viernes, noviembre 30, 2018

Liverpool from the port


Uno dei porti più importanti di tutta la Gran Bretagna, Liverpool ti accoglie come una città a misura d'uomo e cosmopolita. A detta di una collega che lavora qui, a Liverpool la maggioranza ha votato NO al "Brexit"; ed è anche normale, se pensiamo che qui ci vivono centinaia di migranti, soprattutto cinesi, rumeni, polacchi, italiani e spagnoli.

Liverpool è una città accogliente anche perché basta fare una passeggiata in centro ed essere sommersi dalla musica. E non parlo di quella colonna sonora costante e, a tratti, che urta i nervi e l'udito, che emettono i negozi e i grandi centri commerciali, no, mi riferisco soprattutto alla musica 'live', quella che suonano gruppi di giovani che, sognando il successo, imitano i Beatles che da qui sono partiti alla conquista del mondo e della Storia della Musica.

Da Victoria Street, dopo aver attraversato il quartiere "chic" della città, arriviamo al nº 10 di Matthew Street e sprofondiamo quattro piani al di sotto del livello stradale per scoprire The Cavern, il 'club' dove, appunto, nel lontano 1957, tutto cominciò ("and the Beat goes on", come recita una targa che commemora le gesta dei quattro col caschetto e i baffetti).

John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison li trovi ovunque, a Liverpool, a ogni angolo e in ogni spazio pubblico, i loro volti sono riprodotti e messi in circolazione sotto forma di poster, statue, gadgtes e souvenirs. Come fa Don Chisciotte nella Castilla La Mancha più profonda. Sono "icone" che hanno lasciato un'impronta indelebile sulla città.

Liverpool è accogliente anche per l'immensa e ristrutturata secondo i canoni postmodernisti "City Central Library": un vero Paradiso per chi ama i libri e la lettura, un palazzo immenso pieno di vetrate e di scale mobili, di strutture in metallo e parquet che ti fa sentire in un film di fantascienza.

"Explore"; "Imagine"; "Search": le insegne gigantesche dei vari piani e delle varie sezioni t'invitano davvero a "esplorare", "immaginare" e "cercare" attraverso la montagna di libri e riviste e cd e dvd accumulati e custoditi qui dentro. Non è un caso se Liverpool è stata la capitale europea della cultura nel 2008

Il pomeriggio sul tardi (ovvero, qui, attorno alle 17:30) si va a guardare il tramonto in uno dei luoghi emblematici della città: il porto. 

Si percepisce ancora nell'aria il caos, il rumore poliglotta, le grida in varie lingue dei milioni di marinai che vi hanno lavorato e dei milioni di passeggeri, migranti e naviganti che lo hanno attraversato nel corso della Storia.

Albert Dock è uno dei moli più interessanti e ripuliti in nome delle mode del tempo: c'è la "Tate", come a Londra, per vedere le mostre temporanee; c'è una piccola biblioteca-museo dedicata, ovviamente, ai Beatles; e ci sono un sacco di statue che commemorano le gesta di capitani e soldati che, da Liverpool, sono salpati per andare a combattere le due guerre mondiali e che, in nome della pace e della libertà, in nome del loro Paese, sono morti in battaglia (molti per mare). Ancora oggi c'è qualche passante che deposita un mazzo di fiori o una ghirlanda in memoria di questi personaggi ignoti che, comunque, hanno scritto la Storia dell'Inghilterra e, in particolare, di Liverpool.

Sono atterrato Lunedì; dovrò ripartire Domenica; ma sono certo che a Liverpool potrei passarci perfettamente un paio di mesi...

lunes, noviembre 26, 2018

Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle: quando la scrittura sovverte, rompe e illumina l'inquadratura


Ieri ho visto per la prima volta un film di Louis Malle (un regista che rincorsi da adolescente per il suo Zazie nel metrò, tratto da Raymond Queneau; continuo a rincorrerlo...prima o poi lo raggiungerò, voglio proprio vedere come ha fatto a portare sul grande schermo il romanzo sperimentale dell'autore degli 'Esercizi di stile'). 

Si tratta di un film triste, oserei dire quasi "esistenzialista", perché parla di temi molto vicini alle ossessioni letterarie e filosofiche di autori come Céline, o Sartre, o Albert Camus (che pochi anni prima avevano trattato o toccato in ambito letterario gli stessi drammi che qui tratta o tocca in ambito cinematografico il regista francese).

Il film parla di Alain Leroy, un uomo sulla quarantina che, a dispetto del cognome, si sente un perdente nato, un fallito senza salvezza. Dopo la cura dall'alcolismo portata avanti a suon di "sanatorio", in una clinica di Versailles, decide di prendere in mano le redini della sua vita e di ...uccidersi. Prima, però, decide di rimettersi in contatto con i pochi, sparuti amici che ha ancora a Parigi. L'amico con cui ha fatto carriera militare ai tempi della guerra contro l'Algeria; l'amica che si dedica alla pittura e convive con un poeta "maledetto" imborghesito; l'amico ricco, ricchissimo, che vive con Solange, una sua antica fiamma, una donna bellissima che gli ricorda che non tutto è perduto (Alain ha avuto varie amanti, anche se sostiene di non saper fare bene l'amore e per questo, alla fine, sia Dorothy (sua moglie) che Lydia (l'amante) decidono di lasciarlo).

Ci sono almeno due o tre scene che rendono intrigante la visione del film; ma quella su cui vorrei soffermarmi è quella in cui Alain si mette a scrivere una sorta di diario, una serie infinita di fogli scritti a matita su cui scartabella, fa degli schizzi, disegna e cancella con ritmo da forsennato.

Ecco, questa scena ricorda immediatamente quella in cui Jack Nicholson in Shining perde completamente il controllo e, per mancanza d'immaginazione, si mette a riempire fogli su fogli di frasi senza senso ("Il mattino ha l'oro in bocca"...). E la prima riflessione che viene spontanea di fronte a scene simili è che il mestiere della scrittura è - esattamente come il "mestiere di vivere", per citare un grande - molto difficile; tanto difficile che, appunto, se manca l'ispirazione si può rischiare d'impazzire.

La seconda riflessione riguarda lo spettatore: basta che il regista decida d'inquadrare la scrittura (un pezzo di carta, una lettera, anche un frammento tratto da un giornale o, appunto, da un diario) che subito l'apparizione delle lettere su carta stampata e scrivibile rompe l'inquadratura, la sfonda verso ambiti ignoti allo spettatore che, da quel momento in poi, si chiederà cosa diavolo ci sarà scritto sul diario di Alain Leroy, potenziale suicida che poi, alla fine, ed in effetti, si uccide sul serio.

Quando un regista inquadra un personaggio nell'atto di scrivere, quando un regista addirittura si spinge a inquadrare quasi in primo piano una pagina scritta, ecco che la scrittura destabilizza l'inquadratura e porta lo spettatore a "vedere" cose che non può "leggere" (perché non c'è tempo; perché non conviene; perché aleggia nell'aria un'aura di mistero).

Ecco, dunque, che la scrittura al cinema (quando è citata, o solo evocata di sbieco, quando appare in primo piano, o sullo sfondo e in modo sfuocato), ecco, dicevo che la scrittura al cinema sovverte, scuote o adirittura rompe l'inquadratura verso mondi di significato che possiamo ricostruire solo con la nostra propria immaginazione; ecco come la scrittura al cinema, infine, illumina dall'interno la stessa inquadratura perché spinge lo spettatore a prestare ancora maggiore attenzione (a quello che vede; a quello che sembra sia scritto sulla pagina e riesce a leggere; a quello che pensa il personaggio se - come Alain Leroy - si abbandona al flusso di coscienza e monologa spesso e volentieri con se stesso, con il suo "io" più intimo e turbato).

Alla fine, nessuno di noi saprà mai (né potrà mai scoprire) cosa diavolo scrivesse nel suo diario il protagonista; quello che è certo è che nemmeno la scrittura del diario lo salva dall'ultimo, estremo gesto di auto-distruzione. E lo sparo ancora riscuona nelle nostre orecchie di spettatori attenti e curiosi e, a volte, impertinenti...

lunes, noviembre 12, 2018

2001: A Space Odissey: 50 anni e non li dimostra


Ieri, Domenica, 11 di Novembre del 2018, sono andato al cinema a vedere 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick e - come immaginavo - è stata un'esperienza incredibile, dall'impatto emotivo fortissimo.

Era la quarta (o forse quinta) volta che vedevo il film, ma è inutile dire che contemplare la danza delle navicelle spaziali sul grande schermo è tutta un'altra storia. Idem per le musiche: ascoltare Il bel Danubio blu di Johann Strauss in dolby surround è un'altra musica, in effetti...

E uno che ha visto il film in passato, che già conosce la storia, che sa a memoria alcune scene, ebbene, questo qualcuno resta comunque a bocca aperta dinanzi alle nuove scoperte che può fare ri-guardando e ri-contemplando il film...

Ne ho parlato anche in passato in questo blog, 2001 ti cambia il modo di guardare il cinema e di guardare la realtà fisica in cui ti trovi e questo solo pochissimi film riescono a farlo. E quando ti abbandoni a una nuova, ulteriore visione e tale visione avviene all'interno di una sala cinematografica, ecco che 2001 ti svela "pezzi" di sè che non avevi mai notato prima, come il "selfie" ante-litteram che si fanno gli astronauti mentre una navicella sta portando il Dr. Floyd sulla Luna (e la macchina fotografica che usano all'uopo si assomiglia molto a quelle che sarebbero state fabbricate di lì a poco per scopi scientifici); o come il silenzio siderale assoluto che - proprio in contrasto con la musica che fa parte della colonna sonora - risuona ancora di più nella mente dello spettatore (come nella scena in cui Bowman ha appena riacciuffato il collega Poole, ma Hal 9000 si nega ad aprire il portellone della base spaziale in cui la fa da padrone e obbliga Bowman ad una manovra azzardata al fine di poter riprendere il comando della situazione; c'è un silenzio che atterra nello spazio, un silenzio immenso ed assurdo che fa venire letteralmente i brividi, al di là dei rumori dell'armamentario informatico e tecnologico di cui l'uomo si è dotato per arrivare fino alla Luna, a Giove ed oltre...); o come la voce assurdamente ironica di Hal 9000 che, nel doppiaggio italiano, non genera lo stesso effetto quasi comico: Hal 9000 parla come un gentleman, come un aristocratico, come un nobiluomo che quando si mette in testa di fare le bizze non c'è verso di frenarlo né di farlo ragionare...(e la cantilena che emette quando Bowman lo disattiva è una cantilena dell'orrore, sembra davvero che il computer abbia vita autonoma e indipendente dall'essere umano, sembra quasi morire davvero in diretta davanti ai nostri occhi umani).

Per non parlare della video-chiamata del Dr. Floyd a sua figlia (che, nella realtà, è la figlia di Kubrick), una telefonata via webcam che anticipa di diversi decenni l'invenzione di Skype; per non parlare delle due "tablet" che consultano Bowman e Poole quando hanno finito di fare ginnastica e si mettono a guardare il servizio della BBC che parla del loro viaggio e della loro missione intergalattica (Steve Jobs doveva ancora inventarla la Apple; e così pure l'IPad, ma quei due rettangoli da cui i due astronauti guardano il tg è davvero quello che noi oggi chiamiamo un IPad, anche questo ante-litteram).

E poi c'è il finale psichedelico, una delle scene più sconvolgenti di tutta la storia del cinema: quando Bowman (l'arciere, come Ulisse, che quando torna ad Itaca dovrà affrontare, tra le altre, la prova dell'arco) si addentra in un fantasmagorico vortice di colori e forme e finisce "oltre l'Infinito", ovvero, all'interno di una stanza perfettamente illuminata e dallo stile settecentesco in cui s'imbatte in un "se stesso" invecchiato che, a sua volta, s'imbatte in un suo "doppio" sul punto di morire che, a sua volta, e allungando la mano verso il famoso (e misterioso) monolite nero si trasforma in un feto o neonato che galleggia rilassato e quasi sorridente all'interno di una sfera luminosa o utero materno che, a sua volta, si libra nello spazio siderale osservando a distanza la sfera terrestre...

Come spiegare un finale del genere? Come superare quei minuti infiniti di caduta verso l'ignoto (coloratissimo) e poi di apparente morte all'interno di quella stanza rococò? Perché il bambino sembra sorridere? Verso chi è rivolto il suo sorriso?

2001: A Space Odissey ci fa viaggiare nei meandri più segreti e occulti e inspiegabili dell'animo umano e ci fa intuire quanto Infinito c'è non solo là fuori, nell'Universo, ma anche dentro di noi, in quel magma amorfo e ingovernabile che è l'anima umana.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...