domingo, noviembre 22, 2020

Spade




Ci risiamo. Il problema è sempre quello: il tempo. Quando trovare il tempo (ma aggiungerei anche: lo spazio) per portare a termine 2 articoli che mi hanno chiesto da più di 3 mesi; l'uno su Luis Cernuda (uno dei miei poeti preferiti di sempre, insieme a T. S. Eliot e P. P. Pasolini), l'altro su un argomento a piacere (e, ovviamente, quando ti lasciano spazio per poter scrivere su ciò che più t'appassiona, ecco che arriva il blocco, lo stallo della scrittura: l'idea sarebbe quella d'illuminare almeno un po' l'annosa questione dei rapporti tra "parole e immagini" a partire dalla narrativa spagnola più recente; per dire: tentare di rispondere alla domanda: "Che ci fanno le immagini nei romanzi?" - per "immagini" non intendo soltanto le fotografie, ma anche i ritagli di giornale, documenti d'epoca, cartine, mappe, etc.; ma anche riferimenti ad opere d'arte vere e/o inventate; a quadri, a sculture, etc.).


E così, mentre più d'un collega finisce in quarantena preventiva e domiciliare (troppi i nostri studenti che se ne fregano del virus e della distanza sociale; troppi quelli che, appena fuori dall'aula, si abbassano la mascherina), cerco di fare il punto della situazione, mentre la prole mette a soqquadro la casa e c'è chi suona il piano e chi sbatte le pentole sul pavimento (poveracci quelli che ci abitano sotto!).


Non ricordo più se fu Enrique Vila-Matas o un altro a dire che lo scrittore deve (sempre) essere figlio, non può (non dovrebbe) mai essere padre, perché i figli rubano il tempo alla scrittura; poi penso a Sandro Veronesi (padre di 5 figli, se non ricordo male) e capisco che non è un'equazione matematica, anzi: lui scrive anche quando è circondato da figli che fanno rumore (così - mi par di ricordare - disse o scrisse da qualche parte).


Figli o non figli, io non sono uno scrittore (anche se, ovviamente, per il lavoro che svolgo, pubblico da anni e ho tradotto libri di altri; questo blog non conta, è puro "divertissement") e, però, capisco bene quei genitori che dicono d'impazzire quando i figli ti assorbono troppo; è davvero inenarrabile il modo in cui i figli, soprattutto quando sono ancora bambini, ci portano via il tempo, lo spazio e l'energia (un lavoro faticosissimo che sì, è vero, è ovvio, è certo, apporta anche tante enormi e bellissime soddisfazioni, ma, ragazzi, quanto sudore anche, quanta fatica!).


Poi penso ad un altro approccio: le scene con la spada. Mi viene in mente la famosa interruzione tra il cap. 8 e il cap. 9 della Iª Parte del Quijote, quando, appunto, Don Quijote è sul punto di scagliare la sua spada sul bilbaino e cosa succede? S'interrompe la storia, perché - afferma il narratore esterno - il manoscritto finisce proprio lì, sul più bello (Nabokov parla di uno "splendido fermo immagine"). Bisognerà leggere l'incipit del 9 capitolo per capire cosa è davvero successo a quel manoscritto e scoprire come, grazie a un enorme colpo di fortuna e a uno scherzo del destino, Cervantes (che non è il "padre", bensì il "padrastro" o il "padrino" dell'opera) s'imbatterà proprio nel manoscritto interretto all'altezza del famoso duello, e potrà così continuare a leggere come finisce la scontro, dove vanno a finire quelle due spade levate in aria con violenza...previa traduzione di un ragazzo arabo che lo stesso Cervantes paga e fa accomodare in casa sua affinché traduca, perché il manoscritto (del famoso storico Cide Hamete Benengeli) è scritto in lingua araba...


E allora mi viene in mente l'altra scena di una spada levata in aria: quella che si svolge all'interno di un bagno per disabili di una discoteca di Londra nella IIª parte di Tu rostro mañana ("Il tuo volto domani") di Javier Marías: anche lì c'è suspense, anche lì una tensione enorme: Bertram Tupra ucciderà o no il povero malcapitato che sta intralciando il suo lavoro di spia? (consiglio ai lettori italiani: comprate "Il tuo volto domani" e leggetene tutto).


E allora mi viene in mente la scena del duello sulla spiaggia tra uno dei personaggi di 2666 di Roberto Bolaño e un critico letterario (alter ego di Ignacio Echeverría, amico e curatore delle opere postume del grande scrittore cileno). Anche lì c'è di mezzo una spada, o forse due, ci si sfida a duello come se si vivesse ancora nel Medioevo... Ecco: dovrei andarmi a ricercare quella scena e dovrei rileggermela, per capire se c'è anche qui un velato omaggio o riferimento a Cervantes...E poi fare il salto all'indietro, la capriola ermeneutica decisiva per scoprire che, prima del Manco di Lepanto, c'è stato Ludovico Ariosto (che Cervantes amava e leggeva tra i suoi autori preferiti di sempre), il quale, nell'Orlando Furioso, chissà quante volte utilizza il trucchetto delle spade levate in aria e sul punto di scontrarsi tra di loro, di fare letteralmente le scintille, per poi interrompere tutto, perché finisce il canto e bisognerà andare subito a leggersi il capitolo successivo per vedere come narrazione prosegue...nella prossima puntata. 


Riuscirò a trovare il tempo (e lo spazio) giusto per questi scandagli? Ai posteri l'ardua sententia.

viernes, noviembre 06, 2020

 

Carlo Rovelli e Antonio Moresco (con Italo Calvino sullo sfondo)



Nel Sud del Sud della Spagna in cui vivo da ormai quasi 10 anni c’è un amico fisico che si occupa di Metamatematica con cui mi diletto a discettare dei Massimi Sistemi. L’ultima volta che ci siamo visti, dopo il lockdown generale (e totale) che ha messo in ginocchio il Pianeta, siamo andati a farci una pizza nella nostra pizzeria preferita (gestita da italiani – da Napoli a Torino, passando per Roma: tutti bravissimi e gentilissimi – un vero lusso per chi sente la nostaglia della cucina nostrana) e ci siamo messi a chiacchierare delle due sonde spaziali “Voyager 1” e “Voyager 2” mandate oltre i confini del Sistema Solare dai tipi della NASA il 5 settembre del 1977, ovvero, 3 giorni prima che io venissi al mondo e vedessi la luce.

Ovviamente, il mio amico fisico ne sapeva più di me: mi ha spiegato a che velocità viaggiano queste due sonde spaziali; come funziona il concetto di velocità (e di anni luce) quando si sfonda il tetto del Sistema Solare e si entra nello Spazio Interstellare; e – soprattutto – mi ha raccontato del disco d’oro che è stato “caricato” sulle sonde e su cui gli ingegneri aerospaziali della NASA hanno registrato immagini (fotografie e disegni), musica e suoni (naturali e artificiali) per lanciare un messaggio di pace agli eventuali alieni che dovessero imbattersi in queste due navicelle intergalattiche…

Ecco: questa storia del “messaggio lanciato in una bottiglia”, ovvero, del disco d’oro costruito ad uso e consumo di eventuali altri esseri viventi (oltrechè intelligenti) sparsi per le Galassie (di cui nemmeno conosciamo l’esistenza o di cui non possiamo nemmeno sospettare la natura e l’origine, la configurazione fisica e le caratteristiche materiali) mi ha colpito davvero molto, mi ha lasciato a bocca aperta e mi ha spinto (inevitabilmente) a fare ricerche in materia (io che sono di Lettere).

Poi, all’improvviso, m’imbatto in un altro fisico, evidentemente più famoso del mio amico esperto di linguaggio metamatematico: accade una sera, dopo il Tg, quando Carlo Rovelli presenta da Fabio Fazio il suo ultimo saggio, Helgoland (Milano, Adelphi, 2020) che, pur non vertendo affatto sulla “Voyager 1” né sulla “Voyager 2”, m'intriga al punto da ordinarlo su internet e farmelo recapitare a casa.

Ed ecco la sorpresa nel leggere il saggio (sulla “meccanica quantistica”, ovvero, su quella parte della fisica che si occupa di studiare l’infinitamente piccolo, i neutrini e i buchi neri): Carlo Rovelli mi ricorda Antonio Moresco nei suoi momenti più algidi e geniali, quando lascia galoppare la propria immaginazione al di là dei concetti (e delle categorie kantiane) dello “spazio” e del “tempo”. Incredibile! (esclamo da solo). Un fisico che si esprime come un romanziere! Ma com’è possibile?


Vediamo un primo esempio:


“Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità […]: un fotone, un gatto, un sasso, un orologio, un albero, un ragazzo, un paese, un arcobaleno, un pianeta, un ammasso di galassie… Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non gli oggetti isolati. Un gatto ascolta il ticchettio dell’orologio; un ragazzo lancia un sasso; il sasso sposta l’aria dove vola, colpisce un altro sasso e lo muove, preme sul terreno dove si posa; un albero assorbe energia dai raggi del sole, produce l’ossigeno che respirano gli abitanti del paese mentre osservano le stelle e le stelle corrono nella galassia trascinate dalla gravità di altre stelle… Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni” (id., p. 84).

 

Non sembra, oltre che Antonio Moresco, l’Italo Calvino delle famosissime Lezioni americane? Non è un bellissimo esempio di prosa poetica in cui la “leggerezza”si unisce all’ “esattezza” e alla “molteplicità” (come tutti ricorderanno, si tratta di 3 delle 6 “proposte per il prossimo millennio” che Calvino elaborò in quelle famose lezioni americane che poi divennero un libro).


Ma andiamo avanti: a p. 161 si legge la seguente riflessione (a metà tra la metafisica e la letteratura):

 

“La convinzione su cui questo libro si appoggia [e Carlo Rovelli ci tiene a spiegare che senza una “convinzione” forte non si può fare fisica, né matematica, né alcuna scoperta scientifica degna di questo nome] è che noi creature umane siamo parte della natura. Siamo un caso particolare fra tanti fenomeni naturali, nessuno dei quali sfugge alle grandi leggi naturali che conosciamo. Ma chi non si è mai chiesto: “Se il mondo è fatto di semplice materia, particelle in moto nello spazio, come è possibile che esistano i miei pensieri, le mie percezioni, la mia soggettività, il valore, la bellezza, il significato?”. Come fa la “semplice materia” a produrre colori, emozioni, la sensazione viva e bruciante che ho di esistere? Come fa a conoscere e imparare, commuoversi, meravigliarsi, leggere un libro, e arrivare a chiedersi come funziona la materia stessa?”.

 

Ecco: qui riecheggia, di nuovo, la prosa iperbolica e lirica, commossa e commovente, di Antonio Moresco. E io non lo so (né lo posso sapere né, probabilmente, arriverò mai a saperlo) se Carlo Rovelli abbia letto i romanzi di Moresco, ma – per Bacco! – è evidente, è chiarissimo che qui chi si pone questo tipo di domande somiglia in modo strabiliante ai vari narratori che (ci) raccontano (stupiti e dantescamente impossibilitati a dire tutto) i vari Canti del caos (o Gli Esordi, o gli ineffabili Gli increati – che poi, come sanno benissimo i fan di Moresco, costituiscono la famosa trilogia che l’autore stesso ha ribattezzato L’increato, termine che, diciamolo pure, sembra piuttosto vicino al campo semantico delle teorie quantistiche e alle ipotesi che la “meccanica quantistica” continua a porre sul tavolo della ricerca scientifica più estrema ed avanzata). 


Ma potremmo anche ribaltare il punto di vista: dopo aver letto Helgoland, uno si rende conto che in queste opere Moresco assume, dunque, i panni del fisico quantistico, di quello scienziato che s’interroga senza sosta (e senza trovare ancora risposte plausibili) attorno agli enigmi che ci rendono umani, quei misteri che, da sempre, rendono “filosofo” l’uomo (Aristotele ce lo ricorda da sempre: è la “meraviglia” e la “curiosità” a provocare la spinta dell’essere umano verso la “filosofia” – o la domanda “filosofica” – quella cioè legata a doppio nodo all’amore verso il sapere).

 

Ed ecco, infine, un terzo brano che, oltre che a Italo Calvino e ad Antonio Moresco, potrebbe far venire in mente Luigi Pirandello (e le sue teorie sull’ “umorismo”, inteso in quanto atteggiamento perennemente relativistico dell’uomo sulla realtà – e sulle apparenti verità – che lo circondano):

 

“Se guardo una foresta di lontano vedo un velluto verde scuro. Avvicinandomi il velluto si sgrana in tronchi, rami e fronde. La corteccia degli alberi, il muschio, gli insetti, brulicano di complessità. In ciascun occhio di ogni coccinella c’è una struttura elaboratissima di cellule, connesse a neuroni che la guidano a vivere. Ogni cellula è una città, ogni proteina un castello di atomi; nel nucleo di ogni atomo si agita un inferno di dinamica quantistica, vorticano quark e gluoni, eccitazioni di campi quantistici. E non è che un piccolo bosco di un piccolo pianeta che ruota intorno a una stellina, fra cento miliardi di stelle di una fra mille miliardi di galassie costellate di eventi cosmici abbacinanti. In qualunque angolo dell’universo troviamo vertiginosi pozzi di strati di realtà” (id., p. 182).

 

Verrebbe da dire, a lettura terminata, dopo un brano così visualmente efficace e cinematografico (da una panoramica Rovelli si avvicina alla realtà fenomenica con uno zoom attraverso il quale si entra dentro le cellule e poi dentro gli atomi e poi dentro le particelle più piccole e poi…): “e il naufragar m’è dolce in questo mare” (perché Rovelli è anche leopardiano, oltre che pirandelliano, quando scrive così, quando ci mette sotto gli occhi – senza abusare delle mefatore né visuali né d’altro tipo – le cose, gli oggetti e i fenomeni che gli interessa che noi si torni ad osservare con più attenzione, con rinnovato stupore, con aristotelica meraviglia…).

 

E allora lo faccio: chiamo il mio amico fisico esperto in linguaggio metamatematico e gli declamo, per telefono, il brano appena citato. E lui mi risponde: “Ti dirò, caro mio: alla fisica erotica preferisco quella teorica”. E sorride. E rido di gusto. Mentre lui mi parla male del collega (troppo famoso, chissà quanti soldi gli hanno dato per andare da Fazio o quanti ne prende per le lezioni che dà in giro per il mondo) e io continuo a pensare a quanto potrebbe essere contento Carlo Rovelli di scoprire la letteratura di Antonio Moresco e – specularmente – a quanto potrebbe essere felice Antonio Moresco nello scoprire la fisica quantistica così come la spiega (la narra, la canta) Carlo Rovelli nel suo Helgoland.

 

To be continued…

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