viernes, junio 05, 2009


Antonio Moresco canta, spaventa e trascina: Canti del caos (Parte Prima: “Prefazione”), ovvero come imparai a salvare la donna avvolta dentro la stagnola


Ci sono scrittori che, attraverso il loro peculiare uso del linguaggio, riescono ad ampliare la nostra (per forza di cose) limitata visione del mondo. E ci sono scrittori che, oltre che a permetterci di guardare il mondo da un nuovo, o insolito, o inusuale punto di vista, riescono anche a prospettarci un futuro apocalittico di cui cogliamo i segnali, ogni giorno, da tv e giornali, ma di cui continuiamo a ignorare cocciutamente la natura (la causa prima che lo sta generando, via via che passano gli anni, man mano che le ipotesi teoriche degli scienziati da ipotesi diventano certezze matematiche, verità difficili da sottacere). Si tratta di scrittori che con le parole, con il loro tono satirico e apocalittico, con il loro atteggiamento “catastrofista” e umoristico, non solo ri-creano il mondo, ma ne colgono anche le crisi profonde, sanno metterne in evidenza i punti più deboli, le parti più scricchiolanti, le zone a rischio dove tutto sembra (o potrebbe a breve) franare…


Penso ai brani più satirici dei Gulliver’s Travels di Jonathan Swift; ai brani più cruenti e (appunto) apocalittici dell’Inferno dantesco. Penso ai romanzi distopici più cupi di un Philip Dick o al classico 1984 di George Orwell… Ebbene, Antonio Moresco con Canti del caos (Milano, Mondadori, 2009) potrebbe essere ascritto a questa ipotetica tipologia di scrittori “apocalittici” e “satirici” appena abbozzata. Ma è poi possibile ascrivere a un qualche genere un autore come Moresco? E’ etichettabile un libro come Canti del caos?


Sono venuto a conoscenza dell’opera di Antonio Moresco grazie ad un amico dell’Università “La Sapienza” di Roma. Quell’amico mi aveva consigliato Gli esordi. Non ho mai raccolto quel consiglio. Sono sempre un po’ titubante quando si tratta di leggere autori italiani contemporanei. Poi leggo alcune pagine di Carla Benedetti, professoressa dell’Università di Pisa, autrice di due bellissimi saggi: Pasolini contro Calvino (Torino, Bollati Boringhieri, 1998) e L’ombra lunga dell’autore (Milano, Feltrinelli, 1999). Lì si cita più volte il nome di Moresco. Mi convinco che ne valga la pena. E così leggo la prima frase di questo romanzo-fiume, di questo tomo gigantesco di 1000 pagine e passa, che così comincia:


“Lettore irredento, se tu sei uno di quelli che aspettano ancora il capolavoro, ho qui per te uno scrittore altrettanto idiota che si è messo in testa di scrivere un capolavoro”.


Non so se sono un’idiota né se posso considerarmi un lettore irredento. Ma il libro mi ha già conquistato. Mi stuzzica. M’incuriosisce. Continuo a leggere e con gran lena mi accorgo di quale potrebbe (parrebbe) essere la trama di un romanzo come questo, un’opera-mondo (per dirla con Franco Moretti) che aspira alla “totalità” senza (mai) essere “totalitaria” (come Don Quijote, o come Cent’anni di solitudine, o come l’Ulisse, o come la Recherche… e alle mie orecchie quell’incipit non può non evocare la frase iniziale del capolavoro di Cervantes: “Desocupado lector” – che potremmo tradurre (anche) come “ozioso”, “sfaccendato”, “lettore che non ha nulla di meglio da fare” – c’entra l’ “irredento” di cui sopra? Chissà, forse sì, forse c’entra eccome…): ed eccola, questa presunta trama principale:


il Matto (ossia l’autore, lo scrittore in carne ed ossa), parla del suo progetto al Gatto (ossia al proprio editore). Il Matto mette in scena l’atto stesso della lettura narrandoci quello che ha scritto. Solo che il Gatto interviene - a volte maldestramente, altre sarcasticamente, come a voler smorzare la gravità di quanto si narra- a dare suggerimenti, cambiamenti di prospettiva che permettano di mantenere sempre alta l’attenzione del lettore potenziale del romanzo, e, quindi, per fare del libro che sta nascendo sotto i nostri occhi quel “capolavoro” che venderà milioni di copie e farà fruttare milioni di euro alla casa editrice…


Basta: mi fermo qui. E’ davvero difficile tentare anche solo di riassumere le altre mille trame secondarie che il Matto e il Gatto creeranno rimpallandosi la voce tra di loro, alternando i vari personaggi protagonisti, le molteplici voci che, questo sì, anche il lettore meno attento se ne accorge, prendono la parola per “cantare” la propria esistenza, o la propria avventura personale, in un vortice, o amalgama, che dà le vertigini. E, a tratti, provoca nausea.

Sì, perché Canti del caos è un romanzo che fa male; che colpisce perché ci mette sotto gli occhi realtà, fatti, personaggi davanti ai quali il nostro sguardo tenderebbe ad abbassarsi o a deviare rapidamente verso altre direzioni.


Uno su tutti: il mondo del porno estremo. Nessuno dei personaggi “cantanti” usa mai il neologismo inglese snuff movie: ma è a quello che ci si riferisce costantemente nel corso della narrazione. Set improvvisati e camuffati per girare scene di film hard nei quali le protagoniste femminili, alla fine, vengono uccise in diretta, davanti all’occhio neutro e freddo della cinepresa.

Accanto a questo, gli altri mondi “estremi” che sembrano avere manipolato le menti dei più: l’editoria che sforna solo best-sellers; le agenzie pubblicitarie che inventano mille trucchi per vendere anche il nulla; l’informatica che sta al servizio dell’intrattenimento, quella che sfrutta l’estro e la creatività degli ingegneri che s’inventano i videogiochi che i più piccoli useranno come fossero droghe leggere.


E poi il corpo: sviscerato, scandagliato, descritto fin nei suoi più minimi dettagli, visto in tutta la sua drammatica fragilità. Canti del caos è pieno di sangue, di feci, di sperma, di tutto quello che ci caratterizza in quanto “animali”. E già solo questo mettere in mostra quanto conteniamo, quanto ci portiamo dentro pur non essendone (sempre) coscienti (il cuore, il cervello, i muscoli, le ossa, le mucose, i genitali…) destabilizza, mette in crisi, ci porta verso quelle zone d’ombra che terremmo (sempre e volentieri) fuori dalla portata delle nostre riflessioni e della nostra ragione.


La prima domanda che potremmo porci allora è la seguente: perché Moresco struttura un romanzo di più di mille pagine intorno al corpo e ai suoi anfratti? La seconda, invece, potrebbe essere la seguente: come fa a rendere credibili (e perfino simpatici) personaggi come: il donatore di seme, il ginecologo spastico, la donna caudata, la Musa, la Principessa, la bambina col cane, la ragazza con l’assorbente, la donna amputata, l’art-director? Come ci riesce?

Sono arrivato alla fine della Prima Parte; mi restano ancora le altre due. La mia retina è ancora impressionata dalle imprese epiche che permettono al Matto di liberare la donna avvolta nella stagnola… Non so come finirà questa storia. Ma resto di sasso se torno su certe frasi che ho sottolineato a matita (per ricordarmele in futuro, quando rivedrò quell’amico che mi aveva consigliato Gli esordi):


“Mi sto pettinando il sangue” (p. 89).


“E come si fa a sbagliare una cosa nell’unico modo che ci permetterebbe di non sbagliare?” (p. 108).

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