martes, diciembre 08, 2009

Idiossea: "Heart of darkness: a Filmaker's Apocalypse" di Fax Bahr e George Hickenlooper (grazie al materiale inedito di Eleanor Coppola), USA, 1991




Dopo tanti anni ho rivisto questa sorta di documentario su uno dei film più "titanici" e "mastodontici" della storia del cinema (in rapporto ai soldi spesi per girarlo e al numero di giornate di riprese spese prima di arrivare al montaggio finale): mi riferisco a uno dei miei film preferiti (se non "il preferito" in assoluto), Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola (USA, 1979).

Il documentario è in gran parte montato sul materiale che la moglie di Coppola, Eleanor, girò su incarico del marito durante i quasi 4 anni che lo videro impegnato nelle Filippine, scelte come set ideale in cui ricreare il paesaggio del Vietnam che fa da sfondo alla vicenda. Il resto è composto dalle interviste che i due registi succitati fanno ai protagonisti di allora (gli attori che, seguendo gli ordini di Coppola, finiscono per vivere anche loro una specie di "apocalisse" interiore).

Ma, prima di parlare del documentario, poniamoci la domanda principale: cos'è davvero Apocalypse Now?

"Apocalypse Now non è un film sul Vietnam: è il Vietnam". Non ricordo dove lessi questa frase (forse nel capitolo che Antonio Costa, nel suo utile e ben scritto Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura (Torino, UTET, 1993), dedica all'analisi comparativa del romanzo conradiano e del film di Coppola). E per certi versi è vero, e il documentario (intitolato in italiano in modo poco fedele ma ben più evocativo: Viaggio all'inferno) sta a dimostrare in parte la validità di tale assioma. Ma in che senso è il Vietnam?

Scopo dichiarato di Coppola era approfittare dei milioni di dollari guadagnati con il primo capitolo de Il padrino per realizzare un progetto cui pensava da tempo: parlare della guerra che l'America aveva da poco combattuto in Vietnam (con le conseguenze disastrose che conosciamo e che la Storia sta lì a ricordarci) partendo dal romanzo Heart of Darkness dello scrittore polacco, naturalizzato inglese, Joseph Conrad. In realtà, il film prende spunto da Conrad per espandersi in molteplici direzioni diverse che consentono un'interpretazione "multiprospettica" della trama. Tanto è così che, come lo stesso Coppola confessa alla moglie in una scena piuttosto "schizzata" in cui appare letteralmente in mutande e davanti alla sua fedele macchina da scrivere, il film si trasforma negli anni in una specie di nuova Odissea (o in una ri-lettura postmoderna della stessa).

Gli elementi che fanno del film un'odissea sono facili da dedurre per tutti coloro che hanno visto (e apprezzato) il film: il capitano Wilard (Martin Sheen) deve risalire un fiume della Cambogia che lo porterà nel "cuore di tenebra" del Vietnam per portare a termine una missione speciale diretta dai servizi segreti americani: uccidere il generale Kurtz (Marlon Brando), un berretto verde che ha intrapreso una strana guerra personale, massacrato un numero imprecisato di vietcong, e fondato una sorta di regno di cui è il capo assoluto (oltre che temuto e venerato).

L'intero viaggio di Wilard, quindi, si presenta come una specie di "anabasi" o "discesa agli Inferi", durante la quale dovrà fare i conti con i molti ostacoli che, novello Ulisse, è chiamato a superare.

Accanto alla trama "omerica", però, Coppola costruisce una trama "ideologica" per tentare di spiegare cos'è stato il Vietnam: non solo una guerra, ma anche uno spettacolo (e si sa che gli americani "dovunque vadano, spettacolarizzano tutto" - come confessa George Lucas in una delle interviste del documentario), una sorta di "messa in scena" folle e priva di senso.

Ecco allora come le conigliette di Playboy sbarcate con gli elicotteri in una base americana diventano il "correlativo oggettivo" (per dirla con T.S. Eliot) delle Sirene omeriche; e come il capitano Kilgore (quel pazzo che pretende di fare surf cavalcando le onde in mezzo ai bombardamenti aerei) svolga il ruolo di una sorta di Polifemo privo di ogni morale; Kurtz, seguendo questa lettura, sarebbe una specie di Zeus incazzato, una sorta di divinità assoluta in crisi d'identità e in cerca di un nemico vero da abbattere o ammirare...

La citazione da T.S. Eliot non è casuale: insieme a Conrad e a Omero, Coppola unisce anche il poeta americano naturalizzato inglese... Tutto il film, sin dalla primissima inquadratura (che vede in primo piano l'esplosione e l'incendio immediato di parte della giungla cambogiana, con, in sottofondo, la canzone dei Doors "This is the end"), intende presentarci il Vietnam come una "waste land" (anzi, come "la" terra desolata per eccellenza). E a nessuno saranno sfuggiti i versi che recita Marlon Brando-Kurtz nella scena in cui finalmente Wilard lo ha raggiunto e ne diventa prigioniero: "Siamo gli uomini morti, siamo gli uomini vuoti", tratti da un altro famoso poema di T.S. Eliot: The Hollow Men ("gli uomini vuoti", appunto, como sembrano "vuoti" i soldati americani che si trovano a vivere l'inferno della guerra).

Dunque, appare evidente che quella di Coppola vuole (o pretende) essere un'operazione culturale, oltre che cinematografica, attraverso cui parlare per immagini di quello che fu la guerra in Vietnam sia da un punto di vista morale che da un punto di vista simbolico, etico, ideologico. E appare evidente come il regista usi tutta la cultura (la letteratura, la musica, l'arte, il cinema stesso) che ha a sua disposizione per mettere in scena questo film-trattato o film-monumento su una delle sciagure più atroci cui possa dedicarsi l'uomo: l'arte della guerra; l'arte di ammazzare il prossimo...con o senza motivazioni reali o apparenti.

Ora, il punto è che, come ci mostra molto bene il documentario, il rischio che si corre è quello: a) della dispersione; b) del kitsch. Coppola li ha corsi entrambi, uscendo vincitore sia per una grossa dose di fortuna che per una gran forza di volontà.

Il documentario ci parla delle difficoltà che incontra sul suo cammino l'artista che pretende di plasmare il mondo dentro un unico film; o gli scogli che deve superare chi, credendosi egli stesso una specie di Kurtz (o di Dio super-partes), pretende di dirci la verità su un fatto tanto anomalo e complesso e disturbante come la guerra (per questo credo che molte scene del film siano immerse nella nebbia o nel fumo giallo del napalm: perché in realtà la tragedia del Vietnam, all'epoca in cui Coppola girò il film, era talmente troppo "grossa" e talmente "recente" che perfino per Coppola sarebbe stato impossibile girare un film "realistico" su quella tragedia, pur con tutta la buona volontà e coraggio d'artista e di intellettuale).

a) Dispersione: Coppola perde letteralmente alcuni pezzi del film, man mano che va avanti nella realizzazione dello stesso. Dopo i primi ciak, non è più contento di Harvey Keitel; lo sostituisce con Martin Sheen. A più della metà del film, Sheen ha un'infarto e per poco non ci rimette le penne. Gli elicotteri usati per girare le scene dei bombardamenti aerei sono elicotteri veri appartenenti all'esercito filippino impegnato a sedare una ribellione comunista nel Sud del paese, e più volte Coppola si vede costretto a girare di nuovo le stesse scene perché l'esercito gli ha "rubato" parte della scenografia. Un tornado manda in pezzi più set del film. Marlon Brando, ingrassato in eccesso per il ruolo che è chiamato a svolgere, fa lo schizzinoso e non vuole che lo si riprenda in figura intera, etc. etc.

b) Kitsch: Coppola non sa come finire il film. Non sa quale finale potrebbe essere quello più efficace e, di fatto, ne gira almeno 3 differenti. Il rischio da evitare è sia essere troppo didascalici sia essere troppo espliciti. Lo spettatore deve riflettere su quanto ha visto, ma senza schierarsi né dalla parte di Wilard né da quella di Kurtz. Solo così, il regista sente di poter fare un film "bello" che non scada nella "pacchianeria" (lo dice lui stesso nel documentario: "Il confine tra sublime e ridicolo è labilissimo, in questi casi"). E poi c'è la questione dell' "apocalisse" interiore. Tutti coloro che vengono coinvolti nelle riprese, chi più chi meno, finiscono con l'entrare in contatto con la loro parte più oscura e inquietante. La foto di sopra sintetizza bene questo status mentale: Coppola, in particolare, si gioca tutto nel film, anche perché, da un certo punto in poi, i soldi investiti nella produzione non sono più della United Artists, ma dello stesso regista, che finisce con l'ipotecarsi anche la casa e l'auto...

Insomma, Apocalypse Now è quel capolavoro che è anche perché lo stesso regista (e i collaboratori insieme a lui) vive e gira in modo estremo un film dalla trama estrema che sembra fare acqua da tutte le parti sia perché troppo dispersiva sia perché a volto troppo rasente quell'effetto kitsch che va assolutamente evitato...

"Il regista è uno dei pochi incarichi dittatoriali che restano in un mondo sempre più democratico", confessa un Coppola ingrassato e comodamente seduto su una sedia e sullo sfondo della sua mega-tenuta da milionario produttore di vini doc. E il documentario, in effetti, è divertente (e interessante) anche per questo: ci fa vedere in che modo deve lavorare un regista cinematografico di razza, una specie di dittatore da cui dipende la sorte di tutti gli altri (e del film, in primo luogo).

E quando vediamo Coppola accorrere alla prima del film non possiamo non essere d'accordo con lui: chi gira un film (sia esso eccelso o mediocre) deve prendersi la responsabilità sia del successo che del fallimento. E ci viene da tirare un sospiro di sollievo, quando una voce in off, sul finale del documentario, ci informa sui premi che il film ha vinto grazie al coraggio (artistico, economico e morale) di un regista che ci ha messo la faccia, i soldi e l'anima per poterci regalare un'opera d'arte destinata a restare tale nel tempo. Una vera e propria "Idiossea" (Idiot+Odissey), come la ribattezza ironicamente lo stesso Coppola, davanti alla sua povera macchina da scrivere, quando ancora non sa quale finale gli darà e se mai arriverà ad un finale unico e definitivo...

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