viernes, abril 15, 2011



In a Lonely Place, di Nicholas Ray (USA, 1950): di chi (non) ci si può fidare (mai)


Ancora una volta, devo a quel cinefilo e "folle" di Enrique Vila-Matas la scoperta di questo classico della Storia del Cinema: In a Lonely Place (assurdamente tradotto in italiano con Il diritto di uccidere), un film del geniale, controverso, languido, melodrammatico e decisamente pessimista Nicholas Ray (il regista di - tanto per citare solo 2 titoli indimenticabili - Gioventù bruciata (del 1955) e di Johnny Guitar (1954) - incredibile, se ci pensiamo bene: 2 capolavori nell'arco di 2 anni).

Il film è tante cose insieme: a) una riflessione sul cinema come industria che, spesso, schiaccia chi vi lavora e premia la "ripetizione" dei soliti clichés contro la vera creatività e l'originalità; b) una storia d'amore straziante in cui lo spettatore si vede costretto a parteggiare prima per Dixon Steele (lo sceneggiatore irruento e irascibile interpretato da Humphrey Bogart) e poi per Laurel Gray (interpretata dalla bella bionda di turno, Gloria Gahame) e, infine, di nuovo per Dixon; c) un film sulla violenza che alberga nell'animo umano (e che può esternarsi anche contro chi amiamo di più e più ci è vicino, quando meno ce lo aspettiamo, rovinandoci la festa e la vita).

In soldoni: Dixon Steele scrive sceneggiature - alcune tratte da romanzi di serie B - e vive da "anti-eroe solitario" una vita fatta di tante donne, ma di nessun amore vero; una sera invita una giovane cabarettista a casa sua perché non ha voglia di leggere il romanzaccio da cui dovrà trarre ispirazione per il suo prossimo film, ma, caso vuole, non appena quella ragazza varcherà la soglia di casa sua morirà: qualcuno la strozza e la getta da un auto in corsa in una strada solitaria, nel cuore della notte. Dixon verrà subito sospettato di essere l'autore dell'omicidio, ma una sua vicina di casa, Laurel Gray, giura di averlo visto restare in casa sua - la ragazza, affascinante e misteriosa, confessa di averlo contemplato dal balcone del suo appartamento, che si trova proprio di fronte a quello di Dixon. Tra i due nasce l'amore; un colpo di fulmine a ciel sereno rovinato - tra le altre cose - dalle indagini della polizia, che tallona Dixon, credendolo l'unico possibile autore dell'assassinio.


Il regista è abilissimo nel mostrarci il sorgere della passione tra questi due personaggi: lei bella, giovane e bionda e di cui non sappiamo quasi nulla; lui bruttino (anche se si tratta di un sex-symbol come Bogart, qui veste malissimo e il trucco non lo aiuta), irascibile, vittima di depressione e scatti d'ira anche contro il suo miglior amico. Bastano pochi indizi, poche frasi, per far scattare l'insicurezza e la paura del tradimento in Dixon: da una scenetta romantica in riva al mare (in compagnia di un'altra coppia) si passa subito ad una scena paurosa in cui Dixon, che si crede tradito anche da un poliziotto suo vecchio amico ai tempi della guerra, si mette a guidare come un pazzo e per poco non ammazza un povero conducente che prova ad esternargli le sue rimostranze. 

Avevamo iniziato a fare il tifo per lui (un perdente, uno che in fondo ha bisogno d'una donna che lo comprenda e lo aiuti a superare le sue crisi d'ira - oltre che quelle d'ispirazione), ma poi cominciamo a tifare per lei (che lo ama, ma ci sembra debole, una bella statuina che potrebbe rompersi da un momento all'altro tra le ruvide mani di Dixon). 
Si finisce con climax con una patetica scenata in un ristorante pubblico: l'uomo è ormai convinto che l'amata lo tradisca o voglia mandarlo in galera o non abbia più alcun desiderio di passare le giornate intere in sua compagnia (mentre lui scrive la sceneggiatura del film ancora da farsi rinunciando perfino al sonno e al cibo).


C'è un aspetto che mi ha colpito del film e riguarda lo spazio: come in tanti film di David Lynch, anche in questo di Nicholas Ray vediamo il dietro le quinte di Hollywood, le zone d'ombra che vengono tenute nascoste ai più; il cinema è un'industria e non guarda in faccia nessuno. Se Dixon è diventato uno sceneggiatore famoso lo deve a Hollywood; ma se smette di "produrre storie" (per banali o commerciali che esse siano), smette anche di guadagnare e, soprattutto, di esistere agli occhi dei registi che potrebbero ingaggiarlo. E Lynch deve essersi ispirato anche a The Lonely Place per quelle strade buie e tutte curve che vediamo all'inizio di Mulholland Drive, che è il nome di una delle tante strade che percorrono Hollywood, un posto in cui non è tutto oro quello che luccica e dove spesso a luccicare sono le lacrime sulle guance dell'amata non più amata di Dixon. 

Non ci si può fidare di nessuno su questa terra: e quando poi capiamo di avere sbagliato e di essercela presa con l'unica persona che ci amava davvero è (sempre) troppo tardi. Dixon/Bogart lo sa, ed è per questo che si allontana dando le spalle alla sua donna, alla sua casa e a noi spettatori... Lo spazio della città delle infinite possibilità si trasforma all'improvviso nello spazio angusto e claustrofobico di un cortile dal quale l'attore sparisce per non farvi più ritorno...

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