jueves, mayo 28, 2009


Se il mio romanzo dopo un mese è già vecchio

Qualche tempo fa il mio amico libraio Antonio Méndez, spossato dall' inondazione di novità editoriali che gli arriva ogni giorno e che trasforma la sua professione in un perpetuo aprire casse, tirar fuori libri, collocarli e restituirli - più che leggerli, raccomandarli e venderli - mi ha detto, riferendosi al mio ultimo romanzo, uscito il 24 settembre: "Un libro uscito un mese e mezzo fa è già preistoria". Quel romanzo (Veneno y sombra y adios), ha 700 pagine, è il terzo volume di un' opera che complessivamente ne conta quasi 1.600 e che ho cominciato a pubblicare cinque anni fa. Ho impiegato a scriverla sette-otto anni, e ce ne sono voluti quasi tre per il volume finale. Certamente sul commento di Méndez avrà influito la sua percezione individuale e la sua deformazione professionale: uno che riceve chili di novità ogni giorno è logico che consideri vecchia quella che gli è arrivata un mese e mezzo fa. Dà l' impressione che a molti terrorizzi l' idea di avvicinarsi a qualcosa che non è rabbiosamente nuovo, come se temessero di "non vivere a tempo". Succede con tutto, con le notizie, gli eventi, i film, la musica, i libri e gli affari. Come dissi in un articolo ormai di diversi anni fa, galleggiamo in un' epoca in cui, paradossalmente, sembra essere presente solo quello che non lo è ancora ma è annunciato come imminente, e al contrario quello che è veramente presente, per il semplice fatto di esistere o essere avvenuto, si trasforma istantaneamente in passato. Si sa che un film - salvo rarissime eccezioni, salvo qualche successo che nasce "nascosto", imprevisto - non incassa mai tanto quanto nella prima settimana; questo può significare due cose: o che il passaparola ormai conta poco perché non c' è tempo perché possa avvenire, oppure che avviene tanto rapidamente, attraverso i cellulari e i loro Sms, che la sorte si decide fin dal primo giorno. «Ho appena visto l' ultimo film di Harry Potter», dice un messaggio istantaneo inviato a 10 persone. «Non vale niente». E dato che i film "attesi" escono contemporaneamente in 80 sale e rimangono pertanto in cartellone poche settimane, per essere subito sostituiti da altri più nuovi, il verdetto iniziale e assolutamente sommario attirerà o dissuaderà migliaia di spettatori. Gli attirati andranno a vedere immediatamente quell' Harry Potter. I dissuasi, mentre magari ancora ci stanno pensando, si troveranno con la pellicola che ormai è uscita dalle sale e tutt' al più aspetteranno che esca in Dvd o che passi in televisione. Quel film è esistito veramente quando ancora non esisteva, cioè quando ancora non lo si poteva vedere. Ci troviamo così alle prese, in un certo senso, con l' applicazione letterale di quello che il tempo fa effettivamente: minuto o secondo che arriva, minuto o secondo che è già trascorso, e che in un lasso di tempo tanto breve è passato dall' essere futuro all' essere passato, dal non essere ancora arrivato all' essere andato via. L' uomo ha sempre lottato contro questo concetto (o si è autoingannato al riguardo), perché vivere in questo modo non è possibile, o quantomeno risulta opprimente e angoscioso. E dunque, attraverso la memoria e quella che è stata chiamata "proiezione di futuro", tradizionalmente abbiamo creato un falso presente che abbracciava il passato recente e il futuro prossimo, quello che si riusciva a intravedere, per evitarci la sensazione di vertigine e riuscire a convincerci di vivere all' interno di qualcosa di relativamente stabile, che non cancella e dimentica immediatamente quanto successo il giorno prima, e che conta sul domani. Abbiamo sempre avuto bisogno di un' impressione di falsa stabilità, come quella degli aerei: se in ogni secondo, in volo, avvertissimo la velocità con cui il veicolo si muove e avanza, con ogni probabilità nessuno si azzarderebbe a salirci sopra. Forse perché sono nato a metà del secolo passato (che è già stato sufficientemente veloce e rivoluzionario), mi domando a volte come possiamo sopportare questa vita tanto fuggitiva, in apparente accelerazione continua e crescente di cui non si intravede il limite. Può darsi che le generazioni più giovani siano nate già parzialmente abituate, e che nemmeno il tempo della loro infanzia - il tempo che trascorre più lentamente - abbia avuto pause o un "presente" ragionevolmente duraturo e tranquillo. La cosa strana è che in questa epoca ancora ci siano persone come noi, che quando facciamo un film o scriviamo un libro continuiamo a farlo, sostanzialmente, come facevano gli artisti del XVI secolo (per dirne uno): con la stessa lentezza, lo stesso talento artigianale, la stessa pazienza e le stesse pause. Questa grande contraddizione è un mistero: com' è possibile che a volte servano anni per "produrre" quello che il destinatario non solo "consumerà" in un paio d' ore - un film - o in una settimana - un romanzo lungo - ma che per di più, nell' atto di consumarlo, lo relegherà alla sacca fagocitatrice del "già antico"? O forse le domande da porsi sono queste: perché c' è ancora domanda di opere create in questo modo? E perché le facciamo?

© 2008 Javier Marías - Distribuito da New York Times Syndicate -
Traduzione di Fabio Galimberti
JAVIER MARÍAS

domingo, mayo 24, 2009


E quella volta...

....
che mi presentai alla prof.ssa Giulia Fanara (per l'esame di Storia del Cinema che avevo messo come "a scelta libera") e mi confessò improvvisamente che Enrico Ghezzi era così (alquanto confusionario, logorroico e debordante) anche nella vita reale, anche quando era studente universitario e citava intere frasi senza mai svelare la fonte, mentre lei, la Fanara, non ce la faceva ad evitare di mettere le note a piè di pagina, e di fatto il suo bellissimo saggio Pensare il Neorealismo (Roma, Lithos, 2000) di note ne ha tantissime, tutte documentatissime e dotte, tutte messe al posto giusto, mentre Enrico è un "magma incandescente" e non sta mai fermo, fagocita e digerisce le sue letture e non smette mai di guardare la realtà come un film, e di guardare film come se fosse una questione di vita e di morte (e io allora, dopo aver parlato del cinema western - tema del corso monografico di quell'anno - o era il "cinema ribelle" degli anni 60 e 70? - e aver preso 30) me ne andai a comprare alla Stazione Termini il tomo di Ghezzi, Paura e desiderio. Cose mai viste (1975-2000) (Milano, Bompiani, 2001) e feci subito il raffronto, non c'erano note, o erano minime, aveva ragione la prof.ssa Fanara, il libro era pieno di citazioni, ma non si sapeva quasi mai da quale pagina di quel testo citato in epigrafe derivassero, non si sapeva bene quale versione di Malone muore avesse usato Ghezzi, quale traduzione dei Fleurs du mal, quale edizione delle Confessioni di Sant'Agostino... eppure riuscivo a seguirlo, nei suoi ragionamenti su Abel Ferrara e Francis Ford Coppola, su Kubrick e Fellini, su Buster Keaton e Charlie Chaplin, su Ingmar Bergman e, soprattutto (uno dei suoi registi preferiti) Roberto Rossellini... con quel lungo piano sequenza e quella speciale inquadratura da Viaggio in Italia... che tempi, che letture, che ore di svago e divagazioni varie...

viernes, mayo 22, 2009

Ma come mai questa voglia di uscire di casa, di andare a prendere un gelato, di andare a girovagare a zonzo a guardare le gambe delle ragazze in minigonna o in gonna ogni volta che torno a Roma? Come spiegare questa voglia di vivere non appena metto piede nella capitale? E perché, quattro anni fa, quando aprii questo blog, scrissi spassionatamente che mi sarebbe piaciuto (anzi, mi piacerebbe) giacere per sempre al Verano? Da dove nasce questa spinta? Cos'è che rende Roma così bella ai miei occhi? Nostalgia? Malinconia? Distanza forzata dalla stessa?

miércoles, mayo 20, 2009


Inquietante Bufalino (II)

Ora che sono arrivato alla fine (più volte posticipata, raggiunta controvoglia, perché Diceria dell'untore è uno di quei libri che vorresti non finisse mai; perché l'opera più famosa di Bufalino rientra appieno in quella categoria di romanzi rari in cui la trama è ciò che meno conta e in cui lo stile è talmente "nuovo" e "originale" che concederesti alla voce narrante di portarti dove vuole lei, purché continui a cullarti, e a convincerti delle sue "false ragioni", delle sue scomode verità, del suo ritmo ipnotico - esperienza rara anche questa, a me è capitata solo con Joyce, Nabokov e, ultimamente, W. G. Sebald), dicevo, ora che sono arrivato all'ultima pagina e ne so molto di più, di Diceria dell'untore e di colui che l'ha scritta, mi viene voglia di rituffarmici, per respirare di nuovo la sua atmosfera, per cercare di carpire almeno un po' i segreti dei vari personaggi che la popolano, per cercare di capirci davvero qualcosa...

Provo a fare ordine (seguendo anche i consigli spassosi, talvolta seri, più spesso ironici, che Bufalino ci offre in una sorta di "Istruzioni per l'uso" e di una "Guida-indice dei temi" acclusi nell'edizione che ho - Milano, Bompiani, 1992):

1) il tema della morte e, a esso parallelo, quello della permanenza dei morti presso i vivi grazie alla parola:

- l'intero libro si presenta come una sorta di discesa agli Inferi di stampo dantesco (e nella fitta rete intertestuale la presenza di Dante non è affatto secondaria). Chi narra è un malato dato per spacciato dal medico della Rocca, una sorta di ospedale che è anche carcere o fortino o isola staccata dalla realtà terrena. Il narratore parla di morte con il Grande Magro (il medico-padrone della Rocca) e ne tenta un'analisi sia a partire dal proprio corpo che dalla contemplazione di quello di Marta (la femme fatale di cui s'innamorerà platonicamente e carnalmente come se si trattasse di una specie di strega o fantasma che potrà aiutarlo a sopportare il clima lugubre della Rocca). Sia il narratore che Marta sono due morti viventi che vagano tra i moribondi in cerca di consolazione o di un sogno che li sottrogga - seppure temporaneamente - all'influsso mortifero dell'ospedale.

Tra i pazienti, quello più piccolo, il bambino Angelo, un giovane reduce della Secondo Guerra Mondiale che dà l'ordine ad una suora di spedire lettere "fittizie" alla mamma che non lo vede da troppi anni ormai.

"In esse narrava il romanzo futuro di sè, vanta paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remore. Sua madre - ci spiegava - sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l'eco della cara voce scomparsa" (p. 20).

Le parole di una lettera che racconta fatti mai accaduti come strumenti per sopportare la vita e continuare a vivere nel ricordo di una madre che non può più riabbracciare il figlio: ecco un esempio di come i morti continuano a vivere nel ricordo dei vivi... Solo che Bufalino è autore ironico, oltre che umoristico, e aggiunge:

"Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisia, se non l'ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie di un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?)" (id).

2) la malattia come condizione esistenziale e come causa della scrittura:

- il lettore di Diceria dell'untore viene instradato su una possibile, prima e coerente ipotesi interpretativa sin dalla prima epigrafe con cui si apre il romanzo: DICERIA: "Discorso per lo più non breve detto di viva voce; poi anche scritto e stampato... Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte... Il troppo discorrere intorno a persona o cosa..." E chi è che sparla o parla troppo e a viva voce se non il febbricitante? Il narratore soffre di un male all'apparenza incurabile (la tubercolosi, che tanti morti aveva fatto prima delle scoperte mediche del 900) e patisce un continuo stato febbrile che lo spinge a sparlare, a sproloquiare, a parlare a volte in modo "automatico" sin dalle prime righe del romanzo. Che, non è un caso, si apre a caso, su una avversativa di cui ci viene sottratta la prima parte: "O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno". Febbre e sogni (e incubi) come motori all'azione, o meglio, alla narrazione. La malattia diventa quindi non solo (e non tanto) materia, contenuto portante dell'opera, ma anche (e soprattutto) condizione esistenziale "privilegiata" da cui guardare la realtà (il mondo di tutti i giorni) e condizione "ideale" per avviare l'atto di scrittura. Ovvio, dunque, che la scrittura (o la voce viva) che ne scaturisca sia contraddistinta da un ritmo sincopato e da un linguaggio e uno stile a volte di difficile decifrazione, altre volte lirico, altre ancora ermetico (insieme a Dante, Montale e le sue poesie fanno da sfondo culturale a diversi brani).
Lo sproloquio, l'abbondanza metaforica e lirica, sono cifre dello stile di questo narratore che ci parla da questa "non-esitenza" o "esistenza in crisi". Lo dice lui stesso, poche righe sotto la citazione che ho fatto dall'episodio delle lettere di Angelo:

"[...] la febbricola quotidiana metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, ma sul tardi - lo stesso capita quando si beve - un esubero di parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui io per primo (ve n'accorgerete) non ho saputo guarire mai più..." (p. 21).

3) la presenza dell'amore e l'ossessione del sesso:

- al centro di Diceria dell'untore c'è un mistero: Marta, una donna di cui il narratore s'innamora perdutamente, che possiede fisicamente, e che poi sembra abbandonare a se stessa quando s'accorge che questa finge di essere malata o smania per mostrarsi sull'orlo dell'abisso (la morte, che, effettivamente, la coglierà durante una specie di fuga dalla Rocca insieme all'amato). Di Marta il lettore sa molte cose, ma non l'essenziale. Si dice fosse di origini ebraiche e che fosse stata una "Kapò" durante la Seconda Guerra Mondiale (un'ebrea spia che offre informazioni ai nazisti per avere salva la pelle o godere di un trattamento speciale). Marta è anche l'epitome fisica di altre due tematiche centrali del libro: l'amore e il sesso. Il narratore sembra un bambino quando favoleggia intorno ad un possibile futuro insieme a Marta; e sembra un maniaco quando finalmente può spogliarla e toccarla dal vivo (ciò che più impressiona è vedere quanto sia "realistico" l'autore a mostrarci in quanti modi assurdi sono tra loro legati sesso e malattia in un contesto "lugubre" come quello dell'ospedale-fortino). C'è un brano in cui amore e sesso si compenetrano in nome di un'ironia a volte amara, altre sinceramente sarcastica:

"Che strano innamorarsi di un corpo che mangia, secerne, si svuota: denso di villi, papille, isole del Malpighi... Nomi del mio liceo di anteguerra, che mi ripetevo ora, recuperandoli al di sopra del frastuono degli anni, per servirmene a investigare la geologia di quell'umido sepolcro di carne, con la solerzia d'un generale che si curva, alla vigilia dell'invasione, su una carta di territorio nemico" (p. 78 - immagino il luccichio negli occhi dei critici della corrente psicanalitica - quanti spunti per una lettura "freudiana" di un tale approccio al sesso femminile).

4) la intentio auctoris violata:

questo quarto punto non tocca il romanzo; riguarda direttamente l'esperienza dell'autore. Gesualdo Bufalino immaginò l'impianto della Diceria dell'untore nel 1950, quando ha trent'anni suonati; completa una prima stesura dell'opera nel 1971 (quando di anni ne ha 51!); si rifiuta di mandarlo in stampa o di mostrarlo agli editori fino a quando, nel 1981, si lascia convincere dalle insistenti richieste di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia. La domanda è: perché tanto riserbo? Qual era la vera intenzione dell'autore se poi ha tenuto nascosto il romanzo per 31 anni? Una possibile risposta ce la offre Bufalino stesso nell'intervista che ha concesso a Sciascia in occasione della pubblicazione della prima edizione del libro: ha sempre sofferto di quella che lui chiama "sindrome di Wakefield" (dal personaggio dell'omonimo racconto di Hawthorne). Non è mai stato attratto dalla vittoria, dalla fama, dal successo. A lui piaceva perdere. Anche negli scacchi (di cui era un grande esperto): preferiva giocare per - alla fine - far compiere l'ultima mossa vincente e risolutiva all'avversario... Curioso scrittore, allora, questo Bufalino... E ora capisco perché piace tanto a Vila-Matas che in Bartleby y compañía ha tentato di scrivere la storia della Letteratura del No, di coloro (e sono tanti) che hanno smesso di scrivere o che non hanno mai scelto di pubblicare le loro opere pur essendo scrittori apprezzabili...
Diceria dell'untore fa riflettere anche su questo: sul perché ci sono scrittori che scrivono per pubblicare e sul perché ce ne sono altri, che, come Bufalino, hanno scritto per il puro piacere personale e senza fini di lucro o di fama... Sul mistero della creazione letteraria, dunque, e sul mistero della sua controparte: sul perché di tante parole, invece della pagina bianca.

"Io avevo compiuto un viaggio, un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia. "Veni foras" mi ordinai nel pensiero. "Lazzaro, vieni fuori". E mi rituffai nell'aria di fuori, la sentii con riconoscenza aprirsi amica ad accogliermi, farmi posto dentro di sè, come la sabbia ad un corpo nudo" (p. 132).






lunes, mayo 18, 2009


Inquietante Bufalino

Su consiglio dello spagnolo Enrique Vila-Matas, ho acquistato  - e sto leggendo in questi giorni di traslochi - Diceria dell'untore del siciliano Gesualdo Bufalino. Sono arrivato solo a metà, ma il libro mi ha già conquistato, ipnotizzato, spossato come pochi libri negli ultimi anni sono riusciti a fare... Ho saltato volutamente la pagina critica introduttiva, e l'intervista realizzata da Leonardo Sciascia e concessa allo stesso dall'autore (un tipo schivo, solitario, che avrebbe fatto a meno di "pubblicare", non fosse stato per l'intervento provvido dello stesso Sciascia). E mi sono immerso nella lettura del testo, senza guida, senza concetti precostituiti, senza neppure sapere quando, esattamente, fu scritto (so, dal risvolto di copertina, che apparve nel 1981; ma l'anno di composizione è piuttosto anteriore a quella data).

E di cosa parla Diceria dell'untore? Di morte e di malattia; di malati che, ricoverati dentro una specie di manicomio o ospizio abbandonato da Dio, sognano di avere una vita migliore, là fuori, in mezzo ai vivi. Di amore e di innamoramenti improvvisi. Come quello del protagonista (e voce narrante) per Marta (i cui polmoni sono minati da un tumore maligno, come, forse, quelli del protagonista). 

Eros e Thanatos: impulso vitale e impulso di morte. 

Si parla anche di guerra e dei ricordi legati alla guerra, in questo libro strano, scritto in una lingua sconosciuta (come direbbe Proust, sono proprio i libri che "sembrano scritti in un'altra lingua", pur essendo la nostra, pur essendo la lingua madre che conosciamo bene, a creare maggiore inquietudine, e, forse, piacere estetico)...

Chi narra l'ha fatta la guerra, e ne porta le ferite sia sulla pelle che nel cervello.

E si parla di Dio. E della sua possibile esistenza. Alcune delle pagine più belle riguardano proprio il cappellano militare, Padre Vittorio. Con lui, il protagonista ha duelli verbali intorno al Bene e al Male, a Gesù e al Diavolo. 

Le pagine in cui egli trascrive i pensieri più disperati e intimi di Padre Vittorio fanno venire i brividi. 

"Com'è difficile, Dio", dice il prete e trascive il narratore-spia.

"Pena di doversi lasciare a metà, dopo aver fatto con se stessi così poca strada, curiosità di conoscere il seguito (seppure esista altrove un copione completo...)"...

E poi questo:

"Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono. Sarà così, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge, cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?".

E infine un improperio, una bestemmia, o quasi, una sfida, un lamento alla Giobbe:

"Fatti vedere, Tu che mi spii".

Non so come finirà. E non mi interessa. Sono a metà dell'opera e questo mi basta. Voglio ritardare al massimo l'arrivo alle pagine finali. E rimanere immerso nell'inquietudine...

martes, mayo 12, 2009

Quanta fretta!

Entro fine Maggio abbandonerò questa bella casa nei pressi dell'Hotel President, per trasferirmi in un'altrettanto bella casa a qualche chilometro da qui (in tutt'altro quartiere - questo di lusso, quello popolare e più casinaro).

Nel mentre, devo ancora pensare se accettare l'ennesima tesi e su cosa indirizzare la mia studentessa che non vede l'ora di laurearsi. 

Intanto, mio fratello (di cui sotto) deve scappare a Civitavecchia per recuperare un po' di moneta. E Alyssa mi ha promesso che andremo al cinema (anche se ormai sono mesi che non abbiamo tempo nemmeno per una cena a due).

Quanta fretta! Queste riflessioni di Giacomo Marramao (uno dei filosofi più eleganti dell'attuale panorama nostrano) sembrano cogliere il segno (di quello che mi sta capitando in questo periodo; di quello che ci capita nell'era della cosiddetta iper- o post-modernità):

"La fretta dunque - non la velocità - racchiude in sé la cifra della nostra "situazione spirituale". Si tratta di una distinzione decisiva. La sindrome temporale che contrassegna la condizione ipermoderna non è la velocità in quanto tale. Il mondo greco apprezzava enormemente la velocità, che era considerata un fattore di virtù: non per nulla l'Iliade tesse l'elogio di Achille nella sua prerogativa di "piè veloce". La velocità era tuttavia virtuosa solo in quanto funzionale allo scopo: solo nella misura in cui si dimostrava capace di cogliere l'obiettivo. Non aveva spazio, all'interno della cultura greca, la dimensione della fretta, della precipitazione del tempo: la fretta, l'accelerazione insensata e imprudente, manca il bersaglio, esattamente quanto la lentezza, l'esitante indugio. Fretta e lentezza, precipitazione ed esitazione, non sono che due forme speculari di intempestività. Il modello classico, pertanto, resta legato [...] alla "virtuosa" tensione di opposti da cui si genera la decisione tempestiva: tensione cui concorrono, in pari grado, velocità e prudenza, prontezza e conformità allo scopo. La fretta è altra cosa: è il divaricarsi della velocità dalla finalità, del mezzo dal fine; è l'autonomizzarsi della velocità sans phrase, dell'innovazione come tale, del nuovo fine a se stesso".

Ma una volta appurata la differenza "abissale" che esiste tra "fretta" e "velocità", cosa possiamo dire a proposito di questa "sindrome della fretta" che contraddistingue questo nostro tempo? Da cosa dipende, in definitiva? Marramo risponde citando Octavio Paz, che parlava di "colonizzazione del futuro". Ormai, tutto - o quasi tutto - viene pensato, presentato, declinato al futuro. Con grave danno della percezione del passato e del presente; di fatto:

"Il futuro non appare più, come all'epoca della rivoluzione industriale, una dimensione liberatoria, ma una routine innovativa sotratta alla volontà dei soggetti individuali e delegata a strutture tecnologiche impersonali, che vanno dall'azienda ai grandi complessi della comunicazione globale. Il tempo non è più "a nostra disposizione", alla nostra portata, ma ci appare piuttosto come una dimensione a priori sottratta alla nostra capacità di decisione. E' come se noi moderni avessimo edificato una società futurocentrica in cui l'avvenire, anziché dispiegarsi come soluzione dei nostri problemi vitali, fosse imploso ripiegandosi in futuro passato. [e qui viene il bello, il colpo di grazia] Si è così prodotta quella sindrome della condizione moderna che era stata intuita, con straordinaria capacità anticipatrice, da Shakespeare, quando aveva messo in bocca ad Amleto quella frase bellissima e sconvolgente: The time is out of joint. "Il tempo è fuori-asse", è uscito dai cardini: "Dannata sorte", proseguiva il povero Amleto, "essere nato per rimetterlo in sesto". Come Amleto, anche noi viviamo una vita fuori-asse rispetto al presente".

O troppi protesi verso un futuro che non è tale; o troppo ripiegati nel passato. Incapaci di stare nel presente, incapaci di prendere quelle "decisioni" (come le chiama il Nostro) capaci di farci stare bene e di farci vivere in pace. Quale via d'uscita? Marramao non ne parla. Ci ricorda che la filosofia non è la panacea dei nostri mali; semmai, è uno strumento utile per riconoscere che un male c'è e va curato. 

A ognuno di noi spetta il compito che si era arrogato Amleto parlando di un tempo "fuori-asse" da rimettere in sesto; un tempo proprio come quello in cui noi - post- o iper-moderni - siamo costretti a vivere...

Quanta fretta! E che casino!

[da Giacomo Marramo, La passione del presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 99-103]


viernes, mayo 08, 2009

Io e mio fratello

Io e mio fratello ci somigliano parecchio, anche se - come diciamo sempre ogni qualvolta qualcuno ci fa notare che ci somigliano parecchio - "io sono meglio", oppure: "io però sono più bello", o infine: "io però sono quello venuto meglio".

Io e mio fratello siamo nati a un anno e mezzo esatto di distanza e per questo, fin dall'infanzia, abbiamo avuto gli stessi amici, le stesse conscenze (in termini di giochi e tv e cartoni animati) e la stessa comitiva (anche se tra i due sono io quello più grande e, quindi, più vecchio). Ricordo che da piccoli lui le buscava e io le davo. Non so per quale oscura ragione, ogni tanto, mi prendeva l'ispirazione, e dopo aver afferrato un bel masso, lo scagliavo contro la testa di mio fratello che era sempre lì, fermo e immobile, pronto, per così dire, a ricevere la sassata in testa e a versare ettolitri di sangue imberbe (con grande disperazione da parte di nostra madre, che, evitando di svenirci sotto gli occhi, riusciva non si sa come a mantenere il sufficiente sangue freddo per prendere la macchina e guidarla sana e salva fino al pronto soccorso - tra urla d'ira funesta e imprecazioni varie, una volta messi i punti sulla capoccia della vittima innocente e una volta che il dottore diceva che andava bene, che non era grave, che tra venti giorni potevamo tornare per togliere i punti).

Crescendo, mio fratello si è dimostrato sempre piuttosto reticente riguardo gli innumerevoli incidenti a base di sassi che io scatenavo per non si sa quale strana ragione, e non me ne ha mai voluto. E' uno che perdona, mio fratello: e infatti, tra noi due, sono io quello più vendicativo, o che se viene offeso a morte medita vendetta con calma e calcolo implacabili....

Anche con le donne io e mio fratello dimostriamo di avere due caratteri diversi. Lui è molto più romantico di me; o almeno, le volte che l'ho visto insieme ad una ragazza "fissa", ho potuto constatare che lui è sempre stato un gran romanticone, uno che è capace di regalare i cioccolatini per San Valentino o di fare cene a sorpresa nei giorni meno impensati (come Lunedì sera) e di infondere nel gesto tutta la sua sincera passione. Cosa che io, ahimè, non sono mai riuscito a fare, nemmeno con Alyssa... per sua grande disperazione...

Certo è che risultiamo entrambi simpatici al gentil sesso. Voglio dire: entrambi abbiamo coltivato (e continuiamo a coltivare) amicizie femminili (quando esiste una bella percentuale di maschi che sostiene che l'amicizia uomo-donna sia solo chimera, una finzione, una cosa impossibile, perché di mezzo ci sono pur sempre ormoni e testoteroni e, a meno che uno non sia gay, è davvero difficile non provare velleità sessuali o istinti di base nei confronti di un'amica magari bella e affascinante sia dentro che fuori; insomma, io e mio fratello facciamo parte di quella minoranza che ritiene che l'amicizia uomo-donna non solo sia fattibile, ma è anche un tipo di amicizia molto stimolante e appagante). 

Entrambi facciamo i comici: nel senso che, quando si tratta di intrattenere l'amica di turno, ci piace sparare sciocchezuole, battute, barzellette, per stimolare la risata dell'ascoltatrice o spettatrice che ci sopporta in quel particolare momento. E su questo, devo dire la verità: mio fratello è più bravo di me, le mie battute a volte sono davvero pietose e più d'una volta m'è capitato di sentire ridere la mia spettatrice/ascoltatrice di turno solo per compassione e/o educazione (una delle ultime battute di mio fratello, sentita al volo da un video casalingo in una finta intervista a due stile Le iene: "Lei è geloso?", e lui, secco: "No grazie"- la battuta si riferiva a una relazione che sta mantenendo da un po' di settimane con un'amica che non è proprio e solo un'amica, visto che è fidanzata e che il legittimo compagno non sa che lei gli mette le corna con mio fratello - ma questa è un'altra storia... Che comunque ci permette di capire che forse ha ragione quella maggioranza che sostiene che uomo e donna corrono sempre il rischio di finirci, a letto, anche se si dicono "amici").

Mio fratello è generoso con gli amici. Diciamo pure che per lui l'amicizia è tutto, mentre io sono sempre stato un tipo più timido, chiuso, solitario. Sin da ragazzini, lui usciva tutti i giorni per andare a giocare a calcio con la squadra del quartiere, mentre io ci rinunciavo per starmene chiuso in cameretta a leggermi tutto Edgar Allan Poe... Idem i sabato sera: quando lui, novello maggiorenne, usciva per andare a imbroccare in discoteca, io preferivo starmene seduto sul divano a guardarmi in vhs un film di Abbas Kiarostami (per fare un es. a caso).

Mio fratello è così legato ai suoi amici che morirebbe senza di loro; questo spiega anche perché, a differenza mia, lui sia così fissato con i social networks, tipo Facebook, uno strumento che io non utilizzo e non ho alcuna intenzione di utilizzare in futuro proprio perché non mi piace starmene lì a vedere chi mi ha scritto cosa e chi mi ha invitato a cosa e dove e quando. 

Mio fratello, di fatto, è uno che passa gran parte del suo tempo a contatto con le persone: fa l'avvocato, e un'avvocato senza contatti (e senza parlantina) è un'avvocato spacciato. Sin da piccolo, mio fratello era un gran retore: chiacchierava con tutti, adulti e bambini, e se non lo stavi a sentire o ti distraevi per un minuto dalla sua ciarla (o dai suoi ragionamenti strampalati), si incazzava come una scimmia e ricominciava daccapo.

Lui aspira ad aprirsi uno studio tutto suo; io aspiro ad una cattedra. Un prof. e un avvocato, in famiglia, sarebbero utili. Diciamo pure che sarebbe come vincere al lotto. Per ora, ancora non è così; comunque, stiamo lavorando per voi...

Non è allora un caso se io scrivo un blog e mio fratello sia associato a Facebook. La prefenza per l'uno o per l'altro mezzo della rete ribadisce le nostre differenze di carattere e a me personalmente mi fa stare tranquillo: perché io non so con chi andrà a cena stasera, e lui non leggerà mai questo post in cui io parlo di lui in termini tanto positivi (e forse anche troppo elogiativi).

Quando sto male o cado in depressione o ho voglia di farmi due risate, so in anticipo che posso contare su di lui; mio fratello mi vuole bene, anche se non me lo dice mai, e sa pure che io lo ricambio (anche se nemmeno io faccio mai menzione di questo affetto). Se lo chiamo, si sgancia da Facebook, stacca la spina dai clienti che non pagano e ascolta le mie litanie. 

Inutile aggiungere che, le rare volte che è lui a chiamarmi, io faccio lo stesso: smetto di scrivere il blog, stacco dall'Università, e mi accingo a sentirlo lamentarsi di tutto (Roma e i romani, i clienti che non pagano, gli "impicci" vari dei suoi amici, le tresche delle amiche)...

Io e mio fratello siamo fatti così, o almeno credo. Ed è sempre bello rivedersi a Roma, dopo mesi di distacco forzato, dopo giorni passati dietro ai mille guai quotidiani, ed è bello poterceli raccontare a vicenda, magari seduti in cucina, davanti a un qualche programma demenziale, sorseggiando del buon Montepulciano d'Abruzzo (ecco, in questo sì, i nostri gusti sono identici: entrambi preferiamo il vino rosso, e se è doc e delle nostre parti, ancora meglio).

martes, mayo 05, 2009


1 Maggio

 

E’ il 1 Maggio e io, per festeggiare, lavoro, ovvio. Mi sono riperso (per la terza volta nel giro degli ultimi tre anni) il concerto di Piazza San Giovanni a Roma, evento dell’anno, sorta di San Remo al contrario, popolato da tanti cantanti trendy o alternative e “impegnati” (sempre che il termine abbia ancora senso, oggidì). Mi ricordo quella sera, con Gabriele, quando vincemmo una gara a base di sangría con un gruppo di spagnole di Marbella. Il giorno dopo mi alzai alle 8 per andare a lezione di Letteratura Italiana Contemporanea (la lezione si teneva nella storica Aula I di Lettere, iniziava alle 9; dirigeva il maestro Walter Pedullà; io vedevo draghi e pinguini al posto di lavagna e banchi). Quanti bei ricordi, legati a quel giorno passato indefessamente sotto il sole più cocente e la pioggia più battente (caldo o freddo, non importava, l’importante era stare tutti insieme a sentire Elisa che cantava Redemption Song di Bob Marley o gli Afterhours che ci insegnavano che “non è per sempre”, anche le crisi, prima o poi, passano, anche se lasciano il segno – quanta importanza assumono certe canzoni quando si è ancora adolescenti o sulla soglia della giovinezza). E i gabbiani che solcavano il cielo di Roma ci facevano venire in mente foto mai scattate (con quelle nuvole striate all’orizzonte e gli elicotteri che ci passavano sopra la testa per le riprese dall’alto che poi, in prima serata, il Tg3 avrebbe mandato in onda – con la solita discrepanza di dati tra organizzatori e polizia di Stato: 800mila per i sindacati – leggo con gioia su internet – 80mila secondo la questura di Roma, che ridere, ragazzi). Mi sono perso tutto, sia Sergio Castellitto che Vasco Rossi (anche se lui non mi fa impazzire, ma è davvero bravo a coinvolgere il pubblico e, nonostante gli anni e gli acciacchi, che voce possente, che grinta da vendere, come direbbe la pubblicità, accidenti – un cliente entra e vuole la chiave: gliela do? Ma non vede che c’è il Blasco, cristosanto!).

E’ il 1 Maggio e qui da noi è nuvoloso, mentre a Roma regna il bel tempo. Quante volte, da studente, sono rincasato tardi e mi sono fatto la barba alle 4 del mattino, prima di prendere cornetti e cappuccino (fa pure rima) e andare a buttarmi sulla brandina per un paio d’ore in attesa di scendere le scale, prendere la metro e assistere all’ennesima lezione (questa volta di Storia del Cinema – ma non ho mai avuto fortuna, in questa materia, ho sempre trovato prof. poco interessanti, poco stimolanti, poco curiosi – chi sul cinema di Peter Greenaway, chi su quello impegnato di Abel Posse, chi sul western di Sergio Leone, ma nessuno che mi abbia mai  illustrato, pongo alcuni esempi: il finale di Tempi moderni di Chaplin, o l’incipit di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, o il bel mezzo di Apocalypse Now di Coppola, come invece ho sentito fare da parte di Sandro Bernardi qui a Firenze… questione di sfiga, i professori, si sa, sono come i genitori: ti becchi quelli che ti toccano in sorte, non puoi scegliere – o forse no, i prof. li puoi scegliere, basta non presentarsi a lezione o cambiare materia e modificare il famoso e famigerato “piano degli studi” – mia cugina è un mito, prima della tesi di laurea, lo avrà cambiato un cinque sei volte, che indecisa, santoddio!).

Mi sono perso il 1 Maggio e anche se so (per certo) che potrò rivedermelo in tv (perché si da il caso che lo abbia registrato su VHS con il mio nuovo fiammante videoregistratore con lettore dvd integrato – domanda al genio che l’ha montato: perché cazzo è possibile registrare un dvd su vhs e non è fattibile l’operazione inversa? Risposta: non si sa proprio, non immagino chi possa essere quel folle che si compra una vhs vuota per riversarvi dentro il contenuto di un dvd originale o magari piratato), dicevo, anche se lo so che me lo potrò rivedere in tv, seduto comodamente sul sofà, so già anche che non sarà mai la stessa cosa (lo dice anche Jean Baudrillard in un articolo interessante apparso ieri su Repubblica in cui lo scrittore-teorico francese discetta della natura od ontologia o natura ontologica della fotografia: ciò che vedi non è l’oggetto che vedi ma lo sguardo del soggetto che si è posato temporaneamente su quel dato oggetto), e, quindi, non sarà come quando di quel concerto io facevo “parte” (insieme a centinaia, o forse, migliaia – secondo i sindacati – di altri studenti, giovani, fuoricorso o fuorisede o tutte e due le cose insieme, esultanti, “accannati”, sbronzi e festosi – come lo ero io e mio fratello e tanti altri).

E allora, per non pensarci, per non pensare che io lì non c’ero, mi guardo un’altra cosa, m’imbatto in quella brava e bella presentatrice giovane, comesichiama, Lucilla e qualcosa, o Ludmilla, quella che è venuta fuori grazie ai programmi musicali di All Music, ora non mi sovviene il nome per esteso, e mi piace, è bionda, un po’ troppo magra, magari, per i miei gusti, ma parla bene, ha un’ottima dizione, e sembra interessante, non mi dà l’aria di una velina o di una sciocchina o di una berlusconiana (di una che magari chiama Papi il premier che passa), sì, insomma, sembra dotata di ragione e cervello, e mi piace ancora di più quando afferma che le piace la pornografia, che male c’è, non ci vedo nulla di male neppure io, anche se, come insegna Pasolini, la pornografia non potrà mai aspirare a essere arte, è “altro dall’arte”, per definizione, per la sua natura ontologica, non ci riuscirà mai, indipendentemente dalle scelte dell’artista (e il pensiero corre a Cannes: lì Lars von Trier presenterà Antichrist, un film i cui primi 6 minuti vedono i due attori protagonisti gioiosamente impegnati in un amplesso esplicito, fino a quando il figlio non si getterà giù da un balcone rompendo l’incantesimo e forse il vicino orgasmo in sincrono…).

E’ il 1 Maggio e io ho lavorato come un mulo, e mi sarebbe piaciuto esser-ci (là, invece di qua), ma tant’è (esser-ci). 

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...