sábado, noviembre 28, 2009

Abbracci d'oltretomba



Sono sempre stato attratto, sin dai tempi del liceo, dalle scene d'incontro dei vivi con i morti nel mondo dell'al di là. Uno dei primi episodi risale in realtà alle medie e riguarda il Libro XI dell'Odissea, quando, seguendo il consiglio della maga Circe, Ulisse scende nell'Erebo (il regno di Ade, dove riposano o vagano i morti - non si capisce mai se in effetti lì sotto ci si riposi o si vaghi, come in una condanna di Sisifo) per ascoltare la profezia di Tiresia, il cieco che gli predirà il futuro ritorno a Ilio, dalla moglie Penelope e il figlio Telemaco.

E' uno dei capitoli più belli e, dal punto di vista emozionale, più "struggenti" di tutto il poema. L'atmosfera è cupa, l'Erebo si trova ai confini del mondo conosciuto, per l'esattezza, lì dove finisce l'Oceano. Il luogo è contraddistinto dal buio e dalla nebbia: Ulisse ci dice che su quel popolo "i raggi del sole non discendono mai". Sono eternamente avvolti nell'oscurità. Per parlare con Tiresia deve seguire le istruzioni che Circe gli ha precedentemente dato e sacrificare degli animali. Le anime dei defunti verranno subito attirate dall'odore del sangue, ma Ulisse dovrà tenerle alla larga con la spada e la lancia per fare in modo che il primo a nutrirsene sia proprio Tiresia. Tra i morti, quelli che più spaventano Ulisse sono i vecchi, i bambini e le fanciulle morti di morte violenta. A un certo punto, vede anche "molti, squarciati dall'aste punta di bronzo, guerrieri uccisi in battaglia, con l'armi sporche di sangue". Fino a quando non fa l'incontro più insperato: Ulisse s'imbatte nell'anima della madre, che sembra non riconoscere il figlio. Di fatto, sarà solo dopo il discorso di Tiresia che Ulisse potrà far avvicinare la madre al sangue versato in sacrificio e questa lo riconoscerà.

Quali sono le prime parole che pronuncia? Quelle di una madre apprensiva nei confronti del figlio: "Creatura mia, come venisti sotto l'ombra nebbiosa vivo?". E' logico: una madre si spaventa a vedere il figlio ancora in vita nel regno dei morti. Subito dopo, però, cambia argomento e gli chiede se è già tornato a casa, a Ilio, dalla moglie e dal figlio, o se ancora è in balia del mare e degli dei. Ulisse risponde con una serie di domande: è lui quello più curioso, vuol sapere come e di cosa è morta; lei, che è nel regno di Ade e che perciò conosce il destino dei vivi, può dirgli se suo padre è ancora in vita e se Penelope pensa a lui come al suo sposo legittimo; se il figlio non l'ha tradito a favore dei Proci. La madre risponde, dando informazioni esaurienti, fino a quando non arriva a parlare di sé e della sua dipartita: "Così anch'io mi sono sfinita e ho seguito il destino; / no, non in casa la dea occhio acuto, urlatrice / con le sue miti frecce venne a uccidermi, / non male mi colse, che terribilmente / con odioso languore del corpo distrugge la vita, / ma il rimpianto di te, il tormento per te, splendido Odisseo, / l'amore per te m'ha strappato la vita dolcezza di miele" (vv. 197-203 del Libro XI, p. 303 dell'ed. Einaudi a cura di Rosa Calzecchi Onesti).

Fermiamoci qui un momento: proviamo a immaginare come si sarà sentito il figlio nei confronti della madre in quella sorta di rivelazione post-mortem. La madre è morta per il troppo dolore causato dalla perdita del figlio. Lo amava tanto che non saperne più la sorte l'ha uccisa. Come reagisce Ulisse? Come avrebbe reagito ciascuno di noi... prova ad abbracciare l'anima della madre morta:

"Così parlava: e io volevo - e in cuore l'andavo agitando - / stringere l'anima della madre mia morta. / E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava a abbracciarla; / tre volte dalle mie mani, all'ombra simile o al sogno, / volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, / e a lei rivolto parole fugaci dicevo: / 'Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, / che anche nell'Ade, buttandoci al collo le braccia, / tutti e due ci saziamo di gelido pianto?' " (vv. 204-213). Anche questa è una reazione logica (o verosimile): perché, chiede il vivo al morto, non possiamo unirci in un abbraccio materno-filiale? Cosa c'è di male? Quale dio impedisce loro di riabbracciarsi?

Fermiamoci ancora una volta a riflettere: Ulisse prova per tre volte ad abbracciare la madre e questa per tre volte svanisce nell'aria, tra le sue braccia protese nel tipico gesto d'affetto tra madre e figlio. La madre gli svela una triste e dura verità: "questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: / i nervi non reggono più l'ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante / li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita; / e l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando" (vv. 217-222).

Sembra di leggere Shakespeare: l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando dal corpo. Diventa un fantasma, o una pura apparenza. Non ci sono più carne né sangue né nervi. Ecco perché i due, nel regno di Ade, non possono toccarsi né potranno mai più abbracciarsi...

Qualche secolo dopo Omero (e dopo Shakespeare, che pure ha descritto scene d'incontri tra vivi e morti - pensiamo anche al prologo di Hamlet, quando Amleto figlio incontra all'improvviso il fantasma di Amleto padre e questi lo mette al corrente della morte violenta patita per mano del fratello e chiede giusta vendetta), il poeta inglese (e cieco come Tiresia) John Milton - quello non a caso del Paradise Lost - scrive un componimento, un sonetto, per l'esattezza, in onore di Catherine, la seconda moglie sposata nel 1656, quando egli aveva già perso la vista e di cui comunque ricordava i tratti fisici a memoria.

Nel sonetto XXIII, intitolato come il primo verso "Methougt I saw my Late Espoused Saint", Milton immagina di rivedere (con i propri occhi sanati, oltre che con l'occhio della mente) sua moglie Catherine vestita da sposa e immersa in una luce di purezza assoluta. Il poeta torna a sperimentare la dolcezza, l'intimità, l'amore che ha provato in terra quando lei era viva; la crede per un attimo viva e fatta di carne ed ossa; lei sembra protendersi verso di lui, ma (dolore degli ultimi due versi): "But Oh! as to embrace me she inclin'd / I wak'd, she fled, and day brought back my night". Esistono versi più crudelmente struggenti di questi? "Ma, ahimè, nel momento in cui lei stava inclinandosi per abbracciarmi, / mi svegliai, lei scomparve e il giorno mi restituì la mia notte", potremmo tradurre; o: "il giorno mi riportò indietro la notte", "mi riconsegnò alla mia notte"; la notte cui è condannato per la cecità che l'aveva colpito subito dopo i primi giorni di matrimonio...

Caos calmo non c'entra nulla né con Omero né con John Milton (inutile anche tentare paragoni); però l'ultima canzone del film, scritta per l'occasione da Ivano Fossati, sembra nutrirsi delle stesse sensazioni evocate sia dai versi di Omero che da quelli di Milton. Nel film (tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi) si parla di un marito che perde la moglie nello stesso momento in cui questi è impegnato a salvare una donna che non sa nuotare e che rischia di morire affogata in mare. Questo evento porterà l'uomo a una difficile "elaborazione del lutto", che avrà esito positivo solo grazie alla figlia di dieci anni che il padre si ostina a difendere dalla paura della morte aspettandola ogni giorno fuori da scuola.

La canzone di Fossati s'intitola L'amore trasparente e a un certo punto si ascolta questa frase, che diventa ritornello: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / mi sei apparsa in sogno e non hai fatto un passo". Facile ipotizzare chi sia questa donna apparsa in sogno all'uomo, se rapportiamo il testo della canzone al romanzo (e al film) che l'hanno ispirata. Gli stessi identici versi ritornano alla fine, quando Fossati aggiunge qualche frase in più, e a noi che ascoltiamo vengono i brividi, un'altro esempio di abbracci mancati, di baci impossibili, di incontri ravvicinati andati a male tra vivi e morti: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / ti ho dormito accanto e mi hai lasciato andare / sarà anche il gioco della vita ma che dolore / sarà anche il gioco della vita ma che dolore...".

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