sábado, noviembre 28, 2009

Abbracci d'oltretomba



Sono sempre stato attratto, sin dai tempi del liceo, dalle scene d'incontro dei vivi con i morti nel mondo dell'al di là. Uno dei primi episodi risale in realtà alle medie e riguarda il Libro XI dell'Odissea, quando, seguendo il consiglio della maga Circe, Ulisse scende nell'Erebo (il regno di Ade, dove riposano o vagano i morti - non si capisce mai se in effetti lì sotto ci si riposi o si vaghi, come in una condanna di Sisifo) per ascoltare la profezia di Tiresia, il cieco che gli predirà il futuro ritorno a Ilio, dalla moglie Penelope e il figlio Telemaco.

E' uno dei capitoli più belli e, dal punto di vista emozionale, più "struggenti" di tutto il poema. L'atmosfera è cupa, l'Erebo si trova ai confini del mondo conosciuto, per l'esattezza, lì dove finisce l'Oceano. Il luogo è contraddistinto dal buio e dalla nebbia: Ulisse ci dice che su quel popolo "i raggi del sole non discendono mai". Sono eternamente avvolti nell'oscurità. Per parlare con Tiresia deve seguire le istruzioni che Circe gli ha precedentemente dato e sacrificare degli animali. Le anime dei defunti verranno subito attirate dall'odore del sangue, ma Ulisse dovrà tenerle alla larga con la spada e la lancia per fare in modo che il primo a nutrirsene sia proprio Tiresia. Tra i morti, quelli che più spaventano Ulisse sono i vecchi, i bambini e le fanciulle morti di morte violenta. A un certo punto, vede anche "molti, squarciati dall'aste punta di bronzo, guerrieri uccisi in battaglia, con l'armi sporche di sangue". Fino a quando non fa l'incontro più insperato: Ulisse s'imbatte nell'anima della madre, che sembra non riconoscere il figlio. Di fatto, sarà solo dopo il discorso di Tiresia che Ulisse potrà far avvicinare la madre al sangue versato in sacrificio e questa lo riconoscerà.

Quali sono le prime parole che pronuncia? Quelle di una madre apprensiva nei confronti del figlio: "Creatura mia, come venisti sotto l'ombra nebbiosa vivo?". E' logico: una madre si spaventa a vedere il figlio ancora in vita nel regno dei morti. Subito dopo, però, cambia argomento e gli chiede se è già tornato a casa, a Ilio, dalla moglie e dal figlio, o se ancora è in balia del mare e degli dei. Ulisse risponde con una serie di domande: è lui quello più curioso, vuol sapere come e di cosa è morta; lei, che è nel regno di Ade e che perciò conosce il destino dei vivi, può dirgli se suo padre è ancora in vita e se Penelope pensa a lui come al suo sposo legittimo; se il figlio non l'ha tradito a favore dei Proci. La madre risponde, dando informazioni esaurienti, fino a quando non arriva a parlare di sé e della sua dipartita: "Così anch'io mi sono sfinita e ho seguito il destino; / no, non in casa la dea occhio acuto, urlatrice / con le sue miti frecce venne a uccidermi, / non male mi colse, che terribilmente / con odioso languore del corpo distrugge la vita, / ma il rimpianto di te, il tormento per te, splendido Odisseo, / l'amore per te m'ha strappato la vita dolcezza di miele" (vv. 197-203 del Libro XI, p. 303 dell'ed. Einaudi a cura di Rosa Calzecchi Onesti).

Fermiamoci qui un momento: proviamo a immaginare come si sarà sentito il figlio nei confronti della madre in quella sorta di rivelazione post-mortem. La madre è morta per il troppo dolore causato dalla perdita del figlio. Lo amava tanto che non saperne più la sorte l'ha uccisa. Come reagisce Ulisse? Come avrebbe reagito ciascuno di noi... prova ad abbracciare l'anima della madre morta:

"Così parlava: e io volevo - e in cuore l'andavo agitando - / stringere l'anima della madre mia morta. / E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava a abbracciarla; / tre volte dalle mie mani, all'ombra simile o al sogno, / volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, / e a lei rivolto parole fugaci dicevo: / 'Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, / che anche nell'Ade, buttandoci al collo le braccia, / tutti e due ci saziamo di gelido pianto?' " (vv. 204-213). Anche questa è una reazione logica (o verosimile): perché, chiede il vivo al morto, non possiamo unirci in un abbraccio materno-filiale? Cosa c'è di male? Quale dio impedisce loro di riabbracciarsi?

Fermiamoci ancora una volta a riflettere: Ulisse prova per tre volte ad abbracciare la madre e questa per tre volte svanisce nell'aria, tra le sue braccia protese nel tipico gesto d'affetto tra madre e figlio. La madre gli svela una triste e dura verità: "questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: / i nervi non reggono più l'ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante / li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita; / e l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando" (vv. 217-222).

Sembra di leggere Shakespeare: l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando dal corpo. Diventa un fantasma, o una pura apparenza. Non ci sono più carne né sangue né nervi. Ecco perché i due, nel regno di Ade, non possono toccarsi né potranno mai più abbracciarsi...

Qualche secolo dopo Omero (e dopo Shakespeare, che pure ha descritto scene d'incontri tra vivi e morti - pensiamo anche al prologo di Hamlet, quando Amleto figlio incontra all'improvviso il fantasma di Amleto padre e questi lo mette al corrente della morte violenta patita per mano del fratello e chiede giusta vendetta), il poeta inglese (e cieco come Tiresia) John Milton - quello non a caso del Paradise Lost - scrive un componimento, un sonetto, per l'esattezza, in onore di Catherine, la seconda moglie sposata nel 1656, quando egli aveva già perso la vista e di cui comunque ricordava i tratti fisici a memoria.

Nel sonetto XXIII, intitolato come il primo verso "Methougt I saw my Late Espoused Saint", Milton immagina di rivedere (con i propri occhi sanati, oltre che con l'occhio della mente) sua moglie Catherine vestita da sposa e immersa in una luce di purezza assoluta. Il poeta torna a sperimentare la dolcezza, l'intimità, l'amore che ha provato in terra quando lei era viva; la crede per un attimo viva e fatta di carne ed ossa; lei sembra protendersi verso di lui, ma (dolore degli ultimi due versi): "But Oh! as to embrace me she inclin'd / I wak'd, she fled, and day brought back my night". Esistono versi più crudelmente struggenti di questi? "Ma, ahimè, nel momento in cui lei stava inclinandosi per abbracciarmi, / mi svegliai, lei scomparve e il giorno mi restituì la mia notte", potremmo tradurre; o: "il giorno mi riportò indietro la notte", "mi riconsegnò alla mia notte"; la notte cui è condannato per la cecità che l'aveva colpito subito dopo i primi giorni di matrimonio...

Caos calmo non c'entra nulla né con Omero né con John Milton (inutile anche tentare paragoni); però l'ultima canzone del film, scritta per l'occasione da Ivano Fossati, sembra nutrirsi delle stesse sensazioni evocate sia dai versi di Omero che da quelli di Milton. Nel film (tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi) si parla di un marito che perde la moglie nello stesso momento in cui questi è impegnato a salvare una donna che non sa nuotare e che rischia di morire affogata in mare. Questo evento porterà l'uomo a una difficile "elaborazione del lutto", che avrà esito positivo solo grazie alla figlia di dieci anni che il padre si ostina a difendere dalla paura della morte aspettandola ogni giorno fuori da scuola.

La canzone di Fossati s'intitola L'amore trasparente e a un certo punto si ascolta questa frase, che diventa ritornello: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / mi sei apparsa in sogno e non hai fatto un passo". Facile ipotizzare chi sia questa donna apparsa in sogno all'uomo, se rapportiamo il testo della canzone al romanzo (e al film) che l'hanno ispirata. Gli stessi identici versi ritornano alla fine, quando Fossati aggiunge qualche frase in più, e a noi che ascoltiamo vengono i brividi, un'altro esempio di abbracci mancati, di baci impossibili, di incontri ravvicinati andati a male tra vivi e morti: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / ti ho dormito accanto e mi hai lasciato andare / sarà anche il gioco della vita ma che dolore / sarà anche il gioco della vita ma che dolore...".

miércoles, noviembre 25, 2009

Placer Licuante, di Luis Goytisolo (Madrid, Alfaguara, 1997)


Partiamo dal titolo, abbastanza ambiguo: come potremmo tradurre quell’aggettivo, “licuante”, in italiano? Piacere che “si liquefa”? Piacere che “si scioglie”? Oppure, in modo ancor più esplicito, “bagnato”? Sta di fatto che sin dal titolo il lettore può intuire che, quello che ha tra le mani, è un romanzo erotico, carico di erotismo, che parla di una storia di amore e morte secondo la migliore tradizione della letteratura erotica.

Ora, parlare di erotismo e parlare di romanzo, quando si tratta di un autore come Luis Goytisolo, è dire la stessa cosa. Nel senso che più volte e in più articoli l’autore ha sottolineato i punti in comune, i contatti viscerali che egli ha sempre trovato tra il fare sesso e lo scrivere un romanzo (o l’inventare una storia). L’immaginazione, in effetti, ha un ruolo centrale tanto nel primo come nel secondo ambito. Per vivere al meglio una storia d’amore (oltre che di sesso) non si può non ricorrere all’invenzione (inventarsi sempre nuovi percorsi da fare, nuovi ostacoli da sorpassare, nuove tecniche da affinare per dare e ricevere il massimo piacere dall’altro). E così è per il romanziere, il quale va tramando alle spalle del lettore al solo fine di affascinarlo e catturarlo nella rete della trama (quante metafore tessili quando parliamo di scrittura e di romanzo! O di scrittura romanzesca, che dir si voglia…).

Placer licuante è, in effetti, proprio un romanzo sugli effetti che può avere l’immaginazione (e gli scherzi che può giocare) in ambito amoroso-sentimentale-sessuale. Pablo, scrittore di successo, sta scrivendo un romanzo che dovrà permettergli di fuoriuscire dall’etichetta di “best-seller” e di entrare nel Parnaso degli autori “impegnati”. Nel mentre, sua moglie Maica, gallerista, s’invaghisce e finisce poi a letto con Máximo, architetto e teorico dell’architettura venerato dagli esperti e sempre in vena di nuove esperienze.

Ciò che colpisce di questo romanzo è il modo in cui l’autore riesce a farci penetrare dentro l’anima dei tre personaggi invischiati nel più classico dei triangoli amorosi (e a proposito di “desiderio triangolare”, qui uno come René Girard avrebbe molto da scovare…cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, ottima delucidazione, senza troppa enfasi freudiana a disturbare il discorso critico, sui rapporti tra Eros e Romanzo).

Ogni capitolo illustra la stessa scena da uno dei tre diversi punti di vista. E così, veniamo a scoprire come quella che sembrava essere la verità non è altro che la versione parziale (relativa) di una verità possibile (e potenziale), dipendendo quest’ultima dalla carica di amore o di odio che uno dei tre “personaggi” del triangolo vi ha riversato in quel preciso momento di trasporto (amoroso o d’invidia e gelosia).

Le scene di sesso più spinte lasciano un po’ a desiderare: l’ho già scritto a proposito di Antonio Moresco e lo ribadisco a proposito di Luis Goytisolo: quando si descrivono o si tenta di raccontare certe cose, si corre sempre il rischio (sia al cinema che in letteratura) di finire con il redigere una specie di saggio di anatomia comparata (o brano da enciclopedia ginecologica). Nemmeno Goytisolo sfugge a questo rischio.

Ma le parti in cui, a partire da una scena di sesso, l’attenzione si sposta su considerazioni d’ordine più generale e filosofico, sono davvero all’altezza dell’intelligenza ironica di un simile scrittore. E’ in questi brani che scatta l’immedesimazione del lettore coi tre personaggi. Chi non si è mai sentito tradito? Chi non ha mai provato l’estasi di accondiscendere a un tradimento? Chi non ha mai temuto un tradimento da parte della persona che ha al suo fianco e con cui condivide letto e tetto? Chi non ha mai detto: “Le cose che provo per te non lo ho provate mai per nessun altro e non credo che riuscirò a provarle per nessun altro in futuro?”.

Chi non ha mai avuto la tentazione di sbirciare nelle email del compagno o della moglie o fidanzata per scoprire magari verità che era meglio lasciare nell’ambito delle ipotesi più tristi e sconcertanti?

Il bello è che questo fenomeno di immedesimazione non avviene solo rispetto a Pablo (il tradito, il marito cornuto), ma anche rispetto a Maica (la traditrice che si lascia trasportare dalle emozioni forti) e a Máximo (l’amante focoso che agisce nell’ombra).

Alla fine e in modo del tutto “romanzesco” sarà proprio il romanzo in progress che sta scrivendo Pablo l’elemento che permetterà alla trama di esplodere e risolversi nel modo migliore per Maica e Máximo. Come a dire: “attento a quello che immagini – o desideri – perché potrebbe realizzarsi”.

Certe volte, ciò che immaginiamo nel piano della finzione non solo può venire confermato da ciò che accade nel piano della realtà, ma addirittura grazie all’immaginazione possiamo anticipare anche la nostra stessa fine (soprattutto – aggiungerei - quando questa ha un esito nefasto per colui che si impegna a immaginarla).

lunes, noviembre 23, 2009

Uno come Swann: non può non esserci simpatico

Tra i personaggi centrali di tutta la Recherche, il signor Swann ci appare all'inizio de Du coté de chez Swann attraverso le notizie che di lui ci trasmette in modo alquanto obliquo e misterioso il Narratore: all'inizio appare come uno di famiglia; poi, come un vicino alquanto bizzarro, che qualcuno dei familiari del Narratore non vede di buon occhio ed eviterebbe di vedere in giro per casa con tanta frequenza; per Marcel bambino è una voce; per il nonno è un uomo di mondo simpatico ed è un piacere sentirne raccontare gli aneddoti; a un certo punto, siamo noi stessi, i lettori, a "sentire dal vivo" la voce di Charles Swann: la sua è una riflessione sui giornali "moderni" e sullo scarso contenuto degli stessi (quanto sia ancora valida una simile riflessione è sotto gli occhi di chiunque si dia la briga di aprire un qualsiasi giornale di oggi e sfogliarne le notizie principali):

"Quel che io rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali. E poiché ogni mattina strappiamo febbrilmente la fascetta del giornale, allora bisognerebbe invertire le cose e mettere nel giornale, che so, i...Pensieri di Pascal! (egli isolò queste ultime parole sottolineandole con enfasi ironica per non avere l'aria pedante)".

Un personaggio che dice cose simili non può non esserci subito simpatico; intorno a Swann ruota (per il momento) parte del fascino che Marcel adulto percepisce del mondo che visse quando era Marcel bambino; staremo a vedere come e in che direzione si svilupperà questo fascino. Per il momento, sembra di stare ancora immersi nella giungla del Congo in compagnia di Marlowe: anche lì, Kurtz, il personaggio centrale e più "ambiguo" di Heart of Darkness, si presenta (nelle prime fasi di avvicinamento al "cuore di tenebra" della giungla così simbolicamente e magistralmente descritta da Conrad) come una voce. Possente e misteriosa. Che ci attira e ci spaventa allo stesso tempo... Un po' come succede con Swann. Un intellettuale che non ha la puzza sotto il naso e che con la sua eleganza ci parla di un mondo che sembra così lontano da noi quando, in realtà, è ancora molto, troppo vicino al nostro...

lunes, noviembre 16, 2009

Cose che succedono

Sono cose che succedono, ti dici, tutta questa distrazione, ultimamente, ma cos'è? Non dormi bene la notte? (la domanda me l'ha posta la collega d'inglese; mi offre una sigaretta, dopo che io l'ho invitata a un caffè; parliamo del più e del meno, qualcuno degli studenti che abbiamo in comune ci guarda e sorride, sono già pronti a smaliziare e a spettegolare con gli altri, ben presto lo saprà tutta la classe, quello di spagnolo, hai visto?, stava insieme a quella d'inglese, sì, li abbiamo beccati al bar...).

L'altra sera, ad esempio, passeggiavo in direzione dell'ospedale (niente di grave, un'analisi del sangue da ritirare), rimuginavo sulle domande che mi aveva appena posto la dottoressa (ma scusi, lei suda molto? Sì, vado in bici e sa com'è... No perché lei ha dei valori perfetti, ma le manca il potassio, scusi, le manca tanto potassio nel sangue...), quando ad un tratto vedo due persone, due operai, dalla divisa, intenti a trasportare una bara bianca a grandezza umana, voglio dire, formato standard, dall'interno di un grosso camion all'ingresso del Teatro La Pergola...una bara, ma come mai? Chi è morto? E solo dopo ricollegare, quando sei già in casa, e hai messo a posto la bici e il giaccone: non è morto nessuno, quella bara bianca era solo un attrezzo di scena, serviva per chissà quale rappresentazione teatrale, ma come, come ho fatto a non capirlo subito? Chi mai potrebbe entrare a teatro con una bara sulle spalle?

E poi ci sono quelle notti durante la quali pensi al passato e ti domandi dove diavolo è che hai sbagliato, qual è stato l'esatto minuto (o secondo) in cui hai fatto la scelta sbagliata, e tutto è andato a rotoli, e poi è ovvio che ti domandi: ma che ci faccio qui? Come sono arrivato a questo punto? Ed è inutile riavvolgere il nastro, tanto quel punto non lo trovi più...

Sono pazzo, mi dico. O scemo. O tutte e due le cose...

Cose che succedono, ti dici, per farti forza e andare avanti... Poi passi davanti a quella libreria e vedi quel saggio che tanto ti piace, vorresti comprarlo, ma non hai abbastanza soldi, e poi ti si piazza davanti un ragazzo con giacca e cravatta e ti chiede se vuoi comprare Lotta Comunista e tu lo guardi e vorresti dirgli che ne hai abbastanza di leggere i giornali, ma poi ti fa pena e quasi tenerezza, gli dici che non hai i soldi sufficienti nemmeno per il biglietto del ritorno, rischi di restare a Pisa, ti rendi conto? E dove vado a dormire?

Cose che capitano. Pare.

viernes, noviembre 06, 2009

"Letteratura", "realtà" e "critici letterari", ovvero: quando non ci s'incontra mai...

"C'è evidentemente un sacco di gente che ritiene di avere il possesso esclusivo della definizione di cosa è "realtà" e cosa non lo è. E, sulla base di questo, anche di essere autorizzata a dare pagelle sul tasso di "realtà" presente nei libri, come se questa fosse materia codificata una volta per tutte e una cosa sola e non ci fossero invece infiniti modi di intercettarla e stanarla e di aprirla e di sbudellarla. Come se questa cosa, che non abbiamo trovato di meglio che chiamare "realtà", la si potesse intercettare solo dentro un unico orizzonte e un pensiero unico e fuori di esso ci fosse... a proposito, chissà che cosa?, ma comunque qualcos'altro, e allora quella che si diceva essere tutta la "realtà" finisce per essere solo una parte di essa, addirittura una parte infinitamente piccola...

Perché tutto questo? Forse per un bisogno di autorappresentazione e autoposizionamento, di mettere sotto controllo ciò che è incontrollabile, che ci scavalca, che ci scavalcherà sempre, persino in quella piccola cosa umana che è stata chiamata "letteratura" e che sta venendo sempre più allo scoperto in modi e forme diverse, in questi anni. Un bisogno di normalizzare e di controllare, da parte di élite intellettuali specializzate in perdita verticale di ruolo, di far star giù anche gli altri, alla stanga, all'interno di leggi e mansioni codificate e di bisogni dell'industria dell'intrattenimento e del libro, alla fin fine, in una piccola lotta darwiniana per la sopravvivenza, in cambio di piccole gratificazioni per gli umani scrittori di cui, da qui a un po', non resterà traccia nell'immensità dello spazio cosmico.

Cosa avrebbero detto figure analoghe se fossero vissute a metà dell'Ottocento negli Stati Uniti oppure in Russia, ad esempio, dei libri di scrittori come Dostoevskij o Melville? Che non affrontavano la realtà, che non parlavano del piccolo gioco umano, storico, sociologico, religioso, istituzionale e dei "veri" problemi, ma che deliravano di enormi pesci e di leviatani o mettevano in scena filosofie folli?"

By: Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Torino, Einaudi, 2008, pp. 414-15.

lunes, noviembre 02, 2009

Piero Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Bologna, il Mulino, 2009: la "scandalosa" modernità di un classico



Amleto ha appena messo in scena una rappresentazione teatrale in cui "mima" il regicidio della cui colpa sappiamo già che si è macchiato per sempre Claudio, il fratello del Re legittimo; Claudio, zio di Amleto, ha assistito allo spettacolo in compagnia della madre di questi, Gertrude, e non sa decidersi se il nipote abbia intuito la verità (è effettivamente lui l'assassino del padre di Amleto) o se si tratta solo di un pazzo. A un certo punto, Amleto da sfogo alla sua cronica inquietudine esistenziale con uno dei soliti monologhi "filosofeggianti":

"Oh, che vigliacco
E malfattore sono! Non è mostruoso
Che quest'attore, in una mera finzione,
In un suo sogno di passione, possa tanto forzare
La sua anima al concetto che per il suo operare
Tutto il suo volto è impallidito, lacrime
Nei suoi occhi, disperazione nel suo aspetto,
La voce rotta, e l'intera funzione
Che s'adattava con le forme della sua idea?
E tutto per niente. Per Ecuba! Cos'è
Ecuba per lui, o lui per Ecuba,
Che debba piangere per lei? Che farebbe
Se avesse il motivo e la spinta alla passione
Che ho io?"

(Amleto, II, ii, vv. 547-59).

Piero Boitani, da ottimo lettore "obliquo" e "inquieto" (oltre che "irrequieto") qual è si domanda a questo punto: che vuol dire? Cosa significa: cos'è Ecuba, un personaggio di finzione, per l'attore che la impersona? Cosa sono i "personaggi di finzione" per noi, essere umani in carne ed ossa? E' solo una delle tante domande che suscita la lettura e l'analisi dei versi del Bardo di Stratford upon Avon... Domande che Boitani "pone" all'autore (uno dei cosiddetti "classici" della letteratura universale - o Weltliteratur, come la definisce Goethe) per interrogarlo in merito a quel presunto, sconvolgente ed eterodosso Vangelo che egli stesso va ri-scrivendo nei drammi dell'ultimo periodo (da Racconto d'inverno a La tempesta, passando per Pericle e Cimbelino). Dunque, dicevamo, con Boitani: cosa sono Madame Bovary, il dottor Faust, Ulisse o Don Chisciotte per noi esseri viventi in carne ed ossa? E' una questione complessa, che scatena una molteplicità di riflessioni sui confini tra Arte e Vita, tra fiction e realtà oggettiva. Ma Shakespeare è un classico "modernissimo"; non si ferma qui. Va oltre e fa dire ad Amleto: "e che cos'è lui per Ecuba"? Ovvero: cos'è un attore per un personaggio di finzione? E Boitani - e noi lettori con lui - si stupisce e si chiede:

"Come, lui per Ecuba!? Cos'è l'uomo in carne ed ossa per una "finzione", per un personaggio immaginario? E' un paradosso, e anche un abisso ontologico. Sì, certo, è ancora questione di teatro, anche: ma non meno paradossale. Cos'è l'attore che recita una parte per il personaggio le cui vicende egli recita? Se "Ecuba" è un personaggio immaginario, e rappresenta quindi la finzione in generale, che senso ha chiedere se la realtà significhi qualcosa per la finzione, come sembra implicare la seconda parte della domanda di Amleto?" (p. 27 del Il vangelo secondo Shakespeare, cit. supra).

Sono questioni che ci trasmettono il veleno del dubbio; sono domande che ci mostrano in modo lapalissiano quanto moderno sia un autore come Shakespeare. Boitani, come fosse un novello Virgilio, ci guida nei meandri dei molteplici "sensi" e delle spinose questioni teologiche (oltre che teleologiche) che Shakespeare sembra spargere all'interno dei suoi ultimi drammi per insegnarci come si articola la ri-Scrittura della Bibbia che compie l'autore; per mostrarci in quali luoghi sembri addirittura ri-scrivere e rievocare la preghiera del Padre nostro; e in quali versi ri-crea una nuova versione dell'Apocalisse...

Era un uomo di fede un'artista polifacetico come Shakespeare? Credeva in Dio (nel Dio cristiano) o ha solo usato immagini tratte dalle Sacre Scritture ai soli fini estetici perseguiti all'interno dei vari drammi? Credeva nella resurrezione dei morti o faceva finta di crederci? Da dove spunta fuori il fantasma del padre di Amleto? Dal Purgatorio o dal Paradiso? E perché torna in vita ad avvisare il figlio e a spingerlo alla vendetta se, come dice lo stesso Amleto nel famoso monologo "be or not to be", la morte è un "undiscovered country" dal quale "no traveller returns" ("una terra sconosciuta dai cui confini nessun viaggiatore ritorna"?). E che vuol dire Re Lear quando, rivolgendosi a sua figlia Cornelia, si augura per entrambi di "assumere su di sé il mistero delle cose" e di diventare come le "spie di Dio" ("God's spies")?

Sono le domande cruciali cui cerca di trovare risposta Piero Boitani in un saggio che si legge tutto d'un fiato, come un giallo in cui bisogna scoprire chi è l'assassino (o se c'è un colpevole e, nell'eventualità che ci fosse, se è possibile redimersi da ogni assassinio commesso su questa misera, povera Terra). Un saggio che appassiona perché mette in contatto con la parte più oscura e sacra e labirintica che ci riguarda in quanto esseri umani: quella che tocca la sfera della religione e del nostro rapporto con il "divino"...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...