jueves, octubre 27, 2011

Desirée


Oggi ho conosciuto Desirée, una studentessa di Lingue che non segue i miei corsi e che mi ha intrattenuto, mentre ero in coda all'ufficio prestiti della Biblioteca Centrale dell'Università in cui lavoro (da precario, come ormai da tanti anni), illustrandomi i suoi progetti per il futuro (immediato).

Desirée è una bella ragazza con gli occhiali spessi alla Woody Allen (sono tornati di moda, pare) ed è una tipa socievole, piuttosto espansiva, dotata di parlantina e di voglia di fare. Indossa un lungo cappotto scuro tutto sgualcito; ha i capelli lunghi neri e mossi e gli occhi verdi; una maglietta colorata (d'un verde o rosa o fucsia quasi fluorescente) e un paio di pantaloni strappati all'altezza delle ginocchia. Ai piedi, un paio di Converse rosse (anche queste piuttosto usate, di persona che cammina molto).

Desirée studia Inglese e Francese, si occupa di letteratura femminile (sarà anche femminista?) e di gender studies; ma un giorno - mi confessa - lesse Goethe, il suo Viaggio in Italia, e ne rimase folgorata. Le sono piaciuti, in particolare, i brani che lo scrittore dedica ai paesi e paeselli che ha trovato lungo il cammino da Napoli a Salerno (o viceversa); e Desirée è rimasta a bocca aperta pensando alla differenza abissale, ai cambiamenti inesorabili e in peggio che quei paesi hanno assunto oggi, nel trascorrere del tempo e a distanza di tanti anni (più di un secolo fa - il libro di Goethe uscì nel 1829, anche se il viaggio lo fece quando aveva 37 anni, nel 1786).

Desirée si è messa in testa di fare un documentario sui "paesi nascosti", sugli scempi che la camorra o lo Stato (o entrambi, insieme, e allo stesso tempo) hanno lasciato su questo territorio ben circoscritto e sul fatto che bisogna recuperarli e prendere coscienza di quanto non si fa e di quanto si potrebbe fare per migliorare il paesaggio, e l'Italia intera, forse.

A tratti, mentre l'ascolto infervorarsi contro chi ci governa, mi fa venire in mente Roberto Saviano. Altre, mi fa ridere (Desirée è una tipa anche molto "teatrale", gesticola molto, si muove, quando parla, ed ha una faccia davvero espressiva).

E rimango a bocca aperta quando mi racconta che, in alcuni di questi paesi a rischio, la gente (giovani come lei o anche persone anziane e con una certa esperienza dei pericoli locali) le consigliava caldamente di smetterla di fare foto, che lei è una ragazza, cosa ci fa una ragazza così carina e giovane in un posto simile? 

Desirée mi ha raccontato che se provi a domandare come si fa a raggiungere quel particolare paese, o quella determinata contrada di quel paese, la gente abbassa la voce e ti consiglia di riprendere armi e bagagli, di riprendere il trenino o l'autobus che ti ha portato fin là, e di tornare a casa... Ci sono posti che è bene non frequentare né fotografare...

Desirée, però, è anche una tipa "tosta", una testarda, che non si dà per vinta: ha già fatto diverse foto, ha accumulato un bel po' di materiale - anche se ha rischiato, in uno dei suoi tanti incontri "strani" o con gente "poco raccomandabile" - e ora è quasi pronta per scrivere (commenti alle foto e le sue riflessioni su quanto mostra, sull'Italia "nascosta" che vuol mostrare perché tanto si sa, i tg non ne parlano) e per montare il tutto (parole e immagini) e pubblicarlo su YouTube.

Desirée è l'esempio concreto, vivente, di quell'Italia che non si riconosce in chi la governa e la umilia. E' l'esempio di quella minoranza di ragazzi e ragazze che amano studiare, sono curiosi, non si limitano a leggere libri, ma cercano anche di capire toccando con mano ciò di cui si parla (o ciò di cui - volutamente - nessuno parla, perché sono argomenti scomodi o che vanno a toccare nodi irrisolti - come "a munnezza", la camorra, gli "ecomostri").

Ci scambiamo l'email; voglio proprio vedere come sarà il suo documentario. E Desirée usa subito la mia email per dirmi che si scusa se mi ha trattenuto così a lungo su certi temi. Le rispondo subito che non mi è affatto dispiaciuto: non erano chiacchiere da bar. La esorto a continuare, a non darsi per vinta, a non ascoltare chi la prende per pazza o "idealista". E penso: Desirée è "donchisciottesca" nel senso buono del termine: non una squilibrata che lotta contro i mulini a vento; ma una che, avendo ben presente la durezza e la pesantezza della realtà, cerca di staccarsene per dire la sua e farci vedere quella stessa realtà da nuovi punti di vista. Poi le consiglio il libro di un altro Don Chisciotte contemporaneo, il "paesologo" Franco Arminio (il libro, appena uscito da Mondadori s'intitola Terracarne), uno che ha perlustrato e continua a perlustrare l'Italia fatta di paesi e paesetti, villaggi e contrade che tendiamo a dimenticare o a evitare come luoghi poco interessanti o poco ospitali... quando forse è lì che si trova l'Italia più vera e sincera.

martes, octubre 25, 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino: un film irrisolto


Premessa: non svelerò il finale di un film che, non sempre coerente o costante nei suoi risultati artistici, mi è comunque piaciuto – anche per il suo finale spiazzante o poco prevedibile (forse inverosimile?).
This must be the place, come Il divo e come Le conseguenze dell’amore, rispecchia alla perfezione alcuni dei temi centrali del cinema di Paolo Sorrentino: la solitudine come condizione esistenziale di alcuni essere umani che fuggono (dalla legge, dalla realtà, dal contatto con il prossimo – sto pensando anche al protagonista dell’unico romanzo scritto, ad oggi, dal regista, quell' Hanno tutti ragione, in cui un cantante melodico di successo si ritrova a vivere una seconda vita nel “buen retiro” di un villaggio tempestato dagli scarafaggi in mezzo all’Amazzonia; ma penso anche al Giulio Andreotti nervoso e insonne che cammina, anzi, corre quasi spasmodicamente da una stanza all’altra del proprio appartamento perché preda di ansia, o incubi, o cattiva coscienza del film succitato); la ricerca della verità dietro i veli delle apparenze (ancora una volta, il dialogo “impossibile” tra Andreotti e Moro è un esempio calzante); il presentarsi improvviso e inaspettato dell’occasione che può cambiare per sempre il senso di una vita… E con quest’ultimo tema mi avvicino all’ultimo lavoro di Sorrentino: un’ex-rockstar degli anni 80 (superbamente interpretata dal – come sempre – bravissimo Sean Penn, con tanto di chioma indomabile che tanto ricorda il cantante dei The Cure) riceve una telefonata che lo poterà lontano da casa e dalla moglie: suo padre sta morendo, deve lasciare l’Irlanda per tornare in America e portare l’estremo saluto.
Ora, bisogna dire una cosa: se la prima parte del film, quella meno “cinematografica” o “romanzesca”, è estremamente interessante per il modo in cui il regista riesce a creare un personaggio così sui generis con poche inquadrature perfette, con dialoghi essenziali e precisi, con una musica che rende la colonna sonora un tocco di bravura e di sensibilità sopraffina, la seconda parte, invece, quella che avrebbe potuto far sbizzarrire il regista, risulta meno ricca di pathos o di suspense o di “azione”; Sean Penn vaga per un’America che ricorda molto da vicino quella che abbiamo già visto in Paris, Texas  di Wim Wenders e, invece che andare alla ricerca di Natassja Kinski, segue le orme del criminale nazista che ha umiliato il padre fino a spingerlo a una sete di vendetta che non si è mai placata, nemmeno in procinto della morte.
Sean Penn incontra personaggi uno più strambo dell’altro; si limita ad ascoltare, eppure, anche lui cambia a contatto con gente del genere. Quando poi scopre dove vive il nazista (ormai ultraottantenne), il film subisce un’altra svolta, di cui però, come detto sopra, non dirò.
L’impressione è che Sorrentino abbia voluto dire tante cose e tutte insieme; che si sia divertito molto a girare in America con grandi mezzi (un budget milionario) e un grandissimo attore come Sean Penn; che sia riuscito a infondere ritmo e poesia alle immagini, ma non come c’era riuscito negli altri suoi precedenti film. Che, insomma, qualcosa stona, in un film in cui la musica diventa importante tanto quanto i personaggi che vengono messi al centro di questa storia di “scoperta di sé” e “vendette rimandate all’infinito”.
E’ come se il regista non riuscisse a seguire fino in fondo il percorso di ricerca che avvia il suo anti-eroe strambo e strampalato… e, quindi, come se un po’ anche lui si perdesse dietro i vaneggiamenti, le ironie, le prese di posizione sarcastiche o perennemente anti-conformiste del protagonista.
Qualche emozione, qualche brivido, lo trasmette (come nella scena in cui il figlio della cameriera chiede al vecchio cantante di suonargli “This must be the place”, il pezzo dei Talking Heads che dà titolo al film)… ma manca l’orchestrazione compatta, coinvolgente, avvolgente de Il divo o L’amico di famiglia o L'uomo in più o Le conseguenze dell’amore.

P.S.: la scena in cui David Byrne, leader dei Talking Heads, canta lo stesso brano, beh, quella sì che rimane impressa nella mente dello spettatore (anche per la soluzione scenografica adottata).

lunes, octubre 17, 2011

LUIS GOYTISOLO DOCET (sulla "relazione erotica")



Oggi vorrei riflettere su queste parole di uno dei miei scrittori spagnoli preferiti in assoluto, e cioè: Luis Goytisolo (autore poco letto in patria e pochissimo noto in Italia – la Biblioteca Nazionale di Firenze, ad es., ha solo una copia de “I sobborghi” (Torino, Einaudi, 1961), più che decennale traduzione italiana del suo fortunato “Las afueras” (il romanzo vinse il primo “Premio Biblioteca Breve” indetto da Seix Barral, se non vado errato). Ecco le sue parole:

La relación erótica es tanto más perfecta cuanto en mayor número estén presentes los elementos que la componen, de acuerdo con una gradación semejante a la del espectro solar: afecto, amistad, amor, deseo, lascivia, perversión, exceso. La serie es abierta, en el sentido de que puede dar comienzo con uno cualquiera de los elementos enumerados y, a partir de ahí, seguir adelante hasta completar el circuito”

parole che potremmo volgere in italiano così:

La relazione erotica è tanto più prossima alla perfezione quando in maggior numero siano presenti gli elementi che la compongono, in base ad una gradazione simile a quella dello spettro solare: affetto, amicizia, amore, desiderio, lascivia, perversione, eccesso. La serie è aperta, nel senso che può avere inizio da uno qualsiasi degli elementi enumerati e, a partire da lì, proseguire in avanti fino a completare il circuito”.

Sono parole belle e che fanno riflettere, tratte da un romanzo che s'intitola Diario de 360° (Barcelona, Seix Barral, 2000, p. 137). Si tratta, in realtà, di un finto diario, scritto nell'arco di un anno (e a ridosso del 2000), in cui l'autore mescola abilmente piccoli pezzi di autobiografia, brani brevi di un lirismo intenso, alternandoli ad altri di narrativa pura: racconti surreali, incipit di romanzi tutti da scrivere, sogni, incubi e narrazioni perturbanti varie.

Rifletto, in particolare, su quelli che l'autore ci presenta come gli ingredienti della relazione erotica (si badi bene: “erotica”, non “amorosa” o “sentimentale”):affetto, amicizia, amore, desiderio, lascivia, perversione, eccesso.

Per deformazione professionale, io qui ci noto un climax ascendente. Poi penso alla metafora (se di metafora si può parlare) della relazione erotica come “spettro solare”: cos'è, in realtà, lo “spettro solare”? E' quel mix di onde o radiazioni elettromagnetiche che il Sole ci invia sotto forma di luce (sia visibile sia invisibile – dai raggi X, ai raggi ultravioletti; dai raggi gamma alle onde radio – grazie Wikipedia, grazie di esistere!). Insomma, l'Eros è qualcosa che nasce da un miscuglio di tutte queste diverse “emozioni” o “sentimenti” o “onde”: dall'affetto (che si può provare per un amico, un fratello, un cane) all'eccesso (che esce o fuori-esce dalla norma, in senso etimologico) passando per la lascivia (peccato che Dante condanna attraverso la narrazione straordinaria di Paolo e Francesca) e la perversione (che è campo quanto mai minato – fino a che punto qualcosa – una pratica, un abitudine sessuale, un gusto in fatto di sesso – è “perversione”? Chi stabilisce i confini? Chi fissa i paletti? Nessuno; o meglio, e a parer mio, i limiti, i confini, i paletti li fissano le due persone coinvolte nella pratica o relazione erotica).

Il bello (o l'aspetto curioso) è che, a detta di Goytisolo, questi ingredienti possono presentarsi in grado diverso tra loro e non tutti insieme; il massimo è quando coesistono e convivono e permettono di raggiungere il massimo del piacere e della soddisfazione o soddisfacimento personali.

Ripenso alle mie vecchie storie d'amore e alle relazioni erotiche che le hanno accompagnate; ripenso alle mie ex; ripenso a quanta perversione le altre hanno visto o intra-visto nel mio modo di intendere il sesso e l'eros; ripenso a tutte queste cose e mi piglia la tristezza, perché, a pensarci bene (appunto) a me è capitato soltanto una volta d'avere (di vivere fino in fondo) una relazione erotica di cui sopra (in cui, cioè, s'amalgamassero in modo costante nel tempo e in maniera armoniosa tutti – ma proprio tutti – gli elementi che Luis Goytisolo enumera).

Sola una volta nella vita...

Poteva andarmi peggio; avrei potuto avere meno fortuna e non vivere mai nemmeno quella singola storia d'amore e sesso così travolgente da sfiorare (se non raggiungere) la perfezione... Ma si sa che l'uomo è animale razionale e imperfetto. Forse, a dirla tutta, la perfezione su questa Terra non esiste. E lo “spettro solare” continua a mandarci raggi e onde senza che noi riusciamo nemmeno a percepirle.

jueves, octubre 13, 2011

La vita agra, di Luciano Bianciardi: il lato oscuro del “miracolo italiano”



Scritto a Milano l'inverno del 1961, pubblicato l'anno dopo, La vita agra di Luciano Bianciardi è un romanzo che ci permette (ancora oggi) di vedere il dietro le quinte del cosiddetto “boom economico” o “miracolo italiano” degli anni 60. L'autore, nato a Grosseto, ed emigrato al Nord (come tanti suoi concittadini e tanti italiani del Sud), ci mostra un'umanità che si affanna, si svena, si affatica per trovare un lavoro, guadagnare il giusto e, soprattutto per spendere e consumare quanto guadagnato; il lavoro non solo come fattore alienante o strumento che piega l'essere umano ai suoi tic e alle idiosincrasie di un'intera società (capitalista e rampante), ma anche come elemento quotidiano che quotidianamente ci rende tutti come dei robot senza cervello o come barbari pronti ad uccidere il prossimo, a calpestarlo, violentarlo e sfruttarlo in nome del Dio Denaro.

Memorabili le scenette grottesche in cui il narratore in prima persona ci racconta della sua esperienza a contatto con le “segretarie” (senza culo e senza curve, dalle guance incavate e lo sguardo prosciugato), con il mondo dei pendolari che si recano sul posto di lavoro in tram (sembrano tutti zombie o “morti viventi” senza occhi per guardare la realtà circostante); con il mondo degli editori e dei traduttori (“lei deve essere fedele al testo, non può tradire, non deve inventare” - cito al volo e non verbatim); con quello a tratti lirico, a tratti strampalato, degli artisti bohémienne (fotografi che, insieme al protagonista, fanno la fame o tirano a campare in camere in affitto dove fa freddo e l'acqua calda è quasi un lusso; pittori che non hanno l'ispirazione per superare o eguagliare almeno i modelli del passato - “Picasso è bravo”, “Monet è bravo”, “Manet è bravo pure lui”, etc. etc.) e, infine, con il mondo della Milano dell'epoca – la mattina è il momento peggiore, è quando tutti devono passare a chiedere soldi a tutti: i soldi dell'affitto, ma anche quelli della luce, del gas, del condominio, della nuova aspirapolvere tutta da provare, etc. etc.

Ecco allora che la morte, dinanzi a tali scocciature e a tanti problemi, diventa quasi la soluzione perfetta, il porto cui approdare quanto prima:

Ed è per questo che il viso dell'agonizzante ci si mostra sempre così terreo e stravolto: sta lottando, non contro la morte, ma contro la vita, perché pensa e si arrabatta di trovare i soldi per pagare il prossimo. Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora – così par che dica – arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio. Pagateli voi, i conti, e non i vostri soltanto, ma anche i miei, per la cassa, il trasporto, la buca del cimitero. E sorride.” (p. 149)



E' un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, dello stile diretto, apparentemente colloquiale e, in realtà, strategicamente costruito, di Luciano Bianciardi: La vita agra, di fatto, è un romanzo dotato di uno stile proprio; non è soltanto una cronaca, o non vuole essere soltanto questo: è anche una storia emblematica, una narrazione vertiginosa intorno al “male di vivere”, un'esplorazione intorno all'abisso, per mostrarci fin dove può arrivare l'essere umano e quanto dolore può arrivare a sopportare. Narratore e lettore sono coinvolti entrambi, e insieme, in questa ricognizione del limite (o dei limiti umani), come è ben messo in evidenza in questo secondo brano (ennesimo esempio di come Bianciardi concepisse il suo romanzo come “romanzo” e non come semplice “cronaca” o “ritratto di società” o “di costume” - discorso a parte meriterebbe la storia d'amore con Anna, che lo porterà ad allontanarsi dalla moglie lasciata al Sud con un figlio con problemi di crescita...):



Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati dell'esercito, insomma interi” (p. 27).



La “narrativa inegrale”: è da tanto che non mi capitava di leggere un libro così potente, che spinge a riflettere, emoziona e colpisce così forte da spingere il lettore a rimuginare e a ripensare a quanto appena letto...

viernes, octubre 07, 2011

Per chi scrive chi scrive (un blog)?



Ieri sono stato a Trento: non c'ero mai stato, non mi ero mai azzardato ad arrivare così a Nord, e devo dire che la città mi è piaciuta molto, e anche la gente, i trentini sono ospitali, o almeno, quelli che io ho avuto modo di conoscere si sono comportati in modo eccelso e con un garbo e una gentilezza d'altri tempi, nei confronti miei e dei miei colleghi d'Università (bella Piazza Duomo, e molto bella anche la Facoltà di Lettere, con le sue aule dalle numerazioni quasi astrofisiche – aula 411, 563, 750...).

E a Trento, in occasione di un convegno sul “diario come forma letteraria”, ho avuto modo di chiacchierare del tema con una esperta in romanzo italiano epistolare dei primi anni 30 del Seicento. E allora io le ho chiesto cosa ne pensasse delle “emails” e di come hanno cambiato l'antica arte di scrivere lettere (con penna e inchiostro e calamaio) e, soprattutto, cosa ne pensasse dei “blog”, e se lei ne avesse uno. La studiosa mi ha risposto che sì, ha avuto un blog in passato, uno di tipo letterario in cui, dietro l'impunità che offre un nick-name, riversava tutte le sue critiche acide e senza veli e senza peli contro gli autori che aveva letto e che non gli erano piaciuti. E poi ha cercato di spiegarmi come è cambiata la forma di scrivere di sé, e di redigere un diario personale, nell'era di internet e del mondo virtuale. E mi ha fatto notare che, comunque, nel blog, non parlerai mai come quando scrivi un diario (quando scrivi per te, e riversi tutto, senza censure, tutto ciò che pensi, e che senti).

La discussione si è allargata ad altri colleghi; ognuno ha apportato la sua versione dei fatti; tutti hanno affermato di avere avuto o di avere ancora oggi un blog (di tipo letterario); molti si sono messi a ridere nel pensare che è ben strano che così tanti docenti di Lettere gestiscano blog letterari... (dove lo trovano il tempo?).

Poi sono tornato in albergo e mi sono chiesto: “Ma per chi ho scritto io fino a oggi? Chi è che mi legge o mi ha letto in passato? Perché sono sempre e solo 3 o 4 lettrici donne? Sono poi così sicuro che si tratti di sole donne (le amiche che conosco e che so che mi leggono)? E se mi leggessero anche persone che non conosco e di sesso maschile? E se mi leggessero più persone di quelle che penso? E se chi legge si annoia? (di sicuro ci si annoia, leggendomi, o almeno, non sono sempre brillante, e d'altronde, chi può esserlo? Forse perfino Proust, ogni tanto, avrà scritto con stile meno “elevato” e meno “intenso” del solito...) E se chi legge non mi sopporta? Si può sempre cambiare pagina, andare a navigare da un'altra parte – la blogsfera è immensa...e copre l'intera geografia nota, o quasi, a quanto ne so io...
E poi è arrivata la domanda più grande di tutte: e se chi legge non mi capisce? Ma questo può succedere anche quando parliamo! Quante volte, chiacchierando con un'altra persona, si scopre di essersi capiti male o di avere frainteso, quante volte scoppiano litigi o si rompono amicizie o rapporti sentimentali, quando si parla e sembra che ognuno stia parlando un linguaggio diverso, quando si parla due lingue differenti...

L'incomprensione è dietro l'angolo, sia quando si scrive sia quando si parla a viva voce con un altro... Solo che scrivere e lasciarsi leggere da altri assume sempre, comunque, i tratti del dono, di una specie di regalo che tu, “scrivente” (più che “scrittore”) regali a lui, il “ricevente” (potenziale e possibile) del tuo scrivere... del tuo atto di scrittura. Il lettore è libero di non ricevere il dono o regalo o la “scrittura di sé” che si presenta come dono o regalo; il lettore è liberissimo (liberrimo?) di fare ciò che vuole di quanto io scrivo, anche d'insultarmi, se vuole, o di mandarmi a quel paese, o di scrivermi (se mai si prendesse la briga) commenti negativi o sarcastici o acidi, e io dovrei comunque accettare la sua reazione, perché è nella logica delle cose (io scrivo, tu mi leggi: io intendo farti arrivare un determinato messaggio, tu leggi e interpreti il messaggio nel modo che più ti si confà). E a meno che non ci si incontra per parlare davvero a viva voce, in questo ambito, è “impossibile” capirsi al volo. Tu lettore puoi anche criticarmi; io posso rettificare o specificare meglio quello che intendevo dire; ciò non toglie che scrivendo ti ho fatto un regalo e, forse, mi sono fatto un regalo... Perché scrivo anche per questo: per potermi rileggere, per avere il modo di poter tornare sul già scritto e “capirmi” meglio... Perché quando scrivo riesco a capire meglio ciò che credevo di sapere... Perché scrivendo ho scoperto di sapere cose che non sospettavo di sapere. Perché scrivendo mi schiarisco le idee o me le complico e mi piacciono entrambe le cose: sia schiarirmele che complicarmele (forse perché anch'io sono così... chiaro e limpido, a volte, e altre complicato e ingarbugliato).

Scrivere è un regalo sia per chi scrive (e si vede riflesso nella scrittura e approfondisce o complica la conoscenza di sé – che vuol dire, si badi bene, anche conoscenza dell'altro e della realtà che ci circonda) sia (soprattutto?) per chi legge (e ha modo di conoscere meglio se stesso attraverso lo specchio che gli offre un altro con la sua scrittura, proiezione in qualche modo “virtuosa” del proprio io).

Basta ora scrivere... che sennò mi si complicano ancora di più le cose (o perché forse me ne schiarisco troppe e io non voglio avere tutto chiaro, mi piace sapere che ci sono cose che non so o non capisco o non ho ancora capito e che la scrittura, prima o poi, potrà aiutarmi a capire, se mi sforzerò di usarla per questi scopi e mi sforzerò di portarla lì dove lei vuole portarmi, dove non m'aspettavo che mi potesse portare).

P.S.: dopo questo “post”, probabilmente, mi leggeranno ancora meno persone, ma non è che uno tiene un blog per vedere quanti lo leggono o battere un record o guardare a che posizione è nella classifica dei blog più letti... C'è gente che lo fa, ma non io, non è proprio nel mio stile... Io vorrei che si continuasse ad essere in pochi qui dentro (in queste quattro colonne virtuali di scrittura elaborata col Word... Vorrei che continuassimo ad essere i famosi, noti e proverbiali “happy few”...)

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...