Circondati

E’ da molto che non
lascio qualcosa di scritto su questa sorta di “diario virtuale” al bordo
di (quello che mi succede, soprattutto quando leggo) e di bordo (come fosse il resoconto del mio viaggio personale su
questa Terra). E il motivo dell’assenza è semplice: ho avuto altro da fare,
come, ad es., viaggiare per l’Italia (ma quant’è bella la “dotta”, la “grassa”,
la “rossa”? Bologna… che colori! Che incanto! Che città vivibile! Che cucina! E
quanto risulta affascinante Firenze, quando non ci vivi? Erano 4 anni che non
vi mettevo piede; dopo averci vissuto quasi 4 anni e mezzo; è stato strano
ripercorrere le stesse strade di una volta, rivedere Ponte Vecchio, con gli
innamorati di sempre che si fanno i selfie di oggi, e Ponte alla Carraia, forse
più proletario ma non meno bello dell’altro, con la gelateria più buona della
città, e Porta Romana e i Giardini di Boboli e Porta a Prato, quanti ricordi,
mio dio, quanti! E Roma? Che cosa potrei mai dire di Roma che non abbia già
scritto qui milioni di volte e cioè che, più che uno spazio geografico è uno
stato d’animo? Cosa si potrebbe aggiungere? Roma, l’immensa, la caotica, la
sporca, la stressante capitale della povera Italia…). E poi leggere (anche
l’ultimo di Umberto Eco, Numero zero,
anche se non mi ha convinto…anzi, mi ha lasciato uno strano sapore in bocca,
come di qualcosa di non finito, o di non portato a termine come si dovrebbe,
insomma, qualcosa d’inconcluso). E poi vivere, come tutti…
E insomma, tra una cosa
e l’altra, era tanto che non tornavo a scrivere su queste pagine online e oggi
vi faccio ritorno perché ci sono cose che lasciano il segno, come, ad es.,
constatare che siamo circondati (tutti e tutti i giorni, continuamente) da
morituri, da gente condannata a morire, a partire da noi stessi, anche se è
raro che uno si concepisca o si veda o si immagini come “cadavere in potenza”,
futuro defunto… Eppure è così, è una legge di natura, perché, prima o poi
(speriamo “poi”) tutti dobbiamo morire (“ricordati che devi morire”, ricordava
un vecchio a Massimo Troisi in quel piccolo gioiello di commedia all’italiana
che è Non ci resta che piangere, con Benigni a fare da spalla, e Massimo
Troisi, catapultato in un Medioevo assurdo, risponde: “Sì, sì, mo me lo segno”
o “mo me lo scrivo”…).
E uno si rende conto che
deve morire soprattutto quando la Morte tocca coloro che ci sono più vicini…
Come una studentessa (nel mio caso particolare) o una collega con cui condivido
alunni, ore di studio, spazi, libri e appunti.
La studentessa si chiama
Y. e ha circa 30 anni, ma portati bene. La vedo avvicinarsi allo studio
accompagnata dalla madre, una donna sui 50 o sui 60 ma portati bene (i capelli
grigi raccolti in una crocchia, all’antica, anche se veste dei jeans che ne
mettono in risalto un fisico asciutto e prestante). Y., invece, cammina a
rilento con delle stampelle. La sua difficoltà di movimento mi fa venire subito
in mente una scena di La teoria del tutto,
quel film melodrammatico che ci racconta in modo efficace anche se a volte fin
troppo strappalacrime la vita di Stephen Hawking, lo scienziato che ha
rivoluzionato parte della scienza e della fisica quantistica moderna con le sue
scoperte sul tempo e sui buchi neri… Arranca, si nota che fa fatica, e io la
accolgo e ora non riesco nemmeno a ricordare se le ho stretto la mano o se mi
sono solo limitato a dirle: “Salve, lei deve essere Y.”. Sono stato proprio un
disgraziato, un maleducato, se non le ho stretto la mano o se non ho fatto almeno il gesto di
volergliela stringere… Comunque, ci eravamo sentiti per telefono una settimana
prima, avevamo concordato l’appuntamento telefonicamente, e non sapevo ancora
che tipo di studentessa fosse e perché a lei sì potevamo dare il permesso di fissarsi
da sola il giorno dell’esame. La vicerettrice mi avvisa e mi spiega che Y.
soffre di cancro, un cancro che i dottori ancora non sanno dire se benigno o
maligno, una malattia che si riproduce a scadenze quasi fisse e che obbliga la
paziente ad assumere morfina per attenuare i dolori e a sottoporsi ad
operazioni alla schiena ogni ogni x mesi… Finché te lo spiegano persone esterne tu
puoi perfino arrivare a capire; ma quando poi vedi Y., la paziente, come
direbbero i suoi dottori, allora cominci a tremare e ti chiedi: “Ma come fa?
Come può andare avanti così, con tanta energia positiva, con tanta…voglia di
fare?”.
Y. inizia a farmi
domande sul programma, vuole sapere più o meno quali sono gli articoli più
importanti da studiare, quali i manuali o i libri di riferimento. Io le
rispondo gentilmente, ricordandomi del fatto che – come la vicerettrice mi ha
confermato – a Y. non facciamo sconti, anche se a volte si è presentata
all’esame insieme alla madre e sotto l’effetto della morfina, lei non vuole che
le si dimezzi il programma, vuole arrivare alla laurea come tutti gli altri,
studiando la stessa identica quantità di materiale, non è una vittima né fa del
vittimismo.
E allora, dopo un po’,
non so bene nemmeno io perché, le chiedo come va il resto e Y. comincia a
raccontarmi di come è cambiata la sua vita a partire dai 23 anni, quando la
malattia ha fatto la sua comparsa la prima volta, e come ha dovuto armarsi di
coraggio e di forza di volontà per non soccombere, e per ora è andata bene, per
ora è lei che ha vinto la battaglia contro il cancro, e io quasi piango perché
noto che le brillano gli occhi, sta per piangere anche lei e non ci sono le
parole giuste per esprimere quello che quegli occhi vogliono trasmettermi, non
ci sono…
La collega si chiama C.,
ha 34 anni ed è una brillante linguista che ha scritto un sacco di articoli e
di saggi sulla lingua e sui rapporti tra lingua standard e linguaggio
pubblicitario (come funziona la retorica quando bisogna convincere i futuri
acquirenti). Ha partorito da due settimane il secondo figlio, il primo ha già
due anni e cresce sano e forte. Non è sposata, ma una volta ho incontrato suo
marito, un tipo un po’ freak che uno immagina dietro a una postazione da deejay
o su una spiaggia a servire cuba libre, una faccia da simpaticone, uno che
vedresti benissimo a spacciare hashish ad Amsterdam o a Pescara… Nel complesso,
C. e il compagno fanno una bella coppia, si vede che si vogliono bene e che, a
differenza di molti, non sentono il bisogno di avere una firma davanti a un prete
o a un impiegato comunale per sancire ufficialmente il loro amore.
Ieri mi chiamano e altri
colleghi in comune mi avvisano: C. è entrata in sala rianimazione, ha avuto
un’emorragia cerebrale e non si sa se si salverà. Tremo e non riesco a reagire,
per un attimo mi manca il fiato, poi la vita riprende il suo cammino, bisogna
continuare a vivere, noi che non siamo ancora in una sala di rianimazione, e
bisogna accenderlo il cazzo di computer per rispondere alle email dei tanti
studenti che ti rompono le scatole, anche oggi, anche stamattina, anche ora che
hai appena ricevuto una notizia del genere.
Accanto a me una collega
(di Storia Moderna) fa una rapida ricerca su Google e scopre che, negli ultimi
10 anni, i casi di donne che, una volta partorito, muoiono per complicazioni o
improvvisi infarti o emorragie interne o ictus cerebrali sono aumentati del
54%... Io non lo so bene a quanto equivale questo 54%, ma – come tutti – mi
domando se l’aver dato alla luce un bambino di appena 2 settimane abbia una relazione
inequivocabile con il fatto che ora sua mamma stia rischiando di lasciarci la
pelle in una sala di rianimazione…
Poi passa il tempo: e la
vicerettrice si avvicina al nugolo di curiosi e di gente che conosce C. e ci
avvisa: “Sembra sia fuori pericolo, i dottori dicono che ha riconosciuto i
parenti più stretti e che ha chiesto dei due bambini”.
Tremo e penso: maledette
email degli alunni che rompono le scatole. E poi ricordo il caso di Y. e il suo
sguardo, i suoi occhi luminosi sul punto di scoppiare a piangere e penso che
siamo davvero tutti morituri e che siamo circondati da gente che ci abbandonerà
e che, purtroppo, bisogna andare avanti lo stesso perché la vita è fatta così,
è strutturata, organizzata in questo modo così assurdo per cui oggi C. e Y. e
io stesso ci siamo e domani non possiamo saperlo. Tutti circondati. Tutti
condannati, in teoria. Anche se non sappiamo né mai potremo sapere quando…