domingo, febrero 19, 2012

FAUST di Aleksandr Sokurov (2012): la stanza degli zombie


Non conoscevo il cinema di Sokurov; qualche amica mi aveva detto che era lento, troppo lento. Qualcun altro mi aveva detto che era pesante, troppo pesante. E io mi sono guardato il suo ultimo capolavoro, non trovandovi né "lentezza" né "pesantezza", ma una visionarietà allucinata e che cattura la retina dello spettatore dalla prima all'ultima immagine (dalla prima inquadratura enigmatica, in cui voliamo tra le nuvole come uccelli prima di planare in città, all'ultima, piena di grida di disperazione e di flussi d'acqua che il Dr. Faust crede di poter gestire a proprio piacimento).

Faust mi è sembrato perfino "veloce", per il ritmo che il regista è riuscito a imprimere a quest'opera "classica" che ci parla di noi, del nostro rapporto con la verità (una delle prime domande che il servo pone al padrone è: "Dove si trova l'anima?"; il tutto, mentre il Dr. Faust è impegnato in un'autopsia che sembra quasi un atto cannibalico, con tutte quelle budella e fegato e viscere e sangue carezzati, toccati, manipolati, "mangiati" - se non erro e ho visto bene...). Dove sta l'anima? Dove la verità? Non lo sa nessuno, neppure il dottore che ha studiato Teologia, Giurisprudenza e ... Filosofia. 

E poi c'è il problema del bene e del male, di cosa è giusto (e lecito) e di cosa ci allontana dalla luce (di Dio, il Sommo Bene, se si ha fede). E allora, nel momento del massimo dubbio e della massima crisi esistenziale, può capitare d'imbattersi nel Male Assoluto, nel Demonio, qui incarnato da Mauritius, un robivecchi cui 150 anime hanno dato l'anima in cambio di denaro, lusso, sesso, potere... soprattutto potere, un personaggio affascinante proprio perché mostruoso (chi potrà dimenticarlo nudo, mentre fa il bagno nelle vasche che le donnine del paese usano per fare il bucato? Chi potrà dimenticare quel corpo viscido, ammuffito e simile al bozzolo di un bruco?).


Mauritius è il Diavolo; l'angelo caduto dal cielo che sfida Dio e tenta l'uomo con l'arte retorica e la promessa del soddisfacimento di ogni desiderio (materiale o spirituale). Vuoi conoscere la verità? Dove sta l'anima? Il Dr. Faust tentenna, vacilla, e solo quando incontra Margarete, l'anima bella e fragile di una ragazzina, solo quando la vede e ne rimane abbagliato, comincia a tramare, a desiderare ardentemente, contro natura e contro Dio, contro la morale e contro ogni ostacolo che gliene sottragga la vista.

C'è una scena che mi ha colpito più delle altre ed è quella in cui, finalmente, il dottore ha ottenuto (tramite Mauritius) l'oggetto del desiderio: Margarete è completamente nuda, stesa nel suo letto; Faust le si avvicina, la carezza dolcemente (il regista qui ci regala dei primi piani della giovane attrice che lasciano letteralmente a bocca aperta - mai visto un viso così radioso al cinema, mai), le poggia le labbra sul sesso, insomma, sta per consumare l'atto e soddisfare il suo sogno lussurioso, quando a un certo punto si aprono le porte della camera, le ante di un armadio, sembra come se persino da sotto il letto sbuchino delle persone estranee, che non abbiamo mai visto prima, sembrano degli zombie, camminano a rilento come gli zombie e attraversano la stanza, passando vicino al letto, prima di sparire per sempre (dalla vista del dottore e dallo schermo cinematografico).


Ecco, questa è la mia scena preferita di Faust. Proprio quando sembra che hai raggiunto il tuo scopo, proprio quando ormai sembra fatta e il desiderio appagato, spuntano fuori questi loschi figuri, questi mostri spaventosi a rovinare la festa e a farti urlare di spavento, a farti piangere dal rimorso (forse) e a farti tremare per il destino che (ormai) ti attende...

domingo, febrero 05, 2012


Pulp Fiction e la questione della “durée” (in senso bergsoniano, forse)




Pulp Fiction è un film che dura 2 ore e 45 minuti circa, ma che scorre liscio come un video musicale di pochi minuti. Da dove deriva questa “percezione” accelerata di un film obiettivamente “lungo”? La domanda ce la possiamo porre alla settima o ottava visione del capolavoro di Quentin Tarantino (io l’altro giorno l’ho visto per la dodicesima volta). Le risposte possono essere varie. Proviamo a stenderne un po’:

a)    I dialoghi. Assurdi, esilaranti, ironici, comici, surreali. In Pulp Fiction si parla molto e i personaggi chiacchierano di tutto: dai massaggi ai piedi alle differenze culturali tra Europa e USA in campo culinario; dalle droghe pesanti alla Bibbia (Ezechiele 25,17 – “E tu saprai che il mio nome è quello del Signore, quando farò calare la vendetta sopra di te”); dal sesso estremo alle frittelle con la marmellata di mirtilli; dal cunnilingus ai piercing, ogni dialogo tra due o più personaggi è l’occasione che il regista sfrutta per coinvolgere lo spettatore in una specie di conversazione ininterrotta e sviluppata come davanti al bancone di un bar (o all’interno di un pub o sul divano di casa). Questo tipo di conversazione coinvolge e, ovviamente, non annoia mai. E anche se i personaggi sono tutti – chi più e chi meno – delle figure “bordeline”, noi spettatori “normali” veniamo letteralmente catturati dalle loro chiacchiere scattanti, strambe e piene di humor.




b)   Il piano-sequenza (l’uso del). Tarantino ha imparato il linguaggio cinematografico non sui manuali, ma sul campo, ovvero, guardando e riguardando migliaia e migliaia di film (lavorava come dipendente in un negozio di video-noleggio). Una delle tecniche che ha imparato meglio è quella del “piano-sequenza”, cioè, quando il regista inquadra una scena senza “stacchi”, ovvero, dando l’illusione di continuare una scena senza fare ricorso al montaggio, mettendo davanti alla m.d.p. (macchina da presa) gli attori che parlano e si muovono, agiscono e camminano come se la stessa m.d.p. non ci fosse (in realtà – Orson Welles docet – è essa stessa che tenta di nascondersi agli occhi dello spettatore). Potremmo fare moltissimi esempi di “piano-sequenza” (il mio preferito resta quello iniziale in cui si vedono Samuel L. Jackson e John Travolta che si recano dal gruppetto di giovani che ha raggirato il loro capo e aspettano un po’ prima di irrompere nell’appartamento: la m.d.p. li segue, non appena escono dall’ascensore e mentre camminano, fino a fermarsi davanti alla porta e poi spostarsi sul fondo del corridoio; dopo l’ennesimo scambio di battute con l’amico, Samuel L. Jackson esclama: “Ok, è ora, caliamoci nel ruolo”, e la cinepresa smette di seguirli). Ecco, l’uso sapiente del “piano-sequenza” rende l’azione “presente” agli occhi dello spettatore, che ha l’illusione di stare dentro gli spazi occupati dagli attori (su questo aspetto inviterei tutti a leggere le pagine che André Bazin dedica a Billy Wilder in Che cos’è il cinema, illuminanti davvero). E’ questo effetto “testimoniale” a rendere il film più scorrevole e veloce, sebbene duri quasi 3 ore. Ci siamo dentro. E non importa quanto tempo impieghino i personaggi per portare a termine le loro imprese. Potremmo restare lì con loro per ore e ore (o giorni e giorni). E non annoiarci mai.




c)    La musica. Quentin Tarantino deve aver ascoltato anche molta musica, quando noleggiava videocassette. E’ bravissimo a scegliere i pezzi più azzeccati per ogni scena del film. E quando una colonna sonora varia e si armonizza in modo perfetto con le immagini, beh, allora diventa davvero difficile annoiarsi o “patire” la durata del film. Oltre che regista, dunque, Tarantino sa fare bene anche il deejay. Mette la canzone giusta al momento giusto; anche in questo caso, potrebbe continuare all’infinito, noi spettatori saremmo lieti di seguirlo in ogni sua variazione musicale (che delusione la colonna sonora di Inglorious Basterds! Al confronto perfino quella di Jackie Browne è un gioiello…).


d)    La suspense. Citiamo una delle tante inquadrature “cult” di Pulp Fiction (di quelle che poi gli altri hanno copiato, parodiato, etc.): i due killers, Jackson e Travolta, aprono il bagagliaio della macchina per prendere le loro pistole (“Avremmo bisogno di fucili per simili lavori, cazzo”). E poi richiudono, immergendo lo spettatore nel buio del bagagliaio. In realtà, questa è la tipica inquadratura che il regista sfrutta per creare suspense nello spettatore (e ora che ci penso: non è che questa inquadratura sia poi così originale, se la sono inventata i grandi registi americani dei noir degli anni 40-50-60 – solo che poi Tarantino è stato abilissimo a rivitalizzarla): a partire da questo momento non potremo non chiederci su chi, come e quando questi due brutti ceffi useranno le loro pistole per uccidere a bruciapelo. Tarantino sa usare come pochi la tecnica della suspense (da antologia la scena della siringa di adrenalina nello sterno di Uma Thurman). E l’adotta dall’inizio alla fine del film, per cui, a ogni inquadratura, ad ogni scena, lo spettatore è ormai coinvolto emotivamente e convinto che…qualcosa di tremendo sta per succedere (o dovrà succedere). Morti ammazzati, stupri, incidenti autostradali, litigate o discussioni acide, incontri improvvisi: noi spettatori siamo proiettati “dentro” un costante stato d’animo di paura e di tensione. E anche questo rende il film “veloce” o “scorrevole”. Anche se dura quasi 3 ore. Non hai tempo per rilassarti o distrarti. Ogni minuto è buono perché qualcuno ammazzi qualcun altro. O lo offenda a morte. O lo stupri. O lo minacci con una pistola in mano. E tu soffri per la potenziale vittima. Perché ormai sei anche tu vittima dello stile di quel pazzo di Tarantino…


viernes, febrero 03, 2012



Racconti che fanno piangere: il caso di “Profezia”, di Sandro Veronesi




Tempo fa consideravo Sandro Veronesi uno degli scrittori più eleganti della letteratura italiana contemporanea; avevo letto e studiato tutti i suoi libri, e avevo perfino raccolto materiale per scrivere un articolo su “La figura del padre nell’opera di Sandro Veronesi”. L’intenzione era vedere come evolve, nel tempo, il personaggio del padre dal primo romanzo, quello d’esordio, ovvero: Per dove parte questo treno allegro (1988), fino ad arrivare a Caos calmo (2005), l’ultimo pubblicato al momento in cui avevo intenzione di buttare giù qualcosa in più che appunti o riflessioni sparse.
Si trattava di mostrare come il personaggio del padre fosse centrale, all’interno dell’universo romanzesco (e della poetica) dell’autore. Si partiva, appunto, dal padre bello, edonista ed immaturo di Per dove parte questo treno allegro (in cui il figlio si prende la briga di aiutare il padre attraversando l’Italia da Sud a Nord, prima d’arrivare in Svizzera e approdare alla scena finale anti-climax) fino a quello di Caos calmo (interpretato, al cinema, da Nanni Moretti nel film fedele ma non bello di Antonello Grimaldi), padre che, in termini freudiani, non riuscendo a portare a termine la cosiddetta “elaborazione del lutto” dopo la morte improvvisa della moglie, riversa tutta la sua ansia e la sua tendenza protettiva nella figlia di dieci anni, passando per il padre dal passato ignoto e incredibile de La forza del passato (2000), forse la miglior prova narrativa di Veronesi, in cui si racconta di come un modesto scrittore per bambini scopre che suo padre, in passato, apparteneva alla sinistra più radicale e lavorava in incognito per il KGB russo (sebbene, in vita, si fregiasse d’essere iscritto alla vecchia DC andreottiana).

Poi è passato il tempo, e mi sono disinnamorato, ho iniziato ad intravedere alcuni limiti nella scrittura di Veronesi, o comunque, ho cominciato a guardarlo con occhio meno benevolo, sebbene abbia continuato a leggere in ordine sparso quanto pubblicava: dall’inchiesta molto interessante sulla pena di morte nel mondo, Occhio per occhio (del 1992), passando per la trasposizione teatrale del film omonimo No man’s land (del 2003), finendo con la spassosissima raccolta di cronache italiche Superalbo (del 2002).

In questi giorni mi è capitato tra le mani l’ultimo suo libro, la raccolta di racconti Baci scagliati altrove (Roma, Fandango, 2011): qualcuno di questi racconti l’avevo già letto in passato (notevoli mi sono sempre parsi “Il ventre della macchina” e “La scarpa”); alla fine, ho deciso di lasciare per ultimo quello che appare come il primo racconto della serie, “Profezia”, ed è stata una folgorazione, questo racconto mi ha lasciato a bocca aperta, e mi ha fatto piangere, cosa che non mi capitava da anni, ormai…

“Profezia” è un racconto narrato in prima persona; la novità è che a parlare è Dio, ovvero, un Essere Supremo e Onnisciente. Dio sa chi siamo; sa come ci comporteremo in futuro; sa cosa abbiamo combinato nel nostro passato. Conosce perfettamente e nel dettaglio ogni minuto, ogni secondo della nostra vita presente. Inutile nascondersi, o fingere, davanti a Dio. Sandro Veronesi si mette nei panni di Dio e comincia a profetizzare ciò che farà lui stesso quando scoprirà che suo padre (di nuovo, la figura centrale del padre) si ammalerà ed inizierà a subire lo stesso calvario della madre (morta di tumore pochi mesi prima).

“Io so chi sei, Alessandro Veronesi,  conosco l’animo tuo […]”, inizia con queste parole terribili, inequivocabili, implacabili, il racconto di Veronesi… Dio può profetizzare il futuro, può predirci le nostre azioni future (remote o prossime che esse siano), perché conosce chi siamo ancora prima che venissimo al mondo. Ed è tutta in questa prospettiva temporale “straniante” (del futuro che in realtà – e sul piano autobiografico – è già passato) che si basa la forza di questo racconto che cattura, affascina e turba.

Veronesi ci parla dei fatti suoi, di fatti privati, è vero, però riesce a trasfigurarli in narrazione valida per tutti, perché la Morte è un dilemma, un mistero e un problema che riguarda tutti noi; ed è davvero difficile non leggere tutto d’un fiato questa iniqua lotta tra un mortale (figlio) e un morente (padre), tra chi cerca d’infondere coraggio e buon senso e chi, invece, sembra non volere altro che spegnersi per sempre, una volta per tutte, e mandare tutto alla malora.

Non solo: Veronesi ci fa capire anche quanto sia limitata la medicina, di fronte alla Morte, quanto possano risultare inutili certi palliativi, e vani i gesti di certi medici. E’ in casa nostra che vorremmo morire, non in una corsia d’ospedale, in un letto anonimo su cui sono morti già altri pazienti a noi totalmente sconosciuti. E non ci sono livelli A e livelli B nella cosiddetta “terapia del dolore”. Il dolore non lo si può curare, quando si arriva alla fase terminale. E ognuno è solo, di fronte a quel mistero.

Omaggio al padre, racconto autobiografico iperrealista, riflessione amara e, a tratti, anche ironica sulle nostre paure ancestrali, sull’impossibilità di fermare il tempo, sulla necessità di avere accanto le persone care, quando arriverà il momento di andarcene per sempre.

Io ho pianto. E non so se mi ricapiterà così facilmente, leggendo un racconto di una ventina di pagine (lette tutte d’un fiato, come se anch’io dovessi salvare qualcuno dalla Morte)…

P.S.: sul sito della Rai http://www.letteratura.rai.it è possibile trovare il video della lettura dell'autore; ma non fa lo stesso effetto, o almeno, non mi ha coinvolto tanto quanto la lettura individuale e in silenzio.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...