miércoles, noviembre 24, 2010

Un manoscritto interrotto


Il lettore del Don Chisciotte non sa – ad un primo approccio al testo – che la storia che sta leggendo s'interromperà improvvisamente alla fine del cap. 8. E ci resterà male o si sorprenderà molto, perché il manoscritto in cui sembra essere narrata la vicenda del folle idalgo si ferma – bloccando i personaggi in una sorta di fermo-immagine cinematografico, come scrisse bene Vladimir Nabokov – proprio nel momento di massima tensione narrativa e di maggiore e più esplicita suspense, e cioè: proprio quando Don Chisciotte è sul punto di scagliare la sua ira contro lo scudiero biscaglino che lo ha spinto a singolar tenzone perché si rifiuta di giurare che Dulcinea è la dama più bella che ci sia nell'Universo...

I due personaggi sono in procinto di ammazzarsi a vicenda e lì il narratore interviene per dirci che, proprio in quel brano, il manoscritto si blocca; non solo: il “secondo autore” interviene in terza persona singolare per dirci che non è possibile che non esista una continuazione dell'opera; è impossibile che non esista qualche altro “autore” che non abbia narrato le vicende del nostro cavaliere errante in qualche altro “manoscritto perduto”... E infatti: il cap. 9 inizia con l'anonimo “secondo autore” che – stavolta in prima persona – ci narra come - grazie ad un incrocio di fortunosi avvenimenti e del volere del cielo e della sorte - sia riuscito proprio a scovare un secondo manoscritto originale che ri-narra le vicende di Don Chisciotte proprio a partire da quell'interruzione o cesura improvvisa in coincidenza della fine del cap. 8. Chi dice “io”, stavolta, è Cervantes e solo ora, soltanto in questo momento, il lettore attento può intuire perché Cervantes si presenti sin dal Prologo del romanzo come “padrino” (o “patrigno” - qui “segundo autor”) e non come “padre” di Don Chisciotte: lui è solo uno che ha ritrovato i vari manoscritti dell'opera; è solo una sorta di editore dell'opera – uno che rimette insieme i pezzi del puzzle; essendo il “primo autore” (o autore autentico) l'arabo Cide Hamete Benengeli, “historiador arábigo” (storico arabo), l'autore della Historia de Don Quijote de la Mancha...

L'autore reale (Cervantes) si sdoppia, inventandosi un autore fittizio (Cide Hamete Benengeli) che viene fatto passare per l'autore “vero” e “originale” del manoscritto “originale” che contiene la storia del folle idalgo interrotta nell'altro manoscritto all'altezza del cap. 8. Non solo: Cervantes scopre che l'opera del presunto “primo autore” è scritta in arabo, per cui immagina di farla tradurre da un altro arabo, un giovane traduttore che conosce bene lo spagnolo, e che, per portare a termine l'impresa, si trasferisce a casa del “secondo autore” (Cervantes) e là la traduce in un mese e mezzo. L'opera che leggiamo, dunque, è frutto della traduzione dall'arabo allo spagnolo di un'opera scritta in arabo e rinvenuta (grazie alla buona sorte) da Cervantes stesso in un mercato di Toledo in cui si trovava a passare per puro caso...

Oltre che di metafinzione, qui possiamo davvero parlare di “letteratura al quadrato” (o al cubo) in cui i giochi di specchi che si stabiliscono tra le varie voci narranti si complicano ulteriormente quando sembra che Cervantes non sia disposto a dare amplio credito a Cide Hamete Benengeli perché – dice – è arabo e, come tutti gli arabi (per gli spagnoli del tempo), è un “bugiardo” o tendenzialmente incline alla “menzogna”... E che dire del traduttore? Non solo anche lui è un arabo, ma, quando va a casa dell'autore reale (Cervantes) ricopre il ruolo del traduttore e si sa che tradurre è anche sempre un po' tradire il testo originale, il testo di partenza... (non conto i casi in cui è lo stesso Don Chisciotte a proiettare le sue avventure verso il piano del futuro e immagina – egli stesso – cosa scriverà il futuro scrittore, nonché autore, del romanzo che canterà le sue imprese cavalleresche)...

Vengono subito in mente le riflessioni che fa Michel Foucault sul quadro Las meninas di Velázquez; ed è inevitabile ricordare qui la tecnica narrativa che sfrutta spesso Borges nei suoi racconti; così come è quasi impossibile non evocare tutta quella serie di opere “meta-letterarie” in cui l'autore usa la mise en abyme per creare una distanza tra sé e l'opera e per presentare l'opera letteraria stessa come frutto di una specie di “giochi di specchi” o di “racconti a scatola cinese” che potrebbero proseguire all'infinito...

Ma una cosa su cui non sempre si riflette è che, quando poi, finalmente, verso la fine del cap. 9, torniamo a leggere del duello tra Don Chisciotte e il biscaglino e scopriamo finalmente come finisce la storia, non possiamo non domandarci come sarebbe stato il manoscritto di Cide Hamete Benengeli – fosse esistito e Cervantes o chi per lui l'avesse rinvenuto – dal cap. 1 al cap. 8 del manoscritto stesso... Questo per dire che il Don Chisciotte e il biscaglino che stanno per ammazzarsi a suon di spade alla fine del cap. 8 del primo manoscritto anonimo ed edito da Cervantes (quello di cui non sappiamo chi sia l'autore reale) resteranno per sempre “altri” dal Don Chisciotte e dal biscaglino di cui vediamo la lotta sul finire del cap. 9 del manoscritto di Cide Hamete Benengeli... Ovvero: il Don Chisciotte e il biscaglino del primo manoscritto anonimo sono ancora là, con le spade levate in aria, e sono condannati a restare per sempre così, in quella scomoda posizione di ira trattenuta, pronta a scattare e ad esplodere con la forza che le braccia trasmettono alle rispettive spade. Le spade di quei due personaggi sono ancora levate in aria, nel punto di massima suspense e di maggiore tensione narrativa...

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