Kamera Obskura, ovvero, Laughter in
the Dark, ovvero, l’arte di Vladimir Nabokov nel raccontare la cecità (e i
danni collaterali di quella strana malattia degli occhi e della mente che va
sotto il nome di “amore”).
Kamera Obskura, così s’intitolava nel 1935
il libro che poi in italiano è stato tradotto come Una risata nel buio; nel 1938 il Nostro ci ripensa e lo ribattezza Laughter in the Dark, come a voler
sottolineare, oltre all’elemento “ottico”, anche quello “comico”, o meglio
ancora, “tragicomico” della storia (intanto, cambia anche l’incipit e altri
pezzi, per l’allegria – si fa per dire – dell’editore): il fatto, cioè, che la
cecità che colpisce il protagonista fa scaturire una serie di scenette
familiari comiche, ma anche spaventose, risibili, ma anche perturbanti,
umoristiche, ma anche scioccanti…come se ci trovassimo al contempo dentro un
film di Buster Keaton (l’uomo che non rideva mai) e uno di Alfred Hitchcok… E
dunque veniamo al dunque, ovvero, alla trama di questo romanzo che, seppur non tra
i migliori del Nostro, è certamente uno spasso, un grandissimo romanzo, un
godibilissimo libro, una vera manna dal cielo per gli amanti della Letteratura
(Nabokov mi avrebbe certamente mandato a quel paese per l’uso della maiuscola,
ma tant’è – scusa, Vladimir, noi si fa i retorici, porta pazienza, comprendici).
La
trama è quella tipica, classica, già vista mille volte in tv o al cinema che
vede al centro dell’azione un uomo sposato, ricco, un borghese altolocato che –
imprevisti della sorte, scherzi del destino – s’innamora improvvisamente (ma
pure “improvvidamente”) di una ragazzina, una sedicenne che lavora in un cinema
(la settima arte ha un’importanza fondamentale all’interno di tutta l’opera, e
così pure il linguaggio cinematografico e gli elementi visivi, quelli che
girano, appunto, attorno all’occhio, all’atto del vedere, all’ottica, alla
“camera oscura” di cui sopra). La ragazzina viene da una famiglia povera e
disagiata e - da quel che ci racconta il narratore esterno e onnisciente e in
terza persona singolare (un narratore che sa veramente tutto di tutti, anche un
po’ troppo pettegolo, un fine poeta, quando vuole, e un astutissimo stratega,
quando vuole farci commuovere, o convincerci d’un ritratto o sorprenderci con
una descrizione inaspettata) - ne ha già passate di tutti i colori. E proprio
per questo, fiuta l’occasione giusta per rifarsi una vita: accetta di uscire
con Albinus (così si chiama il nostro anti-eroe borghese) e di farsi “regalare”
un appartamentino per i loro incontri amorosi. Solo che la moglie di lui, anche
grazie all’intervento del fratello, scopre una lettera in cui Margot (così si chiama la nostra eroina erotica) si
fa beccare in tutto il suo splendore (e la sua falsa passione per il nuovo
amante). A complicare le cose, ci si mette di mezzo anche Rex, un antico amore
di Margot, uno specialista d’arte e di disegno pubblicitario che è
l’incarnazione del cinico perfetto, e la morte di Irma, la piccola figlia di
Albinus ed Elizabeth (questo il nome della legittima sposa). Ecco, il quadro è
quasi completo: dobbiamo solo aggiungere che il tutto si svolge a Berlino,
anche se poi, con l’arrivo dagli USA di Rex, l’azione si sposta via via verso
la Francia, la Svizzera e poi l’Italia…
Insomma,
Nabokov prende ispirazione da una tipica storiella di amore frustrato e
passionale per costruire una trama con al centro il tipico triangolo erotico
composto da LUI (Albinus) LEI (Margot) e L’ALTRO (Rex).
E
però stiamo parlando della Letteratura con la “L” maiuscola, sicché, tutto è
molto più complicato e affascinante di quanto sembri a prima vista; e con il
termine “vista” tocchiamo il punto algido di questo meccanismo narrativo che va
in crescendo, fino al climax finale; dopo aver finalmente capito che Rex gli
sta attaccato alle calcagna per amore di Margot e perché, fondamentalmente,
grazie a lei sta progettando di prosciugargli il conto in banca, Albinus si
arrabbia, afferra una pistola e minaccia l’amante. Questa riesce a calmarlo, ma
Albinus non sopporta le corna, non accetta nemmeno l’idea (l’ombra) di un
tradimento da parte sua dopo quello che è successo con Elizabeth e così, dopo
aver riposto l’arma, parte sgommando alla volta di San Remo (lasciando Rex da
solo in un hotel). E’ proprio durante la fuga da Rex che un incidente
automobilistico rende Albinus cieco e Margot può tranquillamente continuare a
stargli vicino, con in più la compagnia “occulta” del socio in affari. Ecco,
sono queste le scene più assurde, atroci, divertenti, grottesche, surreali di
tutto il libro: le scene in cui Margot e Rex si fanno le linguacce, si baciano,
si toccano, si carezzano, in presenza del povero cieco che sospetta, ma non sa
con certezza chi è quell’ombra, quel fantasma, quell’alito che gli passa
accanto…
Sono
pagine che tengono il lettore attaccato al testo; sono pagine dense che fanno
ovviamente pensare a Lolita e alla
gelosia assurda che attanaglierà l’animo di Humbert Humbert in quello che è
(davvero) il capolavoro di Nabokov (Margot è, effettivamente, una Lolita ante-litteram); sono pagine che creano
una tensione altissima, una suspense degna (appunto) di un Alfred Hitchcock.
Sono pagine, infine, che ci mostrano come per Nabokov l’amore sia davvero
sinonimo di cecità (della mente), ovvero, di malattia che parte dagli occhi
(l’innamorato non sa vedere la realtà o il corpo esterni che ha di fronte con
obiettività e razionalità) e che poi si propaga al cervello (Albinus fa
discorsi assurdi e non si rende conto – se non molto tempo dopo – del doppio
gioco dell’amante).
Era
tutto già scritto nell’incipit:
“C’era
una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a
Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per
un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore
dei modi” (p. 9 dell’ed. Adelphi del 2016).
Come
se si trattasse di una favoletta, Nabokov, sin da queste prime righe, è pronto
per trasportarci nel suo mondo; un mondo in cui si posso leggere chicche come
questa:
“Si
sedette davanti allo specchio (gli specchi avevano un sacco da fare quel
giorno) […] (id., p. 50)
O
come questa:
“Irma
osservò i peli bianchi che spuntavano dal grande e complicato orecchio del
dottore e la vena a forma di W sulla tempia rosea” (id., p. 124).
O
come questa:
“Quel
futuro gli apparve come uno di quei lunghi, polverosi, scuri corridoi in cui si
può trovare una cassetta inchiodata al muro o una carrozzina per bambini vuota”
(id., p. 139).
Letteratura
con la “L” maiuscola (scusaci di nuovo, Vladimir), scrittura dotata di uno
stile inimitabile, ritmo per l’udito di chi sa riconoscere questo stile che
cattura sin dalle prime righe. Nabokov allo stato puro, insomma. Leggete Una risata nel buio. Non ci dormirete la
notte.
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