martes, septiembre 30, 2025

 Lo stress di tutti i giorni

Sembra sia un fenomeno universale, che riguarda tutti, senza distinzione di genere, età, condizione sociale. Lo stress ci attanaglia, da quando ci si sveglia fino a quando si va a dormire (e chi soffre d'insonnia, a causa dello stress, non trova il ristoro della fase notturna, di quando, in teoria, ci si distacca dagli affanni mondani).

Lo stress coglie gli alunni che devono studiare per l'esame e i prof che devono fare lezione e preparare quegli stessi esami che poi dovranno valutare per dare un voto all'alunno. Lo stress è dei segretari che devono formalizzare l'iscrizione ai vari corsi degli studenti e del bidello che deve stare attento alle chiavi delle varie aule dell'Università; lo stress colpisce perfino il giardiniere, che deve mettere a puntino gli alberi dell'ingresso principale, e il vigilante che si preoccupa dei parcheggi e che nessuno rubi o distrugga le macchine di alunni e prof.

Lo stress è di mio fratello avvocato che, a Roma, non si ferma un secondo e dei carcerieri che lavoro a Rebibbia; dei carcerati che non sanno come accelelare il passo del tempo della condanna e dei poliziotti che li scortano a mensa o al cortile dove fanno sport o teatro.

Lo stress è di mia madre che non riesce a trovare il tempo per fare la spesa e di mio padre che, ormai in pensione, non sa come riempire il tempo in attesa della morte.

Lo stress è una malattia che colpisce tutti e da a tutti la sensazione di non avere tempo per fare nulla. La velocità del sistema in cui siamo immersi c'impedisce di andare piano, la lentezza non è una virtù elogiata in questo XXI secolo in cui ci tocca vivere e chi va piano viene visto con sospetto se cammina troppo lentamente in una strada del centro di una grande città. Tutto subito e ora, hic et nunc, senza pause, senza intervalli, senza intermezzi.

Penso a quanto sia importante, invece, la lentezza, sia per leggere che per contemplare un paesaggio, per contemplare il volto di una persona amata o per fare un viaggio in bici fuori dai circuiti prestabili e dall'ossessione della misurazione dello sforzo fisico applicato alla corsa. Penso a quei pochissimi ciclisti che vanno in giro senza GPS, senza contachilometri, senza nulla che quantifichi lo sforzo fatto coi pedali. Penso a Nietzsche, al prologo che scrisse al suo saggio Aurora, se non erro, dove si scusa per essere stato troppo lento a scrivere quello stesso prologo, ma d'altronde, i temi affrontati nel saggio implicano molto tempo, non si possono risolvere in pochi minuti.

Lo stress e il suo legame con la velocità, la rapidità, la fretta. Lo stress e il suo legame con la lentezza nel caso dei carcerati o di mio padre, che vive da carcerato in casa e non esce e non parla quasi più con nessuno. Lo stress e la salute mentale di un mondo al bordo della Terza Guerra Mondiale. Quanti motivi per essere (vivere?) stressati ci sono (sempre stati).

viernes, septiembre 26, 2025

 Venerdì 26 settembre


È venerdì 26 settembre del 2025. Pomeriggio, quasi sera. Il sole sta per tramontare sulla città del Sud della Sud della Spagna in cui vivo ed ho da poco ripreso la bici che mi accompagna nelle mie scorribande su per i monti e in mezzo alla Natura selvaggia dal meccanico italiano che vive qui da più di me.

Sono 200 euro di spesa: asse centrale, catena, guarnitura, freni e i copertoni di entrambe le ruote. Ho cambiato catena solo una volta, dopo aver fatto 7 mila chilometri. Oggi la bici ha totalizzato quasi 20 mila chilometri. Il meccanico mi sgrida come fossi un figlio discolo: "Ma non lo sai che la catena si cambia ogni 5 mila???". Chiedo venia, pago e provo la bici: non un rumore, non uno scatto o salto di catena, non un difetto di direzione. La pedalata è liscia, fluida, ordinata, come acqua sull'olio.

Intanto, penso a Giulia, alla sua morte, al saluto che non ho potuto mandarle per telefono, al vocale mandato e mai risposto, alle foto delle bimbe (a Giulia piaceva vedere come crescevano Giulia e Carmen, chissà se avrà visto queste ultime foto).

Il sole è ormai tramontato. È buio quasi e fa fresco anche qui. Quanti chilometri potrò ancora percorrere? Quante avventure potrò ancora vivere su questa bicicletta? Quanti libri ancora da leggere? E quanti articoli ancora da scrivere?

Una cara e intima amica mi confessa che, ultimamente (dalla morte di Giulia), mi nota più sensibile, più tenero, più...fragile. Le dico che forse ha ragione. E che è triste restare orfani di certe amiche, di amiche che sono anche state maestre di vita. È la vita, mi dice la mia amica giovane e bella. Va accettata così com'è. E come sarebbe bello questo tramonto se potessi vederlo insieme a lei...

sábado, agosto 23, 2025

 La ricreazione è finita (2023) di Dario Ferrari




Si può raccontare uno dei momenti più bui della Storia d'Italia come gli "Anni di piombo" con ironia? E, al contempo, si può fare la satira del mondo accademico senza scadere nel "panflet"? La risposta ad entrambe la domande è sì, se si legge il premiato (e forse troppo lungo) romanzo di Dario Ferrari, La ricreazione è finita (di 2 anni fa).

Spassosa la fenomenologia di come scrivere un buon articolo: (p. 66): "L'articolo è una trascurabile appendice delle sue note: solo gli sprovveduti credono il contrario" e questo perché (come sa chi fa questo mestiere e come sa chi ignora che "è così che va il mondo accademico"): (p. 64): "Nelle note si tessono le trame politiche, ovvero si inserisce il proprio scritto nella complessa rete della geopolitica accademica" (per non parlare del ritratto del "barone perfetto" o dell'eterno aspirante a un posto fisso tramite concorso).

Meno spassosa e certamente interessante la rappresentazione della mentalità e della psicologia dei potenziali terroristi anti-Stato e anti-fascisti, come a p. 330, dove uno dei giovani ribelli spiega "more geometrico" come si fa (o dovrebbe farsi) la rivoluzione: "Il sogno, se non lo nutri, si rattrappisce. E per nutrire il sogno c'è bisogno di farne una cosa. Bisogna reificarlo. Se non ci si assume la responsabilità della violenza, se non si accetta la possibilità di avere le mani sporche di sangue, il sogno è solo utopismo sterile, velleitarismo infantile".

Ecco: sono brani come questi che avvicinano il lettore del XXI secolo all'Italia degli anni 70. E a quegli ambienti giovanili (e, a volte, giovanilistici) in cui sono nate le Brigate Rosse o i gruppi extra-parlamentari che hanno creduto davvero in un ribaltamento delle prospettive, in un mondo migliore e in una lotta senza quartiere allo Stato ingiusto o che, in nome di una determinata politica, tende a schiacciare chi non ha voce, chi non si sente rappresentato, chi si vede continuamente umiliato dai meccanismi della politica e di chi comanda.

Curiosità (o coincidenze) della vita: Marcello, il dottorando per caso che dovrà svolgere le sue ricerche sull'ex-terrorista rosso e scrittore Tito Sella, si ritrova a vincere una borsa di studio presso l'Università di Pisa. Anch'io frequentai quell'Università, in un'altra vita, e non posso non ricordare Francesco Orlando e gli aneddoti che ci raccontava (con il suo stile elegante e la sua ironia sottile) attorno ai brigadisti che pullulavano in città, tra sospetti e leggende urbante, tra pettegolezzi e spiate alla polizia.

Può una valigia di esplosivo finire in una biblioteca come quella della Normale? Forse sì, all'epoca sì. La ricreazione finì come sanno tutti. Aldo Moro e ciò che seguì a quell'esecuzione è Storia Contemporanea della Repubblica d'Italia. Merito di Dario Ferrari e del suo alter-ego un po' disilluso e un po' cinico è quello di ri-avvicinarci a quella Storia che ancora ci riguarda. Da molto vicino.

lunes, agosto 18, 2025

 Il pane perduto di Edith Bruck



Pubblicato nel 2021, questo libro potrebbe assumere un valore etico ancora più dirompente se ne immaginassimo una lettura colletiva lunga la striscia di Gaza, tra palestinesi e israeliani, tra musulmani ed ebrei (soprattutto ebrei contrari allo sterminio portato avanti dalla politica di Netanyahu - non ho idea di quanti ce ne possano essere, ma sono certo che esistono, così come esistono russi profondamente, intimamente contrari alla politica di Putin)

Edith Bruck, ungherese ebraica che ha adottato la lingua di Dante per parlare della sua vita e delle esperienze che ne hanno segnato il cammino, rievoca ne Il pane perduto il dramma della Shoah e la violenza a cui ha dovuto assistere (bambina) nel corso della deportazione della sua famiglia nel campo di concentramento di Dachau. 

Sono molte le pagine che restano impresse nella memoria del lettore, molte le riflessioni che scuotono la coscienza di chi non ha mai patito una guerra, anche se ne vede frammenti in diretta in ogni edizione del telegiornale (magari comodamente seduto sul sofà di casa, o mentre fa colazione o mentre pranza o cena senza stenti, né fatica, né disperato bisogno di saziare la fame).

Il pane: ecco un simbolo antico come l'uomo, un'immagine portante del Cristianesimo ("questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, mangiate e bevetene, in nome mio", dice la vulgata). Quando i nazisti entrano in casa, la madre della piccola Edith non ha fatto in tempo a prendere il pane fatto in casa, con il lievito buono. Quel pane resterà per sempre impresso nell'anima di chi si vede ridotto ad animale da macello, a numero stampigliato sul polso, a nemico da convertire in cenere o in sapone.

A p. 31 c'è già un primo approccio all'orrore (di chi non sa ancora cosa stia succedendo, del perché gli ebrei sono diventati i nemici dei tedeschi e degli ungheresi che li aiutano nel loro sogno di razza pura ariana e senza macchia):

"Con i Reisman, per la prima volta così vicini, avevo scambiato un saluto muto. Il bambino più piccolo in braccio alla madre di Eva piangeva disperato e in quel pianto c'era un dolore puro, universale. Un dolore e un grido come quelli dei maiali di Natale sotto i lunghi coltellacci. Gli aguzzini che parlavano la loro lingua li ferivano con ogni parola, dirigendoli come fossero pecore verso la piccola sinagoga, dove c'erano già tutti gli ebrei del villaggio. Chiedevano muti con lo sguardo da bestie spaventate "Che succede, che succede?" come se le loro parole, le loro domande, non avessero più senso, né valore. Le uniche voci che contavano erano quelle dei gendarmi che pretendevano soldi, valori, le fedi, gli orologi da polso che ben pochi avevano. Perquisivano donne e uomini, controllavono gli orli dei vestiti e i cuscinetti delle giacche con parole sempre più offensive. "Pezzenti, straccivendoli, spilorci, nasoni che pisciano in bocca, brutti, sporchi ebrei via, via da qui!".
"Dove, dove?", si sentiva una voce".

Le domande senza risposta: le domande che smettono di avere valore perché chi li porge sa già che il suo destino non dipenderà più da una sua libera scelta o decisione, ma dal volere del tutto soggettivo e abritrario dell'aguzzino. Ecco come poco dopo la Bibbia diventa supporto nella descrizione del cataclisma, dell'Apocalisse che si abbatterà anche su quegli ebrei ungheresi ancora all'oscuro della precisione mortifera del piano di Hitler, lo sterminio, sì, ma su scala planetaria (siamo a p. 36):

"Non c'era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai passi e ai bimbi che potevano sfuggire dalle mani tremanti dei genitori, per sostenere i più vecchi che barcollavano come ubriachi e ciechi. Sembrava l'estodo dall'Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l'Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana venita spinta dentro con violenza".

È l'orrore di chi viene deportato senza sapere dove finirà. E di nuovo, come non pensare a tutti quei bambini palestinesi sterminati dalle bombe dell'esercito israeliano, come non pensare a quei genitori che vedono i loro figli cadere perfino mentre sono in fila per ottenere un po' di cibo dai camion delle organizzazioni che Isreale fa passare nella striscia col contagocce? Come non pensare al cinismo, alla violenza sadica di chi spara sulle folle affamate in fila e con pentole (per sempre) vuote?

Vecchi e bambini: sono le vittime più immediate, insieme alle donne, perché non sanno, perché non hanno la forza fisica degli uomini per resistere o tentare una via di fuga. 

Nei campi di concentramento, così come già ci insegna Primo Levi in Se questo è un uomo, la prima incognita riguarda proprio le regole che vi si applicano. Chi si salva e perché? Dove vanno a finire i condannati? Il fumo nero che esce da alcuni comignoli non è un segnale facile da decodificare, prima di rendersi conto delle cataste di cadaveri e dell'orrendo puzzo di carne bruciata. A p. 45 le domande della bambina che inizia a capire:

"Oh, capire le regole, le rigide discipline, i ruoli, non era facile, né conoscere i trucchi della possibile sopravvivenza, né essere guardiane della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare all'indomani".

È tremendo questo brano perché ci fa capire (ci fa toccare con mano) come sia facile perdere la dignità quando si tratta di sopravvivere, come sia quasi automatico pensare alla propria sopravvivenza a discapito di quella degli altri. Bisogna diventare "guardiani di se stessi" sia per sopravvivere sia per tentare di non determinare (magari senza volerlo, senza prevederlo) la morte di chi ci vive affianco... Se questo è un uomo, sì, consideriamo se questo è un uomo, costretto a sopravvivere nel dubbio di provocare la morte dell'altro per il fatto stesso di sopravvivere al prossimo.

E poi la perdita della percezione del tempo: nei campi di concentramento nazisti le vittime vengono spogliate di tutto e gli orologi non servono più a nulla, perché i giorni sono tutti uguali e il passare delle ore è cadenzato da ritmi che non hanno (più) nulla della vita umana civilizzata (id., p. 45):

"Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si moriva: chi per la selezione, chi all'appello, chi per la fame, chi per malattie e chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a lungo appesa come Cristo sulla croce".

Una Eva che muore appesa sul filo spinato come Cristo sulla croce: la donna che nell'Antico Testamento provoca la caduta di Adamo e la cacciata dal Paradiso Terrestre viene qui descritta come Cristo nel momento del massimo sacrificio...E perché Dio lo abbandona? Perché, mio Dio, mi hai abbandonato?

Queste domande tornano in modo molto esplicito nel finale del libro, quando Edith Bruck "invia" una lettera a Dio... Si tratta di pagine molto intime e scioccanti, di pagine piene di stupore e di umiltà, di domande senza risposte, di dubbi di chi ha visto la Morte in uno dei momenti più bui della Storia dell'essere umano e non sa darsi pace e non sa spiegarsi perché sia potuto succedere, perché tante vittime innocenti, perché tanti morti, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in un clima che, ahinoi, potrebbe ricordare fin troppo i tempi che stiamo vivendo oggi, nel 2025, a pochi passi dal baratro...

viernes, agosto 01, 2025

 Saint-Paul-Trois-Châteaux 
(o di un viaggio al passato per evitare il traffico del presente)

L'idea era quella di fermarsi ad Orange per vedere uno degli anfiteatri romani più antichi e meglio conservati del mondo. Il traffico stressante ci ha spinti a prenotare al volo un hotel (di lusso, incredibile) a Saint-Paul-Trois-Châteaux, un paesino medievale di 7 mila anime che toglie il fiato per la sua bellezza discreta, il silenzio, le strade quasi deserte. Questa è la Cattedrale di Notre Dame, risalente alla metà del XII sec. e davvero imponente per chi si avventura per le stradine labirintiche del centro storico:


Uno proprio non se l'aspetta: che ci fa un mastodonte del genere in un paesino così piccolo? All'interno, ci troviamo un gatto che dorme e che resta impassibile davanti ai pochi turisti che gli si avvicinano. È lui che comanda lì dentro, più dell'eventuale prete, abate o vescovo che sia...
Questo, invece, è un tipico scorcio delle stradine del centro:


È la Francia, certo, ma potremmo essere anche in Italia, in Abruzzo, in uno dei tantissimi paesini sperduti sulle montagne nostrane.
Questo, invece, è uno scorcio della piazza antistante l'hotel in cui alloggiamo prima di riprendere il volo verso Grenobles, le Alpi e l'estremo Nord:


La fontanella zampilla anche ora, il suono dell'acqua calma molto in una giornata in cui abbiamo raggiunto i 32 gradi centigradi. Quel negozio di vini non fa solo vendita di prodotti tipici, ma serve anche un'ottima focaccia (preparata con cura de un italiano che viene da Milano) e dei taglieri spettacolari con formaggi e salumi della zona che fanno venire l'acquolina in bocca solo a guardarli. Il vino rosso è anch'esso ottimo e il proprietario un tipo simpatico che si da da fare e che si mostra sempre gentile e sorridente.

Ecco: uno mette a confronto il caos di macchine in fila da Algeres-sur-mer e questo Paradiso che sembra perduto nel tempo e non può non concludere che sarebbe molto meglio perdersi e restare per sempre a Saint-Paul-Trois-Châteaux che perdersi e continuare a viaggiare lungo la A7 e la A9, collassate dai tir e dalle auto dei francesi che sembra che si siano messi tutti d'accordo per partire in vacanza proprio oggi...1 di agosto del 2025.

miércoles, julio 30, 2025

 Portbou e Walter Benjamin


È il 30 Luglio del 2025. Siamo arrivati a Portbou. La città in cui Walter Benjamin, l'inventore dei "passages", si tolse la vita, nella sua fuga dai nazisti e nel suo disperato e ultimo tentativo di passare la frontiera tra Francia e Spagna (l'idea era quella di imbarcarsi per gli Stati Uniti d'America).

Il monumento che commemora la sua morte è in cima a una collina con una vista spettacolare sul mare. Accanto al cimitero del paese (circa mille abitanti, che d'estate si triplicano). L'atmosfera è surreale: là in fondo, sulla sinistra, turisti e gente del luogo che si fa il bagno; qui sopra, accanti alle tombe dei morti del passato, un monumento che ricorda l'opera e il pensiero di un "flaneur" che ha finito la sua corsa (le sue mille passeggiate) in un paesino spagnolo a ridosso della Francia... L'allegria degli uni, la tristezza degli altri, ovvero, di coloro che sanno il perché della presenza di questa porta oscura verso l'abisso del mare (quando si scende si ha la sensazione di cadere in acqua, di rotolare in fondo all'acqua, di non riuscire a frenarsi...).


Milioni di turisti prendono il sole, sorridono, si baciano, mangiano il gelato, ignari della parabola esistenziale di uno fra i milioni di vittime ebree della furia (o della follia) di Hitler e degli esiliati spagnoli che fuggono dalla guerra civile per provare a rifarsi una vita in Francia.



Spagnoli che arrivano qui come sfollati, con le coperte e i pochi effetti personali sulla schiena, le donne e i bambini che percorrono chilometri come in una processione senza fine... 

Portbou ricorda anche quelle vittime, il passato torna presente, i fantasmi dei morti tornano a farsi presenze reali in questa collina in cui Walter Benjamin dovette pensare al suo destino, oltre che a quello dell'Europa distrutta (o in via di distruzione) per colpa della Seconda Guerra Mondiale. Era il 27 settembre del 1940 quando Benjamin inala una dose esagerata di morfina. Muore in una stanza dell'Hotel Francia. Dopo aver attraversato la Storia, aver scritto libri che hanno illuminato il pensiero del XX secolo e aver disceso quel tunnel verso l'abisso che l'artista Dani Karavan (anch'egli ebreo) ha realizzato nel 1994. 

 Sono passati 85 anni dalla morte di Walter Benjamin. E 31 dalla realizzazione del monumento di Portbou. Sembra di essere tornati indietro nel tempo. La Storia: un incubo da cui sembra difficile (o impossibile) svegliarsi...



lunes, julio 28, 2025

 Prima di ripartire per l'Italia


Sono in procinto di ripartire per l'Italia (passando dalla Francia, in macchina, per raggiungere Grenobles e poi entrare in Val d'Aosta, attraversando il valico del Monte Bianco, o "Mont Blanche", a detta dei francesi, e poi scendere in direzione Lucca, seguendo, in parte, il tragitto della Via Francigena, prima di "atterrare" a Roma capitale).

Il traffico delle 8:00 del mattino è scorrevole: si arriva a lavoro in meno di mezz'ora, dal paesino sulla costa del Sud del Sud della Spagna in cui vivo. Al semaforo in rosso i nostri sguardi insonnoliti s'incrociano: si trucca (o si aggiusta il trucco) sullo specchietto e mi guarda sorpresa dal mio sguardo attento, leggermente incuriosito (come fanno le donne a truccarsi anche mentre sono in auto? Quanta velocità, prontezza, precisione richiede un 'operazione del genere?).

Alle 8:30 ricevo un messaggio di una mia cara collega, Lola, compagna di avventure e di sventure, che io ho soprannominato "Sancho Panza". Mi chiede conferma dell'orario di un corso di formazione che ci impongono oggi, lunedì 28 luglio, a pochi giorni dalla chiusura completa dell'Università per tutto intero il mese d'agosto. Le confermo l'orario: dalle 10:00 alle 12:00. Lola mi dice che verrà cinque minuti prima (vive a pochi metri dall'Università e non ha voglia di entrare prima).

Ci chiediamo entrambi che senso abbia "costringere" i prof. a seguire un corso di formazione a fine mese, quando i cervelli sono fusi, il corpo stanco, la mente già proiettata verso le vacanze (Courmayeur, ad esempio, o Torino, o Pavia...).

Nel viaggio francese toccheremo alcune città emblematiche per chi studia letteratura: a Coillure morì Antonio Machado (il poeta); a Portbou trovò la morte Walter Benjamin (il filosofo, il critico letterario, l'esperto di arte). Andiamo alla ricerca delle tracce del passato dei fantasmi (benigni) sui cui libri ci siamo formati. È un viaggio di piacere costellato di fermate strategiche alla ricerca delle ombre degli eventi tragici della Storia del XX secolo (la Seconda Guerra Mondiale; la Shoah; la Guerra Civile Spagnola). Lola dice che ci accompagnerebbe volentieri. Sta finendo la tesi di dottorato (sulla cosiddetta "poesia dell'esperienza") e adora Benjamin (e sa a memoria alcuni componimenti di Machado).

"Caminante no hay camino...", certo. Il cammino si costruisce camminando (l'ho sperimentato nel 2012, cundo affrontai il famoso "Camino de Santiago"). E allora mi viene in mente il finale di una poesia di Pierluigi Cappello, poeta che ho scoperto grazie a Jovanotti (che mi fece scoprire anche Mariangela Gualtieri, un'altra scrittrice che emoziona e incanta con la sua lirica apparentemente umile, ma profondamente dirompente):

Piangere non è un sussulto di scapole
e adesso che ho pianto
non ho parole migliori di queste
per dire che ho pianto
le parole più belle
le parole più pure
non sono lo zampettio delle sillabe
sull’inverno frusciante dei fogli
stanno così come stanno
né fuoco né cenere
fra l’ultima parola detta
e la prima nuova da dire
è lì che abitiamo.

Traduco il testo in spagnolo per Lola; sottolineo con enfasi gli ultimi tre versi: "fra l'ultima parola detta / e la prima nuova da dire / è lì che abitiamo". E Lola mi fa notare come sia molto vicino a Benjamin questo Cappello, e forse anche ad Antonio Machado.

sábado, julio 26, 2025

 Ahora y en la hora (2025) di Héctor Abad Faciolince: scrivere da sopravvissuti



Un libro per l'estate. Ecco, questo che ho appena finito di leggere sarebbe proprio l'antesignano al concetto stesso di "libro per l'estate" (quelli che si leggono stesi sulla spiaggia o sotto l'ombrellone, su una sdraio, il volto accarezzato dalla brezza marina). 

In Ahora y en la hora (Madrid, Alfaguara, 2025) il colombiano Héctor Abad Faciolince racconta un fatto di cronaca nera legato alla guerra in Ucrania, ovvero, il tremendo attentato dei russi alla città di Kramatorsk.

Lo scrittore è lì per appoggiare la causa di Victoria Amélina e altri intellettuali e giornalisti che cercano di frenare l'invasione di Putin (invasione anche dal punto di vista ideologico, culturale e storico, non solo militare). Il movimento cui aderisce l'autore si chiama "¡Aguanta Ucrania!". Per farsi un'idea concreta di come queste persone si sono organizzate per dare testimonianze obiettive in diretta dal fronte (o dei luoghi più critici della guerra), Héctor decide di partire dalla Colombia e di conoscere dal vivo Victoria e gli altri integranti del gruppo. 

In Ucraina il suo libro più famoso, El olvido que seremos (del 2006, stranamente ancora non disponibile in italiano), è stato tradotto da poco ed è diventato perfino "il miglior libro straniero dell'anno".

Héctor arriva a Kiev, la capitale, e nota che la guerra si respira nell'aira per la presenza dei carri armati e dei soldati, per i gesti e i comportamenti delle persone che ci provano a fare una vita normale quando la normalità è ormai un ricordo lontano. Così, accetta di andare a Kramatorsk, in una delle zone più attaccate e, perciò, più pericolose del momento. Rimanda il viaggio già programmato per fare esperienza del male, della violenza e delle ingiustizie che Putin ha generato dopo l'invasione dell'Ucrania il 24 febbraio del 2022.

È il martedì del 27 giugno del 2023 quando, mentre sono sul punto di mangiare una pizza, un missile russo cade sulla pizzeria della città e provoca decine di morti, tra cui la scrittrice, giornalista e attivista Victoria Amélina. Il caso ha voluto che si sedesse nella sedia che le cede Héctor perché ha problemi d'udito all'orecchio sinistro e voleva cercare di intendersi con l'altro collega seduto al suo fianco.

Può un cambio di posto a tavola, può un difetto d'udito determinare la vita o la morte di un individuo? 

La risposta è ovvia e attorno ad essa gira tutta la trama frammentata, autobiografica, lirica, a tratti, e a volte straziante di Ahora y en la hora, un titolo che viene dalle ultime parole del Padre nostro, "Ora e nell'ora" (della nostra morte, amen).

Quello che più colpisce della scrittura di Héctor Abad Faciolince è la sua onestà intellettuale, la sua umiltà nell'ammettere che le parole non riusciranno mai a riportare in presa diretta le sensazioni vissute, né potranno riportare in vita le vittime della guerra ancora in corso. E però servono, perché la scrittura è uno dei pochi strumenti che abbiamo per non dimenticare, per non far precipitare nell'abisso dell'oblio ciò che è stato (ciò che abbiamo visto, ciò che abbiamo vissuto, ciò che ci ha ferito a morte).

Cito questa frase che Victoria pronuncia in un intervento presso l'Istituto Goethe di non ricordo più quale città:

"Mi rendo conto che la guerra ha distrutto la mia lingua. È ciò che la guerra ti lascia: le frasi sono il più breve possibile, la punteggiatura è un lusso superfluo, l'argomento non è chiaro, ma ogni parola ha un grande significato. Tutto questo vale per la poesia, ma anche per la guerra".

È la stessa scoperta che fa Primo Levi ad Auschwitz. È la scoperta (amara) che fa sulla propria pelle Héctor, sopravvissuto a un attentato che lo ha portato a guardare in faccia la Morte. Anche le parole di Ahora y en la hora hanno grande significato. Soprattutto quelle che descrivono le foto di Victoria e quelle che fanno parte delle tante poesie che lo scrittore inserisce all'interno della trama per cercare di capire e di capirsi. È un libro duro, quello di Héctor, un libro che gli storici del futuro dovranno leggere se vorranno scrivere una Storia della Guerra in Ucraina con obiettività e serietà, con rispetto verso chi l'ha vissuta e la vive ancora oggi, verso chi la subisce e verso chi prova a capirla...

miércoles, junio 25, 2025

 La fine di un ciclo "chisciottesco" nel caldo torrido spagnolo

Temperature torride, sorrisi spenti, prof che vorrebbero andare già in vacanza, ma gli impegni accademici e burocratici che ruotano attorno a questa professione lo impediscono... L'aria condizionata dell'ufficio segna 24 gradi, fuori ne faranno almeno 36. L'auto scotta e pur abbassando i finestrini si suda come in una sauna. L'asfalto si sfalda sotto i colpi di sole di questo fine Giugno tremendo. Presso la Biblioteca Regionale, nonostante la stanchezza, riusciamo a portare a termine un caffè letterario chisciottesco. Lancio la domanda: "Che idea vi siete fatti di Miguel de Cervantes? Cosa ne pensate di lui ora che avete letto o riletto alcuni dei capitoli della Seconda Parte del Chisciotte?".


Una donna sui settant'anni alza la mano: "Dovette essere una persona tremendamente colta. Un vero intellettuale. E io mi domando come facesse ad avere una memoria del genere, capace com'era di citare dalla Bibbia, dai classici, dai suoi contemporanei con tanta nonchalance...".


Un altro lettore di nome Gesù alza la mano anche lui: "Io credo che Cervantes sia stato un tipo divertentissimo, dotato di grande senso dell'umorismo, uno davvero molto ironico e pefino autoironico, uno che raccontava le barzellette, ne sono quasi sicuro...".


Un altro di nome Cesare aggiunge: "E anche un tipo acuto, molto diretto nella critica a ciò che non andava nella sua società. Io mi domando come fosse riuscito a schivare la Santa Inquisizione, perché se leggiamo bene il Chisciotte, anche lì ci sono molte scene "problematiche" o "complicate" dal punto di vista morale...".


M'intrometto anch'io: "È per questo che il finale del Chisciotte mi sorprende, come vi dicevo prima... Alonso Quijano el Bueno muore in modo cristiano, sul letto di casa sua, al cospetto degli amici e dopo aver ricevuto l'estrema unzione. Si confessa e fa testamento e lo ripete mille volte: "Io rinnego da Don Chsciotte della Mancia, riconosco il mio peccato e la follia a cui mi ha spinto la lettura dei romanzi di cavalleria; io non sono più quello di una volta; io voglio morire sperando che tutti si ricordino di me come di un buon cristiano, rispettoso della fede e di Dio". Non vi sembra un po' artificiale, un po' troppo forzata questa sorta di conversione in articulo mortis?".


Una ragazza giovane, dai lunghi capelli neri e ricci, molto timidamente alza la mano e aggiunge la sua riflessione: "Io credo che Cervantes abbia inventato questo finale proprio a scanso di equivoci e proprio per evitare problemi con la censura. E che, in realtà, era ciò che tutti qui hanno già detto, ovvero, una persona tremendamente ironica, divertente, colta, una sorta d'intellettuale in grado di fare la radiografia della realtà storica del tempo a partire dalla visione distorta di un pazzo".


Fa davvero caldo in questa città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo da ormai più di un decennio, ma che bello, che emozione, che piacere vedere che questa sorta di mini-corso chisciottesco abbia dato luogo a questi dibattiti a metà tra la vita e la finzione, tra il testo letterario e le paure e le speranze di cittadini del XXI secolo... Cervantes fa parlare di sè anche nel 2025. E Don Chiosciotte - ma lo sapevamo già, lo sanno anche i bambini - non muore mai.

sábado, junio 07, 2025

 I compromessi "letterari"


Un amico regista. Ho il "privilegio" e l' "onore" di avere un amico regista. Spagnolo, ha studiato a Cinecittà (o ha fatto il tirocinio nei famosi studi italici) e da circa 30 anni gira film "d'autore" che pochi apprezzano, pochissimi hanno visto e i più considererebbe "troppo impegnati".

Quest'amico è un fan di Pasolini e di Orson Welles, di Coppola e di Hitchcock, ed è insomma ovvio che provi a fare un cinema che vada al di là degli schemi e della narratività cinematografica che va per la maggiore nel Mondo.

Non solo: il mio amico regista è anche scrittore, nel senso che ha scritto anche racconti e romanzi, oltre alle sceneggiature dei suoi film misconosciuti. E l'altro giorno ha avuto la gentilezza di propormi la lettura del suo primo romanzo, a cui lavora (appunto) da 30 anni e che non ha ancora trovato un editore che lo pubblichi o si degni almeno di leggerlo. Ho accettato per l'amicizia e il rispetto che ci unisce, ma anche con un certo senso d'angoscia. E se il romanzo è un flop? Se è illeggibile? Se è indigesto? 

In mezzo a esami, tesi e tesine, mentre porto a termine un corso sul Quijote presso la Biblioteca Regionale, trovo il tempo per iniziare a leggerlo. Non è un romanzo illeggibile, ma fa acqua da più parti. In realtà, la storia-marco è una mera scusa per introdurvi ciò che conta davvero, ovvero, 6 racconti che sembrano un omaggio a Edgar Allan Poe. Ovviamente, sono molti i riferimenti alla settima arte, il finale sembra addirittura una sorta di riscrittura di Profondo Rosso (1975) del mitico Re del Terrore Dario Argento.

Come fare a dirgli che il romanzo non è propriamente un romanzo e che i racconti che contiene non sono malvagi, ma neppure dotati di un certo valore letterario? Come fare a dargli un feedback senza risultare offensivo? Come spiegare quali sono le (molte) cose che non vanno?

A volte ho sentito anch'io il desiderio di pubblicare, ma poi mi sono sempre frentato, ci ho rinunciato perché chi fa il mio mestiere e si dedica a leggere testi letterari diventa molto esigente e capisce che è difficile raggiungere le vette di tutti quei geni che ci hanno preceduto. 

L'amico regista ora è a Roma (un altro dei molti spagnoli che si trova a Roma in questo periodo) e mi manda una foto molto bella e in bianco e nero da Cinecittà, lì da dove partì tutta la sua carriera e la sua passione cinefila. "Goditi Roma!", gli rispondo, con un pizzico d'invidia e senza sapere cosa dirgli quando tornerà qui e mi chiederà conto della lettura del suo romanzo inedito...

viernes, mayo 23, 2025

 Chi viaggia verso Roma

Siamo dal dentista. L'odontotecnica ha un sorriso bellissimo, i capelli riccioli, l'atteggiamento gentile e professionale. Mi riconosce dall'accento: "Lei non è spagnolo, vero?". Le svelo le mie origini e ora capisce anche perché vado in giro con una maglietta della Roma. "Ah! Roma! Caput mundi! Io ci sono stata otto volte! Ma voglio tornarci! Ci si può andare ora che c'è il Giubileo?". Le spieghi che forse è un po' stressante andarci quest'anno, perché c'è davvero una gran massa di turisti e di sicuro i prezzi degli hotel sono alle stelle. L'odontotecnica sorride e annuisce, sì, forse meglio aspettare il 2026, quando tutto questo caos si sarà calmato un po'.

Sono all'Università. Fuori piove. Si avvicina Pilar, una collega che ha dimenticato l'ombrello vicino alla mia scrivania. "Piove anche a Roma", dico, così, tanto per dire qualcosa e Pilar: "Ma sai che lunedì parto per Roma?". 
"Vai a vedere il nuovo papa? Ci vai per il Giubileo?"
"No, per fare un soggiorno di ricerca. Starò via due mesi, fino a fine luglio, mi sa che ci rivediamo a Settembre". 
Le fai i complimenti, le dici che ti fa invidia, che ti piacerebbe tornare a Roma per un soggiorno di studio di due interi mesi... E poi Pilar gira i tacchi e se ne va, con un sorriso splendente, simile a quello dell'odontotecnica... E pensi che in Spagna tutti viaggiano o stanno per viaggiare alla volta di Roma - che letta al contrario, in spagnolo, diventa "Amor" - e che tu, da italiano che vive in Spagna, devi aspettare almeno l'8 agosto prima di rivedere Fiumicino...e che strana invidia ti fanno questi colleghi, queste ragazze, queste persone che non vedono l'ora di tornare a Roma. La città eterna perché uno non se la dimentica finché vive...

jueves, mayo 22, 2025

 Una traduzione da El lago en las pupilas (2012) di Luis Goytisolo



Romanzo strano, come molti dei romanzi di Luis Goytisolo, scrittore che non legge quasi più nessuno, in Spagna, e che non è mai stato tradotto in italiano e la cui opera principale s'intitola Antagonía, una tetralogia scritta tra il 1973 e il 1981 (ma ideata a partire dal 1960, ergo, trattasi di un'opera che occupa quasi 20 anni di vita dello scrittore prima di vedere la luce e di venire pubblicata in 4 parti e prima che l'edizione completa e compatta uscisse solo nel 2012).

Di cosa parla El lago en las pupilas? Di quattro personaggi, una donna - Gloria - che prova a rifarsi una vita dopo due cocenti delusioni amorose; un uomo - Marcel - che lascia Berna per andare in un oscuro paesino spagnolo in cui sembra sia vissuto suo padre; un uomo - Richard - che fa il giornalista economico e che si trova a Locarno per un summit delle grandi potenze mondiali; un uomo - il Moro - che scrive le proprie memorie legate ai tempi di un'oscura guerra che sembra avere tratti in comune con la vera guerra civile spagnola del 1936-39...

I quattro personaggi e le quattro linee narrative s'intrecceranno in modi inaspettati per il lettore fino a un finale che lascia tutto com'è, ovvero, nel buio e nel mistero più assoluti. 

Questa è la p. 149 tradotta in italiano (siamo ormai verso la fine del romanzo):

"Considerare, ad esempio, non la vista bellissima, ma le bolle di schiuma che animavano la superficie del lago, una qualsiasi di quelle bolle. Bolle che io percepivo - ognuna di esse - come replica infinitamente piccola di un universo in espansione simile al nostro. Bolle sperse in un numero infinito di altre bolle da un estremo all'altro del lago, acque che sfociano nei mari, mari che si aprono verso gli oceani, infinitamente infinito il numero delle bolle, per rendere ancor più espressiva la ridondanza, metafora tanto perfettamente illustrativa quanto indimostrabile di ciò che, a mio giudizio, è il mondo, un universo di universi, infinito nel tempo e illimitato nello spazio. Sant'Agostino, nella parabola del bambino che gioca con la sabbia in una spiaggia, prova a spiegare qualcosa di simile quando parla di eternità, del carattere eterno del Creatore. Il punto è che ci risulta molto più facile dimostrare l'esistenza di un Creatore increato che quella di un mondo ugualmente increato, illimitato e infinito".

Luis Goytisolo: o di uno stile in cui l'elemento lirico si unisce a (e accompagna sempre) la riflessione filosofica su chi siamo...e in che mondo viviamo.

lunes, mayo 19, 2025

 Domenica 18 maggio del 2025





È domenica mattina e hai proprio voglia di uscire in bici, fare almeno 2 ore di corsa, tutta pianura tranne la salita sul monte da cui si vede tutta la città del Sud del Sud della Spagna in cui ormai vivi da più di 10 anni. È domenica mattina e il sole splende già alto in cielo, quando qualcuno ti avvisa via Whatsapp: "Questa notte è venuto a mancare M. Ne danno il triste annuncio la moglie e i due figli". 

Non te l'aspettavi. Tu ed M. avete cenato insieme poche settimane fa, dopo un incontro letterario in cui hai conosciuto uno scrittore interessante e un critico che ti sta subito simpatico. M. si lamentava del fatto che non digeriva più bene come una volta. 82 anni e un fisico asciutto, M. era solito fare 10 chilometri a piedi tutti i giorni, anche se fumava, non era proprio riuscito a togliersi il vizio (una sigaretta al giorno, non di più, ma da sempre, da quando era un giovane promettente poi diventato Ordinario di Teoria della Letteratura e Letterature Comparate).

Tu ed M. avete condiviso anche un'esperienza molto bella l'estate scorsa, ad agosto: una sorta di tour letterario tra l'Abruzzo e il Lazio, con una visita e lettura pubblica di Memorie di Adriano, lo splendido romanzo di Marguerite Yourncenaur, presso la Villa Adriana di Tivoli.

Tu ed M. non avevate gli stessi gusti letterari, ma vi rispettavate, lui leggeva le tue recensioni con interesse e tu leggevi le sue e glielo facevi sapere, quando lo trovavi sul giornale. Su uno scrittore "rosso" non eravate per niente d'accordo: per lui era un estremista, per te un poeta, un romanziere dotato di uno stile più vicino alla poesia che alla narrativa.

M. è morto e bisogna prendere la macchina per andare a dargli l'estremo saluto all'obitorio del suo paesino d'origine, in campagna, accanto al cimitero. Siete tra i primi: non c'è ancora la fila dei parenti più stretti, solo la moglie, in lutto, con le occhiaie e il dolore inconcepibile di chi ha perso la sua anima gemella, e i due figli, uno frastornato, mentre beve un caffè appena prelevato dal distributore automatico, l'altro in maglietta e jeans accasciato su una sedia d'ospedale. 

Ti dici che no, non vuoi vedere M. nella camera ardente, non vuoi, non t'interessa proprio vederlo da morto, non ci pensi neanche, e, invece, la tua compagna d'avventure e di viaggi ti spinge a entrare. C'è un divano e in un angolino un tavolo pieno di pastarelle e fiori (chissà chi li ha portati fin qui a quest'ora del mattino, una domenica soleggiata di fine maggio di primo mattino) e poi, girando l'angolo, c'è lui, è M. anche se non lo vorresti vedere, è M. sfigurato dalla malattia, dimagrito così tanto da non sembrare lui, fai fatica ad associare quel volto, il volto del cadavere, con quello di M. quando era ancora un professore vispo, intelligente, attento e pieno di senso dell'ironia.

Il giornalista che scriverà il necrologio te lo manda in anticipo sul cellulare: dice di M. che era un uomo buono, un ricercatore instancabile, un docente amato dai suoi allievi e dai colleghi, una persona stoica, che amava la vita, ma che sapeva che la vita ha una fine...

La neovedova ti abbraccia. Vi abbracciate e uscite fuori, a prendere una boccata d'aria. Poi lei rientra perché arrivano i parenti, altri membri della famiglia, gli amici di una vita, i vicini di casa, tutti sorpresi dalla notizia, nessuno si aspettava una malattia così fulminante...

Tu resti fuori, guardi un cartello: "Si cerca gestore del bar dell'obitorio; urgente; chi fosse interessato chiami a questo numero...", e ti fermi a riflettere sullo strano paradosso e constrato tra un obitorio (luogo di dolore e pianti) e un bar (luogo di vita e sorrisi). Chi mai avrà voglia di prendere in mano la gestione di un bar all'interno di (o adiacente a) un obitorio che si trova a pochi metri dal cimitero del paese? Chi potrebbe averne il coraggio o il fegato? E cosa diavolo c'entra un bar in un luogo come questo?

La vita va avanti, mentre la morte ha portato via un amico, un professore universitario che ha avuto molteplici riconoscimenti accademici e umani da parte di chi lo ha considerato un "maestro". La vita va avanti, la donna delle pulizie ti dice che puoi stare, sei seduto sulla panchina antistante il bar chiuso, le dici "Non si preoccupi, me ne sto andando" e solleciti la tua compagna di viaggi e d'avventure, "non ce la faccio più a stare qui, andiamo via".

Quando torni a casa, ti prepari un piattone di pasta con il pesto di Giovanni Rana. Poi la prendi la bici e fai davvero 50 chilometri. Arrivi davvero in vetta, lì  da dove si vede tutta la città. E poi viaggi in macchina nel paese sulla costa in cui si trovano le tue figlie, saluti tua suocera, parlate di M., lei non lo conosceva, ma l'aveva sentito spesso nominare in alcune conversazioni. 

Alle 20:00, presso la Cineteca, danno "8 e 1/2" di Fellini. Ci vai perché hai voglia di non pensare alla morte, ma dopo pochi minuti ti rendi conto che Fellini ha girato quel film proprio per parlare di morte, o di morte dell'ispirazione, di crisi d'ispirazione, di morte dello spirito di un regista che non sa più cosa raccontare. Il finale ti fa piangere, non puoi evitarlo: sarà la sesta volta che vedi "8 e 1/2" e per la sesta volta non trattieni le lacrime davanti a quel balletto finale, con quella musica incredibile di Nino Rota che ti fa volare, ti trasporta dentro il film e dentro i ricordi che conservi del finale, quel bambino che è Guido da piccolo e che con quel mantellino bianco diventa un puntino luminoso in mezzo all'enorme oscurità di un circo (e un cerchio) che si chiude proprio quando sembrava che ormai tutto fosse perduto, che la sfida era persa, che la crisi non era superabile, e invece sì, Guido la crisi la supera accettando i suoi difetti, convivendo con tutti quei personaggi che sono le persone più importanti della sua vita, una vita fatta di menzogne, di tradimenti, di salti temporali, di ricordi e di oblio, di tanta voglia di raccontare e di crisi d'ispirazione, di un balletto che è la danza della Morte e la danza della Vita...

martes, abril 22, 2025

 Il folle di Dio alla fine del mondo di Javier Cercas

La vita è piena d'ironia teatrale. Circa un paio di settimane fa, un importante giornale italiano (di cui, per ora, non farò il nome) mi chiede una recensione dell'ultimo libro di Javier Cercas, autore acclamato da critica e pubblico nel 2001, quando pubblicò Soldati di Salamina, un romanzo strano, ma affascinante su un oscuro episodio dell'atroce guerra civile spagnola. Di questo autore, nel corso degli anni, ho letto anche altri libri, ma nessuno è riuscito a farmi entusiasmare come quello che gli diede giustamente fama internazionale.

Mi appresto, dunque, a leggere Il folle di Dio in viaggio alla fine del mondo (Guanda, 2025, nella sempre scorrevole ed ottima traduzione di Bruno Arpaia) e...il libro mi cade dalle mani. È davvero difficile arrivare alla fine di questa sorta di cronaca di viaggio in Mongolia, in compagnia di alcuni vaticanisti e stretti collaboratori di Papa Francesco. Non nego che il libro abbia un qualche valore didattico, soprattutto grazie a determinate domande "scomode" fatte da un ateo a dei fedeli legatissimi al Vaticano. Ma mi domando dove sia il guizzo dell'immaginazione e della creatività letteraria. Mi domando dove finisce la letteratura in un "reportage" così "realista"...

Ovviamente, a lettura finita, scrivo la recensione. La mando l'altroieri; ieri muore Papa Francesco; non so se e quando uscirà la recensione. Di certo Cercas è idolatrato in Italia (non ho ancora letto una critica negativa o non elogiativa) e di sicuro il libro si venderà di più ora che Jorge Bergoglio è morto.

Scherzi del destino? Ironia della sorte? Misteri della fede...

sábado, abril 19, 2025

 La Lettera d'amore a Giacomo Leopardi di Antonio Moresco: un inno alla gioia, in un mondo che crolla a pezzi





Nessuno me l'ha chiesto, ma se qualcuno, oggi, 19 aprile del 2025, in procinto di vivere la Pasqua e la Pasquetta (si sia credenti o meno), mi chiedesse di scrivere una recensione dell'ultimo libro di Antonio Moresco, io non saprei da dove partire, mi metterei le mani nei capelli e risponderei solo con un sorriso, un applauso e un salto.

Sono anni che leggo tutto ciò che pubblica questo scrittore anomalo, inclassificabile, tenero e crudele, spietatamente realista (quando occorre) e incredibilmente lirico (in modo spontaneo, mai affettato). Sono anni che mi lascio sorprendere dalla scrittura di quest'uomo che non ha mai smesso di credere nella letteratura come strumento d'indagine della verità, cosciente del fatto che non esiste la Verità, ma tanti modi d'intenderla, d'intravederla, di approssimarcisi. Sono anni che mi lascio sorprendere perché per Moresco la vera letteratura deve fare proprio questo: aprire nuove strade, nuove ipotesi, nuovi percorsi di conoscenza. Ed ecco, allora, che la lettura di quest'ultima Lettera d'amore a Giacomo Leopardi (Milano, Solferino, 2025) mi permette di godere di nuovo di tutta la bellezza che impregna lo stile di Moresco, la sua lingua italiana piena d'ironia e d'invenzioni neologische pazzesche, la sua visione lirica e ironica e tremenda del mondo...

"Caro Giacomo,
è da tanto che volevo scriverti una lettera, scavalcando d'un balzo lo spazio e il tempo, che volevo mettere tutto ciò che in questi anni oscuri sento e penso dentro una lettera indirizzata a te. Ma non una lettera qualsiasi: una lettera d'amore" (id., p. 7).

Ecco: è così che comincia questa lettera che è un atto d'amore verso un poeta ammirato, letto, studiato, riletto e che è anche, al contempo, un viaggio. All'interno delle opere più famose e importanti del poeta di Recanati (i Canti, ma anche lo Zibaldone; le Operette morali, ma anche gli epistolari); ma anche all'interno del mondo contemporaneo in cui sia Moresco che il suo lettore si ritrovano a vivere e a sperimentare le crisi che, oggi, da più parti, ci circondano, ci preoccupano, ci fanno paura.

Questa lettera d'amore ci fa sentire la voce di Leopardi come una "vera presenza", nei termini di George Steiner, ovvero, come una persona reale che continua a parlarci e che ha saputo anticipare di due secoli molti dei problemi sociali, filosofici, esistenziali, culturali che stiamo vivendo in questi primi 25 anni del XXI secolo. Questa lettera d'amore ci permette di riascoltare la potenza dei versi de L'infinito e il senso profondo, spietato, delle molte riflessioni che il poeta con la gobba ha saputo sviluppare con la sua mente da ventenne isolato da tutti e "incarcerato" dal padre nella sua "prigione dipinta". Questa lettera d'amore sa farci ridere come pochi altri testi letterari di questi ultimi vent'anni, perché Moresco è capace d'infondere ironia, umorismo, comicità perfino a una lettera che poi diventa favola che a sua volta diventa operetta morale buffa piena di colpi di scena indimenticabili. 

In questa lettera il lettore contemporaneo potrà sentire Leopardi dire le parolacce e districarsi con acume nei registri colloquiali (a volte volgari) del nostro italiano attuale; in questa lettera il lettore contemporaneo potrà letteralmente volare in compagnia dell'autore e del poeta in un viaggio aereo che lo porterà a scoprire chi c'è all'interno del parlamento italiano (Roma), dove si nasconde Putin (Mosca), chi comanda veramente oggi gli Stati Uniti d'America (Washington). In questa lettera, che fa ridere e commuovere, che fa riflettere e fa paura, c'è tutta la carica dirompente dell'immaginazione e della potenza creativa di uno degli scrittori italiani più originali che ci abbia mai regalato la letteratura che nasce prorio da Leopardi, e da Dante, ma anche da Omero, e da Shakespeare, da Cervantes e da Kafka.

Sì, Antonio Moresco ci fa ascoltare la voce di Leopardi con passione e trasporto, ci fa volare sulla realtà tremenda del mondo in cui viviamo, ci fa ridere e ci fa emozionare fino quasi alle lacrime, per ricordarci che, in mezzo alle rovine di un mondo che crolla a pezzi, c'è ancora spazio (forse) per la bellezza. Questa lettera d'amore a Giacomo Leopardi è (forse anche) un inno alla gioia. O alla gioia che solo l'immaginazione può creare all'interno del buio e del dolore. Un inno alla gioia dell'immaginazione che sa riaprire il discorso sul mondo, che sa ricreare il mondo, che sa staccarsi dal mondo per vedere cosa c'è dietro (o di fianco o sotto o sopra). Viaggiate con Antonio Moresco, cari amici lettori. Volate insieme a lui e a Leopardi.

viernes, abril 18, 2025

 In Italia

Sono in Italia dal 12 aprile e non mi sembra vero. È da Natale che non torno, due o tre mesi non sono nulla, eppure, appena uno atterra a Fiumicino respira nell'aria l'aria di casa. Gli italiani sembrano sempre gli stessi: stress, faccia arrabbiata, cellulari onnipresenti, fretta senza senso, ingorghi, traffico della capitale invasa sia dai turisti che dai pellegrini per il Giubileo... I prezzi di alcuni alimenti basilari sono alle stelle: è quasi impossibile comprare un pacchetto di caffè che costi meno di 4 euro (il Lavazza è alle stelle: due pacchetti quasi 12 euro!); ma anche il latte, il pane, insomma, non so se ci sia l'inflazione, ma sta di fatto che è tutto aumentato (anche i libri; ormai 20 euro è il loro prezzo medio).

Arrivati in Abruzzo, le cime delle montagne sono ancora innevate. Una pioggierella insistente e minuscola rende il paesaggio davvero invernale. Fuori fanno 9 gradi e non potrò uscire in bici a perdermi tra le mie montagne, le mie radici, la natura di questi posti meravigliosi.

Leggo l'intervista che mi ha fatto la settimana scorsa una giornalista che lavora per un quotidiano online di cui non conoscevo l'esistenza. Come diceva Proust, fa sempre un effetto strano, appare sempre "alientante", ritrovare la propria voce plasmata nelle parole trasformate in testo stampato. Chi leggerà mai questo giornale? Chi sono i suoi lettori modello? Nell'intervista parliamo delle mie origini, di come, da un paesino delle montagne abruzzesi, sono finito a insegnare Letteratura Spagnola in Spagna agli studenti spagnoli (in effetti, è un po' paradossale). Giro l'intervista ad alcuni amici e colleghi ben selezionati. Molti mi rispondono con messaggi vocali d'affetto; altri con l'emoticon dell'applauso.

Sulla scrivania mi attende l'ultimo libro di Antonio Moresco, Lettera d'amore a Giacomo Leopardi (Milano, Solferino, 2025). Quest'anno ho avuto l'enorme fortuna di conoscere Antonio Moresco, d'invitarlo alla mia Università a dare una lectio magistralis sulla letteratura per l'infanzia e su quanto sia importante che questo tipo di letteratura faccia conoscere il Male ai bambini; non si può edulcorare la realtà e togliere il lupo cattivo da Cappuccetto Rosso (gli studenti lo guardano con gli occhi aperti, silenzio nella studio televisivo dove facciamo la tavola rotonda, a bocca aperta anche qualche collega che è venuto a sentirci). Non vedo l'ora d'immergermi nella sua scrittura, anche perché, ora che so come suona la voce di Moresco, nel leggerlo mi sembra di ascoltarlo. Di sentire quella voce un po' strascicata, un po' ironica, leggermente malinconica...

Stasera, invece, torno a Roma, per andare a prendere un amico che torna da Bruxelles e andare a cena tutti insieme, vicino a casa di mio fratello. Roma, che letta al contrario, in spagnolo, dà luogo alla parola che, secondo Joyce, "tutti conoscono", Amor... ovvero Amore...

viernes, enero 17, 2025

 David Lynch: non lo "lyncheremo" più



Ieri sera, verso le 20:00 (l'ora di cena per me, all'italiana), mia cugina mi manda una foto di David Lynch in bianco e nero con l'annuncio della triste notizia. Al di sotto del sorriso sornione del regista e della sua mitica capigliatura invidiabile (quale quasi ottantenne può vantare una simile massa di capelli?), la frase: "David Lynch è venuto a mancare all'età di 78 anni". Ho smesso di mangiare e di leggere il messaggio. Ho solo risposto: "NO" con l'emoticon di un pianto irrefrenabile...

Oggi, 17 di Gennaio del 2025, nel Sud del Sud della Spagna in cui vivo, il tempo si è guastato e sembra accordarsi allo stato d'animo dei milioni di fans che Lynch aveva in ogni parte del globo. Fa impressione vedere quanto cordoglio hanno espresso in queste ore tante persone (note e meno note) sui cosiddetti "social"; fa impressione vedere che strano tipo di vincolo umano e intimo sembra aver generato Lynch arrivando ai cuori e alle menti di tante persone (di tante nazionalità diverse). Mi commuove leggere l'addio di Francis Ford Coppola o quello del suo attore feticcio, Kyle MacLachlan, l'attore che ha interpretato quasi tutti i ruoli protagonisti dei suoi film, oltre al mitico agente Cooper della serie Twin Peaks, una serie che ha rivoluzionato la televisione mondiale degli anni 90 a suon della domanda cruciale: "Chi ha ucciso Laura Palmer?" e con l'adozione di un linguaggio cinematografico tutto basato sul surrealismo e sulla tecnica della suspense.

Oggi, in uno stato d'animo prossimo alla depressione, di David Lynch voglio ricordare soprattutto due scene, non tra le più note e famose. Una viene da Strade Perdute (1997) o forse da Cuore Selvaggio (1990): vediamo una macchina che viaggia su una delle tipiche strade americane in mezzo al deserto, una di quelle strade lunghissime e che sembrano non avere mai fine, fino a quando, a un certo punto, l'auto sbanda e si schianta contro un albero. È notte fonda e l'unica fonte di luce proviene dai fari anteriori dell'auto. Vediamo due donne che scendono, una è vistosamente ferita alla fronte, perde sangue e sembra aver perso anche il senno, perché dice all'amica, più giovane: "Dov'è la mia borsetta? Dov'è la mia borsetta?" e si affanna a cercarla in mezzo alla polvere e ai cespugli del deserto. È una scena incredibile anche se verosimile in cui assistiamo, impotenti, alla paura e al tremore che s'impossessa di chi ha appena avuto un incidente automobilistico. Ed è l'atmosfera a darci l'idea dell'ansia e della paura: la macchina da presa tentenna, balla, si ferma, poi si muove, in mezzo all'oscurità della notte, come se fosse ubriaca o improvvisamente impazzita.

L'altra scena viene da INLAND EMPIRE (2006) che, per me, è uno dei più bei film di Lynch, insieme a Mulholland Drive (2001) e, ovviamente, a Eraserhead (1977). Si tratta di un'altra scena sconvolgente, nell'apparente semplicità del suo contenuto, e che credo di aver già descritto in questio diario di bordo virtuale che forse non leggono più nemmeno quelle tre o quattro lettrici che mi seguivano anni fa... È una scena assurda, in cui assistiamo alla morte di una ragazza, accasciata sul marciapiede di una delle tante strade periferiche di Hollywood. La ragazza perde sangue dalla pancia, si afferra il ventre, mentre, tutta imbacuccata, inizia a chiedere aiuto a un barbone e quest'ultimo la guarda e inizia a parlarle, non ricordo più se prova a trasmetterle un messaggio di pace e tranquillità, non so se le dice di stare calma e che se morirà non sarà poi così doloroso, non ricordo se le dice che le resterà affianco, ma intanto quella ragazza soffre e sta per morire e noi siamo lì, insieme a lei, testimoni oculari di un evento quotidiano e comunque visto come "tabù", è una morte assurda, oscena e insignificante, resa ancora più surrealista dalla presenza del barbone che parla e parla e dice cose che, in quel contesto, non hanno molto senso o non danno la consolazione che ci si aspetta, il dialogo è calmo, ma serrato, assurdo, ma sensato, spietato e anche un po' tragicomico. Poi, all'improvviso, la macchina da presa fa un leggero movimento all'indietro ed è solo allora, solo allora, quando lo spettatore si rende conto del fatto che ha appena presenziato una morte inscenata all'interno di un film, una metascena in un metafilm, perché INLAND EMPIRE è proprio questo, un film metacinematografico che s'interroga costantemente sul confine sempre labile tra "realtà" e "finzione" o su come questi due mondi interagiscano tra di loro in modo a volte sorprendente, come in questa scena di una morte assurda e banale, una morte in diretta...

Ecco: è per scene come queste che io sarò sempre grato a David Lynch. Un artista che ha saputo immaginare le zone più oscure dell'animo umano. Un regista che ha saputo trasformare i suoi incubi in storie affascinanti e sempre inquietanti. O affascinanti proprio perché inquietanti. Con mia cugina eravamo soliti fare sempre la stessa battuta: "David Lynch? Lynchamolo!". Ora non potremo "lyncharlo" più. Ci restano i suoi film, per fortuna. E la possibilità di rivederli finché il viaggio non finirà anche per noi.

miércoles, enero 15, 2025

 

Diario di Bologna

 


6 Gennaio 2025

 

Iniziamo l’anno accamedico in viaggio dall’Abruzzo all’Emilia Romagna. Devo firmare un accordo Erasmus con il Campus di Forlì (con il DIT, ovvero, il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione). Abbiamo affittato (a caro prezzo) un appartamento a due metri dalla Stazione Centrale di Bologna. La capitale della regione ci accoglie con la nebbia e un freddo umido che ti penetra nelle ossa, che a tratti paralizza. Sono le 19:30 ma sembra mezzanotte. Riesco a carpire frammenti di dialoghi in dialetto bolognese. Adoro quest’accento, così diverso dall’abruzzese o dal romanesco.

La padrona di casa mi fa vedere la moka della Bialetti: sembra che oggigiorno nemmeno i turisti italiani si preparano più la macchinetta tradizionale, sembra che tutti preferiscano la Nescafé (è più veloce, più efficace, più pulito). Mi chiedo dove andremo a finire se perfino gli italiani smetteranno di farsi il caffè come abbiamo sempre fatto nel corso di decenni (forse secoli).

Andiamo a dormire presto, stanchi del viaggio. Domattina, alle 10:30, saremo già a Forlì, al Campus universitario, per conoscere dal vivo una collega con cui ho scambiato un sacco di email, prima di arrivare  a questo momento (ovvero, alla firma concreta dell’accordo). Nell’appartamento, il riscaldamento è al massimo. Fuori c’è la nebbia e si gela, dentro si può dormire anche in maniche corte.

 

7 Gennaio 2025

Forlì: anche qui nebbia e freddo. Le panchine della stazione sono bagnate. La gente imbacuccata. Andiamo al Campus senza sbagliare strada. È una città geometrica, Forlì, o così pare. Giorgia ci accoglie con il sorriso e ci offre subito un caffè. I mobili dell’ufficio in cui parliamo di questioni accademico-burocratiche sembrano tratti dalla serie di Leopardi che Rai1 manda in onda proprio stasera. Sembra tutto molto ottocentesco. La stampante funziona, ma a fatica, con una lentezza quasi snervante. C’è il distributore dell’acqua gratis (fredda e a temperatura ambiente). C’è anche quello del caffè a 60 centesimi. Ho notato che, ormai, in Italia, nei bar, è impossibile prendere un espresso a meno di 1,30 euro. Giorgia ci mostra le aule dei laboratori dei futuri interpreti e traduttori italiani da e per lo spagnolo (ma anche il francese, il tedesco, l’inglese, perfino il cinese). È bello, quasi emozionante, vedere tanti studenti seduti in postazioni costruite su due piani in un edificio che, qualche decennio fa, era un ospedale, ora completamente ristrutturato e ricostruito secondo la moda del postmodernismo architettonico. Vedo una cartina dell’Italia con sopra stampata una domanda a caretteri cubitali: “di dove sei tu?”. In realtà, la domanda appare sotto la cartina dell’Europa. La distanza e la miopia galopante mi giocano brutti scherzi. Qui gli scambi Erasmus sono all’ordine del giorno. Siamo qui per quello. E per loro, per quegli studenti che avranno voglia di sperimentare cosa significa studiare in un altro paese e in una lingua diversa da quella materna.

Andiamo a pranzo in una trattoria tipica emiliana. Le tagliatelle con il ragù alla bolognese sono orgasmiche. I tortellini in brodo pure. Il caffè macchiato lo servono con un bricco per il latte, uno con panna spruzzata con cacao amaro e un biscottino al cioccolato d’accompagnamento. Incredibile la qualità del cibo e la professionalità dei camerieri e del padrone di casa.

Nel pomeriggio, giro in centro con la nostra guida personale (fino a un parco che mi ricorda “El Retiro” di Madrid) e poi rientro a Bologna in treno perché comincia a piovigginare.

Prima di separarci Giorgia ci parla dell’architettura del Quartiere razionalista: se si guardano dall’alto, certi palazzi del quartiere formano la M enorme di Mussolini. Non a caso, il Duce è nato a Predappio, ovvero, a 20 chilometri da Forlì. Mi sembra davvero paradossale che uno dei dittatori più ridicoli e folli della Storia del XX secolo sia nato proprio in una delle regioni più “rosse” d’Italia. Poi proviamo a sdrammatizzare. Senza l’Emilia Romagna la cucina italiana sarebbe più povera: qui hanno inventato il Parmiggiano Reggiano, il Grana Padano, la mortadella, l’aceto balsamico di Modena, la piadina, lo squacquerone, le tigelle e le crescentine, le tagliatelle e i tortellini…il Lambrusco e il San Giovese…

Proviamo solo per un momento ad eliminare uno di questi elementi dalla cucina tipica italiana: saremmo tutti più poveri (e più tristi). Viva l’Emilia Romagna!

 

8 Gennaio 2025

 

Ravenna: quanta bellezza e quanta storia e quanta arte nella stessa città! Il Mercato Coperto ci stupisce per la sua eleganza e la cura di ogni dettaglio, la varietà dell’offerta gastronomica e la bontà dei prodotti. E poi la Basilica di San Vitale coi suoi famosi mosaici bizantini e Galla Placidia e …la tomba di Dante. Mi faccio scattare una foto. Mi commuove sapere che le ossa del Sommo Poeta riposano proprio qui, lontane dalla natia Firenze, la patria da cui Dante si esilia e a cui non farà più ritorno.

Andiamo a pranzo in un altro ristorante su consiglio di un’amica che rivedrò domani per una cena in una pizzeria del centro di Bologna. Si chiama Osteria Passatelli. Mangiamo un piatto di tortellini con fonduta di parmiggiano stagionato 30 mesi e passatelli in brodo. Di nuovo, il piacere della tavola ci lascia a bocca aperta.

Dopo una passeggiata digestiva, torniamo a Bologna. E qui mi sgancio dal gruppo e vado in centro da solo. I portici di Bologna. Le Torri degli Asinelli. La Piazza del Nettuno. E la Piazza Coperta Umberto Eco, dotata di spazi per la diffusione della lettura e della cultura davvero emozionanti se consideriamo il mondo in cui viviamo. Ho visto ragazzi leggere libri di carta. Anziani leggere giornali di carta. Forse non tutto è perduto, se queste biblioteche sono ancora frequentate e anche da persone giovani, da gente che ormai è abituata ad usare il cellulare come una seconda pelle.

Mi addentro nelle sale del Cinema Modernissimo: cimeli di alcuni grandi classici del cinema italiano; una caffetteria elegante e assolutamente cinefila, poster dovunque, locandine di film visti da ragazzo; foto storiche e in bianco e nero della Bologna del secondo dopoguerra. In programmazione l’ultimo film di Roberto Andò: L’abbaglio, con Ficarra e Picone. E poi, uscendo per strada, la Feltrinelli, dove mi è impossibile non comprare libri e non rimembrare i tempi in cui andavo sempre a quella di Via dei Cerretani a Firenze (quando ero un cittadino della città di Dante). Compro un saggio breve di Ezio Raimondi, il grande italanista, Un’etica del lettore; e poi Il viaggio di Dante. Storia illustrata della Commedia, di Emilio Pasquini; e poi È una donna che vi parla, stasera, di Alba de Céspedes, una scrittrice che ho scoperto grazie alla mia compagna d’avventure e di viaggi e, infatti, gliene faccio dono, come regalo inaspettetato.

Domani altro giro, altra corsa: Ferrara. Andiamo a dormire guardando l’ultima puntata di Leopardi, il poeta dell’infinito su Rai1. È bello e strano, e anche un po’ emozionante, vedere una serie del genere sulla tv pubblica italiana. È strano sentirsi così…italiano in Italia.

9 Gennaio 2025

Ferrara. La pioggia, il freddo, il vento ci danno il benvenuto e ci obbligano a prendere un taxi per arrivare alla Biblioteca Ariostea, sita all’interno dello storico Palazzo Paradiso (gli Estensi avevano buon gusto nel nominare i loro possedimenti; qui esiste anche un Palazzo dei Diamanti).

Entriamo per dare fastidio agli addetti della biblioteca. Riusciamo a farci aprire una porticina che dà accesso alla sala in cui secoli fa gli studenti di Medicina seguivano le lezioni di Anatomia. Poi saliamo al secondo (o terzo) piano per contemplare emozionati la tomba di Ludovico Ariosto. È la seconda tomba importante che visito da quando siamo in Emilia Romagna: Dante e Ariosto, due geni, ognuno a modo suo, anche se è ovvio: l’Orlando Furioso non potrebbe mai raggiungere le vette della Commedia, né avere la stessa fama internazionale dell’opera del fiorentino. Dalla tomba di Ariosto si vede una sala di lettura destinata agli specialisti e ai ricercatori: dentro quella sala sono conservati manoscritti e libri antichi risalenti al XV e al XVI secolo. Chissà se non c’è anche una qualche edizione del poema di Ariosto.

Vorrei sedermi e tornare studente, ma non si può. Continuiamo il tour per la città fredda e piovosa, entriamo nella Cattedrale, poi passiamo davanti al Castello, bellissimo e rinascimentale, con quell’acqua che lo difende e lo circonda. E poi, appunto, il Palazzo dei Diamanti, percorrendo quella che viene considerata una delle strade più belle d’Italia, ovvero, Corso d’Ercole I d’Este. Al posto dei sanpietrini romani ci sono altre pietre che sostituiscono l’asfalto e fanno viaggiare con la mente indietro nel tempo. All’interno del Palazzo un negozio con i cataloghi delle mostre e una libreria fornitissima: vorrei comprare tutti i saggi sulla fotografia, sul cinema (Fellini), sull’arte. È incredibile la cura del dettaglio, l’amore che chi gestisce questa libreria dimostra nei confronti della cultura. Poi si torna a Bologna. E vediamo Rossella a cena nella pizzeria Berberè: impasto artigianale, lievito di qualità, alta digeribilità. La mia capricciosa è ottima, così pure la margherita della mia amica di liceo. Erano 10 anni che non ci vedevamo, ma sia io che lei sappiamo che, in fondo, non siamo cambiati molto da quando eravamo adolescenti, anche se i nostri corpi sono invecchiati. Rossella ci parla della fatica che fa a cercare d’insegnare qualcosa ai ragazzi di oggi: “L’altra mattina spiegavo l’apparato riproduttivo e non avete idea delle battutine stupide. Poi, due alunni marocchini molto palestrati mi hanno chiesto se potevamo presentare una lezione sull’importanza dello sport e dell’alimentazione per avere un fisico come il loro. Li ho lasciati fare: hanno scritto “l’alibido” (con l’apostrofo) e “problemi rettili” (dimenticando la “e”). Dio mio che risate e che disperazione!”. Ridiamo tutti. Il livello generale degli studenti delle superiori è basso in tutto il mondo, evidentemente. Rossella ormai è quasi più bolognese che abruzzese. Elogia la Spagna: anche dal punto di vista politico. Parliamo della Meloni, della serie su Mussolini con Luca Marinelli, dei cortei dei fascisti proprio lì, a Bologna, la rossa, la dotta, la grassa. Di come è difficile pensare al cambiamento climatico e al regredire generalizzato con le guerre in atto alle porte di quella UE nata proprio dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Poi parliamo di cinema e del Cinema Modernissimo che lei stessa mi ha consigliato di visitare. Beviamo birra e poi vino, un bel San Giovese per ricordare i bei tempi di una volta. Il giorno dopo dobbiamo ripartire per Roma e poi il giorno dopo ancora per la Spagna. Ma stasera, intanto, abbiamo annullato le distanze sia spaziali che temporali, abbiamo condiviso un pezzetto di quella follia che è la vita, come diceva anche Sterne…

 

11 Gennaio 2025

Di mattina andiamo in stazione per andare a Modena. L’obiettivo è pranzare con la migliore amica di mia madre, prima di tornare a Bologna e da lì prendere l’Italo delle 18:52. Modena dista appena mezz’oretta dalla capitale dell’Emilia Romagna. Visitiamo il centro storico, poi, alle 12:30, ci viene a prendere il marito della migliore amica di mamma e ci porta a casa sua: una villa in mezzo al nulla, circondata dalla pianura e dagli alberi che svettano in mezzo a casolari che fanno pensare a Novecento, il film di Bertolucci. Maria Paola ci ha preparato un pranzo succulanto, un vero pranzo di Natale: di nuovo i tortellini, con panna e parmiaggiano reggiano doc; e poi le tigelle, con insaccati vari e mortadella che solo a Bologna è così buona. Beviamo e sorridiamo nel rimembrare mia madre che non si è mai decisa a prendere un treno e a venire sù al Nord dal paesino sui monti abruzzesi in cui vive. Parliamo della difficoltà di fare i genitori oggi. Ma sarà mai esistita un’epoca in cui sarà stato facile fare il padre o la madre? Domanda retorica. Il marito di Maria Paola torna a lavoro: lei ci riporta alla stazione. Sono le 17:00 ma sembrano le 2 di notte. La stazione centrale è tutta un viavai. Italo parte in perfetto orario (anche se mia madre preannunciava uno sciopero che non c’è stato). Alle 21:05 siamo a Termini. Mio fratello non può venire a prenderci; ci tocca prendere il taxi. Verso le 22:00 siamo tutti seduti nel salotto di casa sua a mangiare pizza. Tornerò in Spagna con 3 o 4 kili in più, ma sono felice. La felicità implica più peso corporeo. Ma ogni tanto fa bene rompere le regole e non seguire dieta di sorta. Domani sarà il 12 Gennaio. Sarò in Spagna. La mia seconda patria. Che difficile il ritorno alla routine dopo questo viaggio così denso e bello e allettante. Quant’è dura tornare alla realtà di tutti i giorni.

 

 Lo stress di tutti i giorni Sembra sia un fenomeno universale, che riguarda tutti, senza distinzione di genere, età, condizione sociale. Lo...