sábado, noviembre 12, 2011

Abitare case

Oggi, dopo la lezione, mi sono chiesto, osservando allibito il nuovo eco-mostro che stanno costruendo a pochi passi dalla Facoltà: ma quante case si possono abitare in una vita? Quante case può cambiare, nel corso della sua esistenza, un essere umano?
Mi vengono in mente i nomi di vari scrittori che hanno fatto del trasloco (volenti o nolenti) la loro filosofia di vita: basti pensare a Bruce Chatwin (viaggiatore instancabile tra Africa e Europa e autore di un libro con uno dei titoli più belli di tutti i tempi: Che ci faccio qui?), o a Rafael Alberti, il poeta della cosiddetta “Generación del 27” (che, insieme alla moglie – amata e tradita, María Teresa de León –, ha cambiato mille case, dopo l’esilio dalla Spagna, tra Roma, Argentina, New York, etc. etc.), o a James Joyce (che scrisse il suo Ulysses – come esplicita lui stesso, in calce all’ultima pagina del suo capolavoro – tra Dublino, Parigi e Trieste)…

Penso e rifletto a quante case ho già cambiato nel corso dei miei (attuali) 34 anni di vita vissuta… Eccezion fatta per la casa dei miei (quella del piccolo paese ridente sui monti abruzzesi citato anche a destra, sulla colonna del profilo), la casa, cioè, dove i miei hanno scelto di vivere insieme per nutrirmi, e farmi crescere, ed educarmi, ho cambiato almeno 10 diverse case, alcune abitate e cambiate all’interno della stessa città (3 a Firenze, ad es., e 4 a Madrid): ho vissuto a Roma, vicino alla Stazione Termini; a Pisa, vicino all’aeroporto “Galileo Galilei”, e poi, in un’altra casa, più grande e confortevole, a due passi dalla stazione; a Firenze (vicino allo stadio, la prima, poi a Via de’ Serragli, in pieno centro e dietro i Giardini di Boboli, la seconda; la terza e ultima, invece, si trovava nei pressi delle Cascine); a Madrid (una vicino alla stazione dei treni di Atocha – quella, per intenderci, degli attentati terroristici –, e una nei pressi di Ortega y Gasset, in zona residenziale; un’altra ancora nel quartiere più periferico di Legazpi e l’ultima, bellissima e spaziosa, nel quartiere di Chamberí). Ora vivo nel sud, in una piccola cittadina a due passi da Salerno. La casa in cui sto – temporaneamente, che è come ormai mi sono abituato ad abitare nelle case – è una piccola mansarda, un attico, una specie di sotto-tetto. E’ piccola, ma c’è tutto: una grande stanza che funge da salone e da camera da letto, con letto a due piazze comodissimo (comprato, ovviamente, all’Ikea); c’è anche un tavolino con 2 sedie per mangiare e studiare; e un piano di lavoro più grosso e ampio su cui lasciare i libri e gli appunti, le fotocopie e i documenti vari che mi porto dietro da anni, oltre alla radio e al computer; e poi, sulla destra, c’è un cucinino, con mattonelle in vista colorate e molto chic; e infine, un bagno, con lo spazio sufficiente ad ospitare una lavatrice e con la porta a soffietto, in perfetto stile da film western, mentre la doccia è a sinistra, appena si apre la porta, nella sala grande e nel punto in cui il tetto è più alto (la casa tende a scendere, ad abbassarsi, in corrispondenza matematica e geometrica con la linea del tetto).
L’unico neo è che è poco luminosa. Ci sono solo due finestre, costruite o ricavate direttamente dal tetto, per cui la luce passa, ma non in grandi quantità; se mi affaccio, la mia testa finisce direttamente sul tetto; da lì potrei vedere cosa combinano i vicini, quelli che hanno il balcone o la terrazza agli ultimissimi piani, o beccarmi la cacata volante di qualche piccione in missione tra le nubi.
Non oso immaginare come diventerà la casa d’estate: se ora ci si sta bene e un po’ come in un frigorifero a grandezza naturale, e a misura d’uomo, d’estate, col caldo, questa soffitta deve trasformarsi in una sauna. Ma non mi lamento. Qui ho tutto quello che mi serve: pace, silenzio, tranquillità, e libri, i miei libri, i tanti libri che mi hanno seguito fedeli nel corso degli anni e dei vari, molteplici traslochi…

E’ chiaro che quassù non viene nessuno da giù: fino al quarto piano sì, c’è un avvocato che sale le scale e a volte rincasa con le amiche e fa un po’ di rumore; ma dal quarto piano in su, ci sono soltanto le scale che portano alle altre mansarde; io sono il solo a viverci in pianta stabile… mentre per le capatine volanti, beh, sì, purtroppo qualcuno c’è: sono due ragazzetti che fanno i deejay e che approfittano del loro attico – proprio dirimpetto al mio – per fare le prove, e divertirsi col loro mixer mandando la musica dance e underground a tutto volume…

Non mi danno fastidio, quando non studio o non lavoro o non sto dormendo o non sono da solo (e in dolce compagnia). E le volte che hanno sbagliato orario, ho loro fatto gentilmente notare che sarebbe stato meglio abbassare un po’ il volume. Però io amo la musica da discoteca; a volte, mi sembra di essere in pista, anche mentre mi sto facendo la doccia o sto cuocendo due uova alla coque. Certe volte mi tremano i piatti, per la potenza dei watt. Ma sono giovani e li capisco. E me ne sto chiuso dentro casa a ballare al ritmo della loro musica.


Tornando a bomba: quante case possiamo abitare nel corso di una vita? E quale sarà quella definitiva? Cos’è che la renderà tale, cioè, che renderà ultima l’ultima casa che abiteremo? Chi ci sarà con noi dentro quella futura casa? In quanti staremo? Ci saranno anche dei figli? E ci saranno anche animali domestici, come gatti o cani? Ci sarà l’acquaio per i pesciolini rossi? O saremo solo noi? Noi e i nostri libri e le nostre cose più preziose e le nostre foto delle persone più care? Quante case posso ancora abitare?

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