martes, diciembre 29, 2009

Bouvard e Pécuchet, di Gustave Flaubert: un libro di libri che non conclude

CLASSICI: si presume che si siano letti” (p. 273 dell’ed. Einaudi, Torino, 1996). Questa è soltanto una delle molte “idee comuni” raccolte nel Dictionnaire des idées reçues che segue al romanzo “impossibile” Bouvard et Pécuchet e il lettore si sente subito colto in fallo, sbeffeggiato, denudato davanti alla sua “banalità” di lettore di testi classici. E se è vero che Bouvard et Pécuchet lo è, è pur vero che noi contemporanei, in quanto lettori di questo “classico” ci troviamo ancora (sempre di più) spaesati perché non sappiamo proprio da che parte pigliarlo, come inquadralo, che senso trovargli.

La trama: due copisti s’incontrano un giorno per caso e fanno amicizia. L’uno lavora in una ditta di commercio, l’altro al Ministero. Entrambi si piacciono subito, trovano immediatamente idee e principi che li accomunano. Geniale la descrizione dei primi momenti della nascita di questa amicizia (come Don Quijote così pure Bouvard e Pécuchet: il fascino di questi capolavori sta anche nel modo in cui il tema “romanzesco” dell’amicizia tra i due protagonisti diventi un elemento trainante che cambia sia la trama sia i loro rispettivi caratteri):

Mai a corto di argomenti, i due seguitavano a intrattenersi insieme; alle osservazioni seguivano gli aneddoti, alle considerazioni filosofiche i punti di vista personali. Vilipesero il genio civile, la manifattura tabacchi, il commercio, i teatri, la marina, l’intero genere umano, col risentimento di chi ha patito amare delusioni. Ognuno, ascoltando l’altro, riscopriva qualcosa di sé che aveva scordato. […] Più volte s’erano alzati da sedere, avevano fatto insieme la strada dalla diga chiusa a monte a quella a valle, erano tornati a sedersi: col proposito ogni volta di separarsi, ma senza mai risolvervisi, come prigionieri di un incantesimo” (p. 5).

E’ l’incantesimo dell’amicizia che, da questo momento in poi, li legherà fino a prendere la decisione della loro vita: basta vita di città, grazie al denaro ricevuto inaspettatamente in eredità da Bouvard, i due lasceranno Parigi e andranno a vivere in una bella casa in aperta campagna col proposito di dedicarsi all’agricoltura e al loro benessere fisico e mentale. Ma c’è di più: hanno in mente di dedicarsi allo studio come mai prima d’allora sono riusciti a fare per via dei loro rispettivi lavori. E qui la faccenda si complica: perché si da il caso che sia Bouvard che l’amico Pécuchet sono due tipi piuttosto impulsivi e onnivori. Quando decidono di studiare una materia, se la sorbiscono fino in fondo; leggono tutto d’agricoltura, pur non essendo mai stati prima dei contadini. Poi s’appasionano d’astronomia. E cominciano a spendere soldi per avere il miglior telescopio. Poi di geologia: e riducono la casa a un museo di fossili e pietre antiche, scavando lo scavabile nei dintorni della loro dimora. Poi di religione: e trasformano l’antico casolare in una specie di chiesa a cielo aperto, con croci e statue di San Pietro a fare da corredo.

Flaubert, a quanto lui stesso confessa in forma epistolare ad un collega (da quanto si evince dallo splendido saggio di Raymond Queneau annesso all’edizione Einaudi che maneggio – un saggio acuto, pieno di ironia, quasi sarcastico, nei confronti di Flaubert, eppure attento, penetrante, chiarificatore come pochi), lesse più di 1500 libri per “mimare” la “fame di sapere” dei due bonhommes protagonisti del romanzo. Italo Calvino lo ricorda (se non ricordo male) nel suo Lezioni americane, quando parla del valore della “molteplicità”. E questo è uno dei nodi del romanzo (anche se a questo punto chiamarlo solo “romanzo” può apparire non solo riduttivo, ma anche fuorviante): si snoda in molteplici direzioni, senza intraprenderne mai una in modo univoco e definitivo. Bouvard e Pécuchet sono degli “umanisti folli”, per certi versi, perché credono ancora nell’abilità delle parole nello spiegare il mondo che abbiamo davanti agli occhi, ma al contempo si accorgono del fatto che nessun libro potrà mai insegnare come si fa a coltivare quel determinato tipo di pianta; nessun articolo di medicina potrà dirci la verità ultima sul funzionamento della corteccia cerebrale; nessun prete riesce a convincerli delle verità religiose contenute all’interno della Bibbia e nessuna religione riesce a convincerli del dogma che professa…

L’affanno ulissiaco di conoscenza permette allo stesso Queneau di definire Bouvard et Pécuchet come una sorta di Odissea moderna. I due protagonisti (che a me ricordano molto da vicino Don Chisciotte e Sancio Panza) si mettono in viaggio nell’oceano immenso e pericoloso (perché privo di confini) dello scibile umano, ma non approdano a nessuna Itaca. Gli altri li snobbano; o addirittura li minacciano di azioni legali. Mentre loro due sono spacciati: non potranno più sopportare la visione (o l’ascolto) della stupidità umana. Il loro prossimo, impegnativo progetto sarà quello di stilare una specie di dizionario dei luoghi comuni; per smascherare la stupidità del genere cui (malgré eux) appartengono e per passare il tempo che gli resta da vivere (in quella casa che è stata museo archeologico, chiesa, fattoria, sala di mostre d’arte contemporanea, sala di consiglio, e così via – sarebbe interessante studiare sia lo spazio che il tempo in un romanzo in cui la percezione sia dello spazio che del tempo cambia in relazione al cambiare dell’atteggiamento “filosofico” e “investigativo” dei due protagonisti: sembra quasi che più i due studiano e più diventano ignoranti e più tendono a modificare lo spazio che li circonda – rendendolo più malleabile – e il tempo che passano insieme – un tempo che più li vede invecchiare e più li vede farsi “giovani” di spirito; la curiosità di Bouvard e Pécuchet è ciò che non li fa invecchiare e, anzi, li spinge a osservare con occhi sempre attenti e giovani le fette di realtà su cui la loro curiosità sempre viva fa poggiare i loro sguardi).

Un romanzo “onnivoro”, dunque, questo romanzo postumo (e inconcluso) di Flaubert; un romanzo sul Tutto che finisce col coincidere col Nulla. Un romanzo sul niente. Perché il Tutto è pieno di contraddizioni e non si riesce a trovare la strada che ci potrebbe condurre alla Verità (è per questo motivo che parliamo di un "libro che non conclude": perché proprio non può concludere; né rientra nelle facoltà (e tantomeno nel progetto) di Flaubert il concluderlo. Da un lato, dunque, giusto destino, quello di un libro che non conclude (e viene pubblicato postumo) perché non ne esiste un finale né potrebbe esisterne. E strano destino, dall'altro lato, quello di questi due poveri cristi: studiare, leggere tanto e di tutto, con la vaga speranza di arrivare a capire qualcosa del mondo infinito che li circonda; accorgersi, poi, che nessun libro al mondo potrà mai dire l’ultima parola su nulla, perché è tutto molto più complicato di quanto appare. Non ci resta che il già citato Dizionario dei luoghi comuni: un’enciclopedia del sapere all’incontrario (che Jorge Luis Borges dovette trovare molto divertente; o quantomeno interessante, un pezzo prezioso da riporre all’interno della sua ipotetica Biblioteca di Babele):

QUADRATURA DEL CERCHIO: Non si sa cos’è, ma quando se ne parla, un’alzatina di spalle ci sta bene.

POESIA (LA): Del tutto inutile. Fuori moda.

TEMPO: Eterno argomento di conversazione. Lamentarsene sempre. Causa universale di malattie.

ITALIANI: Tutti musicisti. Traditori.

LIBRO: Qualunque esso sia, sempre troppo lungo.

LETTERATURA: Occupazione di oziosi… (infatti).

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