchant à résoudre le théorème du désir. Je contemple dos corps désirants qui trouveraient en eux, dans leur chair, dans leurs céllules libérées de la pesanteur exacte, la clé du mystère. J’aimerais qu’un jour la médaille Fields, l’équivalent du Nobel pour le mathématiciens, soit décernée à celui qui aurait résolu l’équation du désir, de la folie ou celle de l’acte créateur” (id., p. 31).

Se è vero che la scienza non può comprendere il mistero, allora è pur vero che la letteratura (e l’arte, più in generale) sembra permetterci almeno di intravedere o di spiare quello stesso mistero in cui siamo tutti immersi, di guardare l’orlo dell’abisso.

L’uomo senza volto scrive e scrivendo ri-crea un nuovo mondo che, pur essendo caotico, aspira ad essere un cosmo in cui tutto torna, in cui tutto è possibile. In cui, addirittura, sarebbe possibile anche rinascere grazie all’amore. Ecco allora il significato profondo che assume per lui l’incontro, inaspettato, con Lisa, un transessuale che si prostituisce per le stradine di Genova e che sembra non avere paura del volto sfigurato della persona che ha davanti. Ecco allora possibile l’incontro di Casas Ros con uno dei suoi registi preferiti, quello stesso Pedro Almodóvar che poi darà il titolo al libro…

La letteratura come redenzione. E la scrittura come strumento in grado di ri-creare il mondo anche quando questo continui ad essere un caos (lontanissimo da quel “cosmo” che, ci dice la religione, Dio ha creato per noi umani, nati a sua immagine e somiglianza – ma per Casas Ros anche Dio, anche la creazione artistica, è una questione matematico-geometrica, una questione di “spazio”, come si evince da queste parole lucidissime: “C’est presque une question de géometrie. Nous avons l’habitude de résider dans un corps et nous n’avons que la vision qui émane de ce corps-ci; mais qu’une grande beauté, une grande peine, nous déplace dans l’espace et Dieu se profile. Ce qu’on appelle les conversions doivent résulter de ce déplacement. La misère même de notre pensée vient de l’espace contigu dans lequel notre cerveau fonctionne” (id., p. 36).

La scrittura, dunque, come mezzo per capire; per vedere come stanno veramente le cose; per essere Dio (o Newton o Einstein). Ecco allora il teorema che spiega la connessione tra “dittatura” e “sguardo”: “Toute la violence de notre temps, toute la crapulerie politique vient du fait que personne ne regarde personne. […] Les dicateurs ont toujours le regard fixe” (id. p. 79). Ecco la connessione tra la “nostra cultura” e l’ “anoressia”: “Toute notre culture est anorexique, toute notre civilisation. Nous avons l’oeil fixe” (id. p. 82). Ed ecco l’assioma finale, la parte fondante il “teorema di Almodóvar”: “il suffit de regarder assez longtemps pour transformer l’horreur en beauté” (id. p. 82).

E’ quello che fa Lisa davanti al viso sfigurato dell’autore; ed è quello che farà l’autore contemplando il mare e il cielo dalla terrazza di casa. Ecco perché possiamo definire quest’opera come un “romanzo romantico”: perché anche gli aspetti più tragici o brutti della realtà sono visti attraverso il punto di vista di un personaggio che non smette di sognare, che non smette di pensare alla possibile soluzione dell’equazione che trasformerebbe il caos in cosmo.

A un certo punto della trama, Casas Ros si ritrova davanti a quello stesso cervo che è stato la causa-prima della sua tragedia personale. Lisa resta interdetta, ma il cervo è mansueto e si lascia carezzare la testa. Casas Ros lo prenderà con sé e lo farà stare in terrazza, trattandolo come un altro membro della famiglia. La letteratura non solo redime, ma ci aiuta anche a sopportare con dignità le sconfitte. E a capire che, come dice il poeta (Roberto Juarroz, citato in epigrafe al romanzo): “Au centre du vide, il y a une autre fête”… ovvero: “En el centro del vacío, hay otra fiesta”…il che equivale a dire che: “Nel centro del vuoto, c’è un’altra festa”.

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