sábado, marzo 06, 2010

INSEGNARE (qualcosa a qualcuno)

Diciamo che è da una settimana circa che, per motivi di lavoro, sono costretto (volente o nolente) a parlare in pubblico. Non avessi la voce, fossi afono, o restassi rauco, non potrei portare a casa la pagnotta (la voce come strumento di comunicazione centrale per gli esseri umani, ma anche – come in questo caso – mezzo di sostentamento fondamentale per chi, per lavoro, deve trasmettere il sapere – se poi si possa parlare davvero di “sapere”, o in che senso se ne possa parlare, beh, ai poster l’ardua sententia…). Diciamo che parlo a un pubblico eterogeneo composto da studenti che vanno dai 16 ai 23 anni d’età; e diciamo che se faccio la media viene fuori un numero preoccupante di ascoltatori, se ci penso a freddo: 40 persone al giorno, per 5 giorni alla settimana, per almeno altre 12 settimane….Brividi. Anche perché, voglio dire, nessuno sa quale potrà essere l’effetto delle sue parole una volta che queste giungono alle orecchie degli ascoltatori; ognuno ci vedrà quello che gli suggerirà la propria sensibilità personale, la propria attenzione del momento, la propria “enciclopedia personale”, come direbbe Umberto Eco. E, come sappiamo fin dall’infanzia, con le parole bisogna stare attenti; andarci cauti; procedere con prudenza. Le parole possono infiammare l’auditorio, scaldare le masse, invitarle alla rivoluzione, ma anche offendere, ferire, segnare per sempre…creare traumi che poi uno potrebbe portarsi dietro per tutta la vita. E allora provi a calibrare; a prendere la mira; a non spararle troppo grosse, anche se è davvero difficile centrare il bersaglio (troppe teste pensanti dentro la stessa aula; troppe soggettività da accordare a un unico concetto che tu provi a sviluppare nel modo più completo e corretto e logico possibile, ma tanto è inutile, perché c’è sempre quello che non prende bene gli appunti o si distrae e pensa alle nuvole, e guarda fuori della finestra, o distrae il vicino, chiacchiera e ti fa perdere il filo pure a te che stai in cattedra e parli e sentenzi e stabilisci dati e fatti e date storiche, provando a togliere dubbi e a ristabilire un minimo d’ordine nel marasma generale...che lavoraccio, insegnare!). E allora, ogni tanto, per smorzare la tensione fai qualche battuta spiritosa, provi a rompere il ghiaccio con l’ironia, misuri la validità del tuo atteggiamento e l’efficacia del feed-back dalle risate, come un comico che fa il suo numero davanti ad una platea esigente, e speri che faccia ridere, quella battuta, detta proprio in quel momento – è questione di ritmo e d’azzeccare i tempi giusti, guai a steccare o a dirla nel momento sbagliato – e speri intanto che questa non scandalizzi quelli più sensibili, non urti la sensibilità politica dei più, non risulti troppo rozza o troppo “politicamente scorretta”. E parli e provi a convincerli della validità delle cose che dici loro, ah, quanti punti in comune ha il docente con il prete che dice messa e fa la predica, tutti rinchiusi dentro le famose quattro mura, costretti a recitare la parte e a portare a termine il rituale giornaliero della lezione, tutti pronti a fare la loro parte, l’insegnante a rassicurarti, a dirti che va tutto bene, basta avere buona volontà (quanti uomini ci sono ancora dotati della cristiana “buona volontà” tanto citata nei Vangeli?), che con il sacrificio i risultati si ottengono, che bisogna lottare ma poi vedrai che alla fine ce la fai…la messa (la lezione) è finita, andate in pace, mi raccomando, ragazzi, occhio alle droghe (leggere e pesanti) e non state troppo tempo davanti alla tv, meglio internet, che almeno là c’è il rischio che v’imbattiate in qualche notizia interessante o in qualche definizione alla “wikipedia”… Ma l’insegnante (qualsiasi sia il livello di studi cui si dedica o di cui si occupa) è sempre anche una specie di deejay, uno che mette la musica da suonare a quell’ora, in quella circoscritta porzione temporale, davanti a quei ragazzi scalmanati che non vedono l’ora di ballare o, se non apprezzano, di scappare fuori, all’aria aperta, per fumarsi una sigaretta o parlare del più e del meno (altro che Dante o Colombo o la linguistica computazionale…). Al posto dei dischi, il prof. mixa i libri o i capitoli e i paragrafi dei libri che ha in programma, li “suona” (ovvero, li legge) come meglio può e come meglio sa, lasciandosi trasportare dall’ispirazione del momento, tentando di non farsi incastrare dal burocratese che – infingardo – è sempre pronto ad attaccare e ad attecchire, anche, sempre nascosto a ogni nota a piè di pagina, dietro a ogni circolare o ordine del giorno, dietro al registro o sotto la sedia, come un ladro in agguato. E mentre ascolti la bellissima canzone “Gone (going)” di Jack Johnson nella versione remix dei Black Eyed Peas, ti domandi: “Avrò fatto il mio dovere? L’avrò fatto al meglio? Sono stato chiaro? M’avranno capito? Si sarà offeso qualcuno per quella battuta su Federico Moccia?”. “Gone going gone everything gone everywhere”, riecheggiano i versi della canzone che ormai chi te la toglie più della testa, ormai è fatta, ormai siamo vicini a casa, manca poco per quel poco di riposo che ti tocca, dopo 12 ore passate in giro tra scuole e Università e aule varie di città e alunni e facce tutte diverse, che chissà poi se le ricorderai più, dopo tante ore di lezione e tanti interscambi di neuroni e tanti sorrisi o risate improvvise…

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